MARINE LE PEN SORPASSATA A DESTRA DA ZEMMOUR, CON IL PADRE CHE STILLA GOCCE DI VELENO
MACRON SI GODE IL DUELLO RUSTICANO TRA SOVRANISTI
È stata una bella rimpatriata nel castelletto di Montretout, sulla collina di Saint-Cloud, con vista sullo skyline azzurro-cenere di Parigi.
Jean-Marie Le Pen padrone di casa, invitati Ursula Painvin e Éric Zemmour. È successo nel gennaio 2020, ma quale miglior momento di rivelare questo incontro conviviale se non adesso che Zemmour veleggia intorno al 15 per cento di intenzioni di voto per la presidenziale di primavera?
È ormai a poche incollature da Marine Le Pen nei sondaggi e pur non essendo ufficialmente candidato è diventato l’uomo della campagna.
E dunque nessuno si è scandalizzato né ha smentito lo scoop firmato Le Monde su questo pranzetto tra amici di quasi due anni fa. Tanto più che da Berlino Frau Painvin ha fatto ora arrivare a Zemmour il suo incoraggiamento con “ammirazione e amicizia”. E al vecchio Le Pen (93 anni) un altrettanto ammirativo “bisognerebbe clonarti!”
Che il clone tanto atteso di un padre che ha ripudiato la figlia Marine sia davvero Zemmour? E perché tanto clamore intorno a quel convivio?
Perché Ursula Painvin, 88 anni, è la figlia di Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri di Hitler, condannato a Norimberga e impiccato come uno dei gerarchi più vicini al führer.
Irresistibili suggestioni ne sono nate e se le colpe dei padri non ricadono certo sulle figlie, come si può non appiccicare all’immagine già sufficientemente scabrosa di Zemmour, dichiarato ammiratore del maresciallo Pétain capo della Francia collaborazionista, un evidentemente gradito accostamento al soffio neonazi?
Tanto più che il suo cavallo di battaglia è l’immigrazione con la denuncia dell’invasione aliena, scandita a tamburo battente e senza giri di parole, come se il fatto di essere un francese di origine ebraica e berbera gli desse la libertà di dire qualunque cosa.
Per esempio fustigando i genitori musulmani che mettono nomi francesi ai loro figli per sottrarli all’evocativa ripetizione di Mohammed. O affermando che “non c’è differenza tra islam e islamismo” con la conseguenza incendiaria che tutti i musulmani (6 milioni in Francia) appaiono come potenziali terroristi.
Sessantatre anni, giornalista al Figaro (ex), formidabile e seguitissimo polemista in tv, aggressivo, sferzante, spietato, magrissimo, dalla mimica nevrotica, Zemmour è l’autore di un libro “Le suicide Français” (centoventimila copie vendute in una settimana) che nel 2014 ha cambiato il dibattito politico legittimando tesi come quella del “grand remplacement” fino ad allora un’ossessione agitata come uno spettro dall’estrema destra intellettuale.
Secondo questa teoria gli immigrati arabi e neri sarebbero in procinto di prendere il sopravvento nella Francia e nell’Europa bianca e sulla sua cultura giudaico-cristiana. È il rilancio del ricorrente sentimento francese per la perdita della “grande nation”, l’invettiva contro questo casino del mondo globalizzato, contro l’appiattimento dell’Europa miscredente e multiculturale.
È il pacchetto che chiamiamo usualmente populista-sovranista-nazionalista, confezionato da Zemmour in un mattone di oltre 500 pagine. “La France se couche, la France se meurt”.
Tutta colpa delle élites eredi del 68 che “sputano sulla tomba e calpestano il cadavere fumante della Francia – scrive -. Hanno disintegrato il popolo, privandolo della sua memoria nazionale per incultura, lo hanno frantumato attraverso l’immigrazione selvaggia…”
È questo il rumore di fondo della politica che ha segnato questi anni e accompagnato la crescita di Marine Le Pen nel 2017 arrivata al ballottaggio per l’Eliseo contro Emmanuel Macron, ampiamente perso ma con un non disprezzabile 33 per cento di voti.
Senonché madame, apparsa irrimediabilmente inadeguata nel faccia-faccia tv con il tecnocrate secchione Macron, in questi cinque anni si è persa, sconfitta a nord e a sud nelle elezioni regionali e dipartimentali, finendo alla fine sfigurata nel suo ossessivo tentativo di normalizzarsi.
Ma può una Le Pen de-lepenizzarsi? Può la figlia del duce nero Jean-Marie, cresciuta nel parco di quel castelletto di Montretout che fu donato al padre dall’erede di una grande famiglia di industriali filonazisti, far finta di essere a capo di un partito né di destra né di sinistra?
Siamo ben oltre l’impresa di Giorgia Meloni che deve emanciparsi dal suo passato missino, senza ripudiare la militanza nel partito di Almirante. Ma se in Fratelli d’Italia si troverà sempre qualcuno che fa il saluto romano o peggio, Marine Le Pen ha a che fare con l’ombra ingombrante di un padre che stilla tuttora gocce di veleno sulla figlia accusandola di aver abbandonato il campo della destra patriottica e annunciando che appoggerà Zemmour, se sarà meglio piazzato di Marine.
In questo frattempo lui ha coltivato se stesso, libro dopo libro (l’ultimo è stato rifiutato dall’editore Albin Michel) ha levigato la sua immagine che correva parallela – ma in senso contrario – all’evoluzione della Le Pen.
Tanto lei convergeva sul centro, quanto più lui andava a destra comparendo qua e là, applauditissimo, in occasioni di partito, ma soprattutto punteggiando di provocazioni i suoi interventi sulla CNnews Tv dell’arrembante finanziere corsaro Vincent Bolloré (chiedere a Berlusconi per i dettagli sui cinque anni di battaglie per il controllo di Mediaset) già sponsor e supporter di Nicolas Sarkozy.
E ora persino Macron, che non si era mai scomodato neppure di citarlo, pur rappresentando l’idealtipo del suo bersaglio, si è peritato di controbattere con un’allusione al rullo identitario di Zemmour: anche noi coltiviamo l’identità, ma per allargarla, non restringerla.
Colpi di fioretto dalla distanza, mentre la destra che fu gollista non ha ancora scelto il suo candidato (Xavier Bertrand, governatore del Nord, o Valérie Pecresse, governatrice dell’Île de France?) e la sinistra si divide in quel fazzoletto di opinione pubblica che non va oltre il 25 per cento tra la socialista verde sindaca di Parigi Anne Hidalgo e il verde molto greenpeace Yannick Jadot, fresco vincitore al 51 per cento di contrastate primarie nell’universo ecolò.
Al primo punto del suo programma, la demolizione dell’istituzione presidenziale, che per un candidato presidente è piuttosto audace.
Dunque, profetizza Franz-Olivier Gisbert, ex direttore di Le Point, macronista, ma brillantissimo biografo di presidenti, la destra ha “davanti a sé un boulevard”, Zemmour dice quello che nessuno ha il coraggio di dire, bisognerà vedere se avrà anche il coraggio di fare. O se alla fine, lui e Marine sommeranno voti e sentimenti in una candidatura unica da giocarsi a testa e croce.
Macron, per ora, sorride a questo duello rusticano e iscrive il labrador Nemo tra i militanti di campagna: “I cani fanno parte della vita dei francesi”, è la sua ultima esternazione politica di ieri sera dall’Eliseo. Applausi dagli animalisti.
(da Huffingtonpost)
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