PREMIERATO, CAPO DELLO STATO, DIMISSIONE DEGLI INDAGATI: FACT CHECKING DELLE PAROLE DELLA MELONI IN CONFERENZA STAMPA
PUNTO PER PUNTO LE FALSITA’
Giorgia Meloni ribadisce di non voler toccare alcuna prerogativa del presidente della Repubblica: «Quando ho presentato la riforma costituzionale del premierato, la prima cosa che ho detto è di non toccare poteri del presidente della Repubblica e infatti non li tocchiamo. Manteniamo intatto il ruolo del presidente della Repubblica perché è giusto così e perché è sempre stato una figura di assoluta garanzia».
È falso.
La riforma del premierato, così come è stata presentata dalla ministra Elisabetta Casellati, toglie al Capo dello Stato il potere di nomina dei senatori a vita, la cui figura viene eliminata dal sistema parlamentare. Incide quindi su un potere del Quirinale previsto dalla Costituzione.
Tocca poi quei poteri attribuiti al Colle per “prassi costituzionale”, perché il presidente della Repubblica, con l’elezione diretta del premier, non avrà più modo di scegliere quale presidente del Consiglio nominare. Vede limitati, poi, anche i poteri di scioglimento delle Camere, perché non potrebbe più tenere in piedi la legislatura trovando maggioranze alternative in caso di caduta del premier incaricato (e di successiva caduta dell’eventuale “premier di scorta” che la stessa maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni potrebbe nominare). Una volta sfiduciati il premier e il successivo “premier di scorta”, il Capo dello Stato sarà obbligato a indire nuove elezioni.
Nel nome del garantismo, Giorgia Meloni rigetta l’ipotesi di dimissioni di esponenti del suo governo senza che ci sia una condanna definitiva: «Credo che le cose si valutino a valle. Io non ho mai chiesto le dimissioni di Conte quando è stato indagato. A sinistra si è garantisti coi propri e giustizialisti con gli altri. Non funziona così».
Vero e falso.
Meloni non ha mai chiesto le dimissioni di Conte quando è stato indagato nell’inchiesta sulla gestione del Covid-19, ma non sempre ha atteso l’ultimo grado di giudizio per chiedere un passo indietro dei suoi avversari politici. Spesso, per la verità, non ha aspettato nemmeno che si arrivasse a processo.
Nel 2017 il ministro dello Sport Luca Lotti viene coinvolto nell’inchiesta Consip, recentemente rinviato a giudizio, ma Meloni non vuole attendere di «valutare a valle» e appoggia subito l’idea di una «mozione di sfiducia».
Nel 2016 diventano «dimissioni doverose» quelle di Federica Guidi, ministra dello Sviluppo economico nell’allora governo Renzi, colpita dall’inchiesta sul petrolio in Basilicata, che poi finirà in un nulla di fatto. In quella occasione Meloni estende addirittura l’invito alle dimissioni al premier Matteo Renzi e a «tutto il suo governo».
Nel 2013 pretende le dimissioni per due ministri. Chiede senza successo quelle di Annamaria Cancellieri, coinvolta nella vicenda Ligresti per le sue telefonate ai familiari del costruttore: «Il suo comportamento è stato totalmente inopportuno, credo che il ministro non abbia più la possibilità di avere un mandato pieno», diceva la leader di Fratelli d’Italia. E nello stesso anno ritiene sia doveroso un passo indietro di Josefa Idem, ministra alle Pari opportunità del governo Letta, al centro delle polemiche dopo un accertamento disposto dal comune di Ravenna che le contestava l’Ici non pagata per quattro anni e delle irregolarità edilizie: «Le dimissioni da ministro sarebbero un gesto importante e significativo, un forte segnale di rispetto verso le Istituzioni», sentenzia Meloni prendendo la parola nell’Aula della Camera.
Per rispondere all’accusa delle opposizioni di aver trasformato la Rai in TeleMeloni, la premier ricorda il caso di Paolo Corsini, che alla festa di partito di FdI si rivolse ai militanti usando il «noi» e attaccò la segretaria del Pd Elly Schlein. «Ho visto – dice Meloni – le richieste di dimissioni per un giornalista Rai che ad Atreju ha criticato il segretario di un partito. Io sono stata criticata da giornalisti della Rai per una vita, ma nessuno ha mai detto una parola. E sono d’accordo che non si dica una parola, perché la libertà di stampa è anche quella».Se quella di Meloni non è un’affermazione falsa, è quantomeno fuorviante.
Corsini, infatti, non è un «semplice» giornalista Rai, ma è direttore degli Approfondimenti. Si tratta quindi di uno dei massimi dirigenti del servizio pubblico televisivo italiano. E se i giornalisti devono poter avere il diritto di critica che Meloni rivendica, i dirigenti Rai dovrebbero invece essere imparziali e, soprattutto, apparire imparziali.
(da La Stampa)
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