RENZI E L’INCUBO DI CADERE NELLA PALUDE: SPUNTA L’EXIT STRATEGY DEL VOTO A OTTOBRE
IPOTESI VOTO ANTICIPATO CONSIDERATA UNA CARTA DA GIOCARE…SE FORZA ITALIA DIVENTA IL TERZO PARTITO, BERLUSCONI NON HA INTERESSE A VOTARE CON L’ITALICUM… E SALTEREBBERO LE RIFORME
Una piccola scala d’emergenza per tirare fuori il collo dalla eventuale palude che rischia di allagare la politica e le istituzioni dopo le elezioni europee di domenica prossima.
Una porta con una scritta ben chiara: elezioni anticipate. Appunto in autunno.
Ormai sono in tanti a parlarne. A considerarla la carta da giocare se tutto dovesse andare per il verso sbagliato. Nel centrosinistra e nel centrodestra. Nel governo e nel Partito democratico.
Certo quel “se” è ancora molto grande. Eppure per molti, nel corso di questa campagna elettorale, sta diventando via via sempre più piccolo. Mentre crescono le probabilità di votare a ottobre «per dare una svolta».
«Per quanto mi riguarda — ripete Matteo Renzi ad ogni occasione — le elezioni sono fissate per il 2018».
Ma a Palazzo Chigi alcuni dei suoi collaboratori hanno iniziato a prendere in considerazione proprio la “rivoluzione d’ottobre”.
Dopo l’inchiesta Expo, l’arresto di Scajola e il voto su Genovese, i calcoli sono diventati sempre più serrati.
Illustrano i vantaggi e gli svantaggi di una soluzione di questo tipo. Vagliano le condizioni che a partire dal 26 maggio potrebbero modificare e sbilanciare l’attuale assetto. E il tutto si basa su questo interrogativo: una ipotetica avanzata del Movimento 5 Stelle è in grado di mettere in crisi l’attuale equilibrio?
Dipende dalla quota che i grillini raggiungeranno e dal loro distacco rispetto al Pd e a Forza Italia.
Tra i democratici e forzisti infatti sta avanzando una sorta di “demone”. Una paura per certi aspetti incontrollata che i pentastellati si avvicinino a insidiare la soglia di successo del Pd e che il distacco da Berlusconi riduca Forza Italia definitivamente al ruolo di terzo partito.
Ieri, nel Transatlantico di Montecitorio, era scattato l’allarme tra deputati di prima nomina e veterani raggiungendo i massimi livelli.
Un turbinio di bigliettini passava di mano in mano con i dati degli ultimi sondaggi. E ogni volta tutti sgranavano gli occhi. Scuotevano la testa e se ne andavano.
Se quei numeri venissero confermati — è il ragionamento che molti fanno nel governo e nelle Istituzioni — il primo effetto sarebbe il disconoscimento da parte del Cavaliere del cosiddetto “patto del Nazareno”. La vittima istantanea sarebbe dunque l’Italicum. L’ex premier non potrebbe più accettare una legge elettorale che prevede il ballottaggio tra i primi due partiti e quindi la sua ininfluenza.
La riforma costituzionale — l’abolizione del Senato — salterebbe un minuto dopo. Senza contare che diventerebbe più complicato cambiare il sistema di voto e il quadro istituzionale senza o addirittura contro il M5S eventualmente irrobustito dalle urne europee.
«Per quanto mi riguarda — dice proprio Berlusconi in queste ore — quell’impianto di riforme già non esiste più». Il leader forzista è già passato ad una sorta di “fase due”. Quella della «difesa a oltranza».
Prova a ricucire con l’ex delfino Alfano nella speranza di poter unire i voti di tutti i “satelliti” del suo schieramento (in primo luogo la Lega e Fratelli d’Italia) e sommarli a quelli del Nuovo centrodestra. Per provare a dire dopo il 26 maggio che la sua coalizione è ancora competitiva. Ma lo stesso Cavaliere non nasconde il suo pessimismo: «Sarà inutile».
Al punto che già non esclude con i suoi fedelissimi la strada della disperazione: «Un governo di unità nazionale».
Ma ci sarebbe anche un secondo effetto. Ed è quello che alcuni degli uomini che frequentano Palazzo Chigi stanno valutando con più attenzione.
Far saltare le riforme significa far precipitare il governo nella «palude». Una delle «ragioni sociali» di questo esecutivo verrebbe di fatto meno.
Come scrive l’”Economist” nel suo ultimo numero riferendosi a tutta l’Europa e alla carica del fronte populista e “no-euro”, «la disillusione degli elettori può provocare una nuova crisi».
Renzi più di una volta ha spiegato che sulle riforme «ci metteva la faccia».
Paralizzare il percorso di modifica della Carta equivale allora ad elidere la sua “mission” fondamentale.
«Ma se Forza Italia dovesse andare male è il suo ragionamento — ancora di più sarà costretta a blindare la legislatura».
Ma a questo discorso viene spesso chiosato dai suoi collaboratori: «E se non fosse così?». Il suo incubo peggiore prenderebbe forma: l’impossibilità di agire e l’esposizione al ricatto di un governo insieme a Forza Italia. «Inaccettabile».
Ma c’è di più. In autunno, quando entrerà in gioco la legge di Stabilità , il governo dovrà — così prevedono i programmi — procedere con un’altra gigantesca opera di “Spending review”: circa 19 miliardi.
Allora in tanti si domandano: è possibile incidere sulla spesa in maniera così pesante senza un mandato elettorale e con le urla dell’opposizione ingigantite dal megafono elettorale del 25 maggio?
È possibile tenere il passo di 400 miliardi ogni anno di roll over nel debito pubblico (emissione di titoli di Stato) in queste condizioni?
«Forse — è la soluzione che alcuni dei collaboratori di Renzi stanno prospettando — bisogna chiedere un parere agli elettori. Non ci possiamo assumere certe responsabilità da soli, lo devono fare gli italiani».
Chiedere insomma un incarico pieno, suffragato dalle urne.
Eccola dunque la “exit strategy”. Ma si tratta comunque di un percorso pieno di incognite. Due delle quali gigantesche.
La prima riguarda proprio la legge elettorale. Il rischio del voto a ottobre sarebbe quello di presentarsi agli italiani con il cosiddetto “Consultellum”, un sistema completamente proporzionale corretto solo dalle soglie di sbarramento.
La possibilità che si riprecipiti nell’ingovernabilità sarebbe assai consistente. Non a caso sia nel Pd, sia in Forza Italia sta rispuntando l’idea di una sorta di «riforma transitoria»: il ritorno al Mattarellum.
La seconda incognita è il Quirinale. Napolitano ha più volte fatto sapere che non intende sciogliere le Camere senza una nuova legge elettorale.
Piuttosto sarebbe pronto a dimettersi. Ma se tutto dovesse precipitare, le sue dimissioni risponderebbero anche ad un’altra esigenza: quella di far eleggere dall’attuale Parlamento il nuovo capo dello Stato.
Quello che gli ha rinnovato il mandato e che offre le maggiori garanzie dal punto di vista della “successione democratica”.
Tutto però, prima di ogni cosa, dovrà essere misurato dal dato reale dei risultati elettorali di domenica prossima e non dalla emotività dei sondaggi. «Per quanto mi riguarda io voglio andare avanti fino al 2018», ripete ad ogni piè sospinto il presidente del consiglio.
Ma molti a questo punto vogliono capire se le elezioni di domenica prossima saranno davvero un viatico per la fine della legislatura.
Claudio Tito
(da “La Repubblica”)
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