RIARMO DELLA UE, ECCO QUANTO PAGHERA’ L’ITALIA
IL PIANO DI DIFESA UE: CHI PAGHERA’?
Nell’ultimo vertice della Nato, che si è tenuto nel giugno scorso all’Aia, i 32 Capi di Stato e di governo hanno deciso di portare dal 2 al 5% del prodotto interno lordo l’ammontare della spesa militare. Non è un obbligo giuridicamente vincolante, ma un impegno politico da raggiungere entro il 2035 e che, per altro, prevede una verifica nel 2029. La soglia del 5% è divisa in due parti: il 3,5% è la spesa per gli armamenti, il restante 1,5% riguarda infrastrutture, telecomunicazioni, cybersicurezza. Il vero numero su cui ragionare è dunque il 3,5%: significa passare, in dieci anni, dagli attuali 1.451 miliardi di dollari (dati Nato riferiti al 2024) a circa 1.750 miliardi di dollari. Si tratta però di stime basate sui valori attuali del prodotto interno lordo:
da qui a dieci anni il Pil dovrebbe aumentare, ma anche rimanere stagnante e di conseguenza l’ammontare in termini assoluti delle spese potrebbe crescere o rimanere stabile. In ogni caso quasi tutti gli europei, qualunque sia il livello del prodotto interno lordo, dovranno incrementare la percentuale di spesa destinata alla difesa. Fanno eccezione Stati Uniti, Polonia e Paesi Baltici che il 3,5% lo raggiungono già. E quindi non dovranno sborsare altri soldi, a meno che non decidano di aumentare la quota destinata alla difesa per altre ragioni.
Il prezzo per i Paesi Ue
Nel 2024 i Paesi dell’Unione hanno destinato 362 miliardi di dollari alla difesa, una somma pari all’1,9% del Pil. Per arrivare al 3,5% bisognerà salire in dieci anni più o meno a quota 600 miliardi. Sulla base dei valori correnti, dunque, dovranno aggiungere al livello attuale di spesa circa 240 miliardi di dollari; l’Italia 34. Ma a che cosa servono tutte queste risorse aggiuntive? Dal vertice di Vilnius del 2023 in poi, i generali della Nato e dei vari Paesi hanno elaborato un piano dettagliato che prevede, in grandi sintesi, quattro aeree di intervento: il potenziamento di cinque volte della difesa aerea, comprendendo i jet, le batterie antimissili, i droni; il rafforzamento dei battaglioni di manovra; l’aumento delle armi a lunga gittata; la logistica. E ogni Paese dovrà contribuire, aumentando le spese militari e quindi i mezzi da mettere a disposizione dell’Alleanza. È bene ricordare di nuovo che nel 2029 i 32 membri della Nato si riuniranno per decidere se confermare questo piano, oppure
ridurne i costi. Per altro nel 2029 Donald Trump, che ha imposto l’aggravio delle spese per gli europei, avrà chiuso il suo mandato alla Casa Bianca.
Il piano di Bruxelles
Su un binario parallelo corre la strategia studiata dalla Commissione europea. I governi dei principali Paesi europei e le istituzioni di Bruxelles condividono un concetto di fondo: la difesa comune dell’Unione non può fare a meno della presenza degli Usa ancora per diversi anni, pertanto serve costruire un pilastro europeo che possa contare di più nelle decisioni politiche e militari della Nato. Su questa premessa politica si è innestato il progetto della Commissione, «Readiness 2030», entrato in vigore il 29 maggio scorso e che spinge gli europei a investire nella difesa con una velocità superiore a quella prevista dalla Nato, quattro anni anziché dieci. Il motivo è che abbiamo una minaccia alle porte, gli stock di alcuni Paesi si sono svuotati a causa degli aiuti all’Ucraina e, in più, abbiamo sistemi di difesa tecnologicamente arretrati. Tradotto in euro comporterebbe una spesa totale di 800 miliardi di euro. In realtà, al momento, gli unici fondi a breve disponibili sono i 150 miliardi di euro del fondo Safe(Security action for Europe) che la Commissione recupererà sul mercato con la formula dell’indebitamento comune, dove sarà l’Unione europea a fare da garante. Questi soldi verranno prestati ai Paesi che ne faranno richiesta, con un basso tasso di interesse, da iniziare a rimborsare dopo 10 anni e da estinguere in 45 anni.
Le condizioni del prestito
Per ottenere il prestito i singoli governi dovranno fare acquisti congiunti almeno insieme a un altro Stato europeo. Il Regolamento precisa anche quali sono le due categorie di armamenti da acquistare, definite sulla base dei criteri fissati dalla Nato. Prima categoria: munizioni, missili, sistemi di artiglieria. Seconda: difesa anti-area, droni, vigilanza spaziale, applicazioni belliche dell’intelligenza artificiale e dell’elettronica. Inoltre il 65% dei componenti di ogni prodotto deve essere costruito in un Paese europeo. Finora hanno chiesto di utilizzare i fondi «Safe» 19 governi, tra i quali l’Italia, ed entro la fine di novembre dovranno sottoporre i progetti dettagliati a Bruxelles. Il Paese più attivo è la Danimarca che ha ipotecato 46,7 miliardi; segue la Polonia con 43,7 miliardi. L’Italia è sesta con 14,9 miliardi di euro.
Dal 2020 al 2024, gli Stati Uniti hanno fornito il 63% delle armi comprate dai Paesi dell’Unione europea
Acquistare made in Ue
La norma pone un argine all’acquisto di armi «made in Usa», ma solo per quanto riguarda il fondo da 150 miliardi garantito dalla Ue. Nello stesso tempo, però, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, all’inizio di agosto nel quadro dell’accordo con Trump sui dazi, ha sottoscritto l’impegno europeo ad acquistare armi americane. È una contraddizione che resta sul tavolo. Anche perché, dal 2020 al 2024, gli Stati Uniti hanno fornito il 63% delle armi comprate dai Paesi dell’Unioneeuropea, come ha notato Mario Draghi nel suo «Rapporto sulla competitività» (2024). Nelle prossime settimane la Commissione presenterà un aggiornamento della strategia, che prevede il muro antidroni sul fronte Est. Ma dove si vanno a trovare i 650 miliardi che mancano per arrivare agli 800 del piano von der Leyen? Ci sono solo ipotesi.
Sforamento del patto di stabilità
Per raggiungere l’obiettivo del 3,5% fissato dall’Alleanza Atlantica, i Paesi Ue, che oggi spendono in media 1,9%-2% di Pil, potrebbero essere costretti a sottrarre risorse alle altre voci di bilancio: sanità, pensioni, istruzione e così via. O, in alternativa, dovrebbero aumentare il deficit rischiando, però, di sforare il patto di stabilità. Per uscire da questa strettoia la Commissione offre la possibilità di sforare dell’1,5% i vincoli previsti dal patto di stabilità, ora fissato al 3% del Pil. In pratica Bruxelles consente di arrivare fino al 4,5% per finanziare la spesa per gli armamenti aumentando l’indebitamento, senza toccare gli altri capitoli del bilancio e senza finire in procedura di infrazione. Una clausola di salvaguardia che varrà quattro anni (cioè il tempo del mandato della Commissione). Secondo le stime di Bruxelles, se tutti i Paesi Ue adotteranno questa clausola, se decideranno di aumentare la spesa per la difesa in quattro anni e non in dieci, se alcuni di loro volessero spendere di più del 3,5% fissato dalla Nato (vedi Polonia, Germania, Baltici) si potrebbe arrivare ad una spesa aggiuntiva pari a 650 miliardi di euro.
Riassumendo: il riarmo europeo procederà su due binari. Il
primo è rappresentato dal fondo Safe e prevede un minimo di coordinamento tra i singoli Paesi. Il secondo, cioè la possibilità di sforare il tetto del deficit, è lasciato alla discrezionalità dei singoli governi. Come si muoveranno?
La dipendenza Usa
Si parte da un quadro pesantemente condizionato dai contratti conclusi negli anni scorsi con le industrie americane. In particolare gli ordinativi che riguardano la difesa antiaerea, come le batterie di missili Patriot, e i caccia da combattimento, come gli F-35. Secondo le cifre pubblicate da The International Institute for Strategic Studies e rielaborati dal The Guardian, oggi le forze armate degli Stati dell’Unione europea, più Norvegia e Regno Unito, utilizzano largamente mezzi costruiti negli Stati Uniti. Per esempio: sono «made in Usa» il 46% dei jet da combattimento, il 42% dei sistemi missilistici, il 24% dei veicoli blindati e il 23% dell’artiglieria. Negli ultimi cinque anni lo stesso blocco di Paesi, più la Svizzera, ha comprato oltre 15 mila missili, 2.400 blindati e 340 aerei dagli Usa. Regno Unito, Germania e Italia si sono rivolti più al mercato americano che a quello europeo. Fa eccezione solo la Francia. La dipendenza dagli Usa dipende anche dalla qualità delle forniture: la tecnologia più avanzata proviene dalle industrie americane. Il caccia F-35, sviluppato dalla Lockheed Martin, è più richiesto dai Paesi europei rispetto ai concorrenti: l’Eurofighter Typhoon – costruito in joint venture da aziende britanniche, italiane (Leonardo), tedesche e spagnole – e il francese Rafale. Un altro
caso è quello dei sistemi di contraerea: nell’Unione europea, Germania, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Svezia e Spagna possiedono circa 25 batterie di Patriot; Francia e Italia hanno 12 Samp-T, prodotti in joint venture dai due Paesi. Il 12 settembre la Danimarca ha deciso di scegliere i Samp-T, anziché i Patriot, dopo che Trump aveva minacciato di annettere la Groenlandia agli Stati Uniti.
Nel breve e medio termine, dunque, non è realistico immaginare che i Paesi europei possano fare a meno delle industrie americane. Del resto, l’operazione in corso sul piano politico-militare non è quella di costruire un esercito comune europeo, ma di rafforzare il coordinamento tra i vari Stati del Vecchio Continente, senza spezzare il legame con gli Usa.
Secondo studi condotti dal Parlamento europeo, «la mancanza di cooperazione nel campo della difesa comporta uno spreco stimato tra i 25 e i 100 miliardi di euro all’anno».
Uno spreco da 100 miliardi l’anno
La questione urgente è quella di eliminare la frammentazione degli armamenti europei. Secondo studi condotti dal Parlamento europeo, «la mancanza di cooperazione nel campo della difesa comporta uno spreco stimato tra i 25 e i 100 miliardi di euro all’anno». Troppe sovrapposizioni e duplicazioni industriali. Stando al rapporto The Military Balance 2025 compilato da The International Institute of Strategic Studies, nel 2024 nell’Unione europea erano operativi 13 versioni di carri armati, mentre negli Stati Uniti ce n’era uno solo; in Europa disponiamo di 14
modelli di caccia, gli Usa ne hanno sei.
Gli organismi dell’Alleanza Atlantica lavorano al processo di standardizzazione degli armamenti tra i Paesi membri, servirebbe però una strategia concordata tra i vari governi europei che, per ora, manca. C’è chi suggerisce di razionalizzare gli investimenti dividendosi il lavoro a seconda delle diverse specializzazioni, almeno tra i grandi Paesi produttori di armamenti: Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Turchia. Peraltro è lo schema che sta emergendo sul versante industriale.
L’industria corre, i governi sono lenti
Le aziende del settore difesa stanno moltiplicando gli accordi internazionali per costruire insieme gli armamenti principali. I nodi principali di questa rete sono costituiti da alleanze tra aziende francesi e tedesche per fabbricare carri armati e blindati da destinare agli eserciti di Germania e Francia. Anche l’Italia partecipa a diverse intese, in particolare con Leonardo, ex Finmeccanica, società controllata al 30% dal ministero dell’Economia che detiene il «golden power», il potere decisionale sulle scelte strategiche aziendali. Il gruppo ha concluso una joint-venture con la tedesca Rheinmetall per la produzione di 132 carri armati e 1.050 blindati; con i turchi di Baykar per la costruzione di droni; con il consorzio Mbda (i britannici Bae Systems, Leonardo e Airbus) per i missili; con il gruppo Eurofighter per i caccia; con i francesi di Thales per lo spazio.
L’orologio delle industrie oggi corre più veloce rispetto a quello
della politica. Questo è il commento del generale Aurelio Colagrande, vice Deputy Supreme Allied Commander Transformation della Nato: «Naturalmente noi non possiamo entrare nelle scelte delle industrie e della politica. La cosa importante è che si contenga la frammentazione e, in ogni caso, che i mezzi, gli strumenti messi a nostra disposizione siano compatibili tra loro». Come dire: non sarà facile eliminare completamente la concorrenza tra le imprese. Quanto ai governi: sarebbe opportuno spiegare con la massima trasparenza all’opinione pubblica le ragioni che impongono di aderire al piano di riarmo. E come verranno spese tutte queste risorse.
Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina
(da corriere.it)
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