SE TRUMP GIRA LA TESTA SU KIEV, PUTIN È BEN FELICE DI FARLO SU TEHERAN. PUTIN HA APPENA DETTO CHE ‘TUTTA L’UCRAINA È NOSTRA (RUSSA)’. LE BOMBE ANTI-BUNKER AMERICANE SU ISFAHAN E FORDOW SONO UN PICCOLO PREZZO DA PAGARE
IL “SEGNALE” DEI CONTATTI DIRETTI RUSSO-AMERICANI: IL RILASCIO DI SERGEI TIKHANOVSKY, PRINCIPALE OPPOSITORE DI LUKASHENKO IN BIELORUSSIA RIENTRA NELLA MARCIA DI AVVICINAMENTO DELLA CASA BIANCA AL CREMLINO
Voleva tirar fuori l’America dalle «guerre che non finiscono mai» in Medio Oriente. Da ieri Donald Trump è il Presidente che ha iniziato la guerra alla quale si sono sottratti otto predecessori, lui compreso (Carter, Reagan, GH Bush, Clinton, GW Bush, Obama, Trump 45, Biden), il conflitto diretto la Repubblica Islamica dell’Iran.
Niente scontro diretto con Teheran, persino quando lo zelo neocon di GW Bush voleva «rifare» il Medio Oriente.
Le tracce dell’intervento militare Usa vanno in quattro direzioni: subordinazione della diplomazia “con” alla pressione “su” gli interlocutori; tempismo e opportunismo decisionale; disinteresse per gli alleati europei e occidentali; intesa sotterranea con la Russia di Vladimir Putin.
Raggiungere il “deal” rimane la dottrina operativa di Donald Trump. Pronto quindi a trattare, sempre o quasi. Per convincere
l’interlocutore, vanno bene anche tutti i mezzi extra-negoziali disponibili: politici, economici, militari – minacciati o usati senza soluzione di continuità.
Quando le circostanze lo permettono, alzare l’asticella del compromesso; abbassarla, senza dirlo, in caso di necessità. Questo il manuale – prepariamoci – per il negoziato sui dazi, con noi Ue come con la Cina.
All’Iran Trump chiedeva essenzialmente di bloccare l’arricchimento dell’uranio. Forse l’accordo era vicino (come disse), forse no, forse Teheran ha tirato per le lunghe. Comunque sia, non appena Israele ha cominciato a bombardare, Trump ha alzato la posta: nucleare da smantellare, fermare non basta più.
Quali le conseguenze in Medio Oriente dove pure, un mese fa, il Presidente americano aveva promesso basta guerre e prosperità per tutti? Adesso sposa la tesi israeliana, prima eliminare il problema Iran, poi si riprende il discorso della cooperazione regionale, con un Iran ridimensionato e castigato.
I Paesi arabi che Golfo l’avevano accolto a braccia, e borse, aperte. Ora, si barcamenano, centellinano la solidarietà all’Iran, si preoccupano delle ricadute su navigazione, petrolio e gas, sperano che l’equazione trumpiana «pace attraverso la forza» abbia decorso rapido.
Non volevano un Iran potenza nucleare, ma sanno che né Usa né Israele hanno un piano per il dopo. L’Iran rimarrà un peso massimo regionale, lo è da tre millenni. Se il regime rimane in sella sarà vendicativo; se cade, chi/cosa ne prende il posto? Le monarchie del Golfo e la Turchia detestano incognite e primavere.
Il bombardamento dei tre principali siti nucleari iraniani, Fordow, Natanz, Isfahan, ha scavalcato i partner europei e occidentali. Trump aveva lasciato in fretta e furia Kananaskis – per un’emergenza concretizzatasi cinque giorni dopo… – dopo aver firmato una dichiarazione congiunta G7 che raccomandava la de-escalation. Ha fatto il contrario.
Quando, tre giorni fa, gli europei in formato E3 (Germania, Regno Unito, Francia) più Unione europea hanno incontrato a Ginevra Ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, egli teneva ancora aperta la porta al negoziato. Gli E3 gli offrivano un canale per riagganciarlo. Liquidati con un «niente Europa» – come sull’Ucraina. Non molto incoraggiante per il vertice Nato di domani. Se vuole, ora il Presidente americano può anche risparmiarsene la noia: sono in guerra non ho tempo.
Tempo probabilmente ne avrà per parlarne con Vladimir Putin che oggi riceve Araghchi. L’Iran spera nella Russia «amico strategico». A Mosca troverà parole confortanti, a New York Russia e Cina faranno fuoco e fiamme per condannare gli Usa e Israele in Consiglio di Sicurezza. Senza conseguenze. Veto americano assicurato, britannico e francese probabile.
Più delle agitazioni psicomotorie al Palazzo di Vetro contano i contatti diretti russo-americani. E, indiretti: la liberazione dei detenuti dell’opposizione bielorussa a seguito della missione a Minsk, e abbraccio all’inossidabile Alexandr Lukashenko, di Keith Kellogg, inviato speciale americano per l’Ucraina, rientra nella marcia di avvicinamento della Casa Bianca al Cremlino, anche via alleati.
Se Donald gira la testa su Kiev, Vladimir è ben felice di farlo su Teheran. Cambio vantaggioso «nel senso che tutta l’Ucraina è nostra (russa)», ha appena detto Putin a San Pietroburgo. Le bombe anti-bunker americane su Isfahan e Fordow sono un piccolo prezzo da
pagare, con tante scuse ad Araghchi.
(da La Stampa)
Leave a Reply