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VIAGGIO ALL’ISOLA DI PIANOSA, IL PARADISO TERRESTRE SALVATO DAI DETENUTI

NELLA COLONIA PENALE TOSCANA TRA I DETENUTI IN SEMILIBERTA’ CHE LAVORANO PER PRESERVARE UN GIOIELLO DELL’ARCHITETTURA

Lo sguardo dello spazzino è pieno di serena malinconia.
“Una volta c’era un sacco di gente”, dice. Una volta era tanti anni fa, quando è arrivato nella colonia penale di Pianosa, nell’arcipelago toscano.
Lo spazzino è un uomo di quasi settant’anni e ne ha passati 42 qui. Una vita per riparare a un errore. Ma ora, a differenza di prima, lo sta facendo da detenuto libero.
Il Comune di Campo dell’Elba, di cui l’isoletta fa parte, l’ha assunto part time per tenere pulite le strade di uno dei paesi più piccoli e suggestivi del Mediterraneo.
Un gioiello splendente dell’architettura eclettica dell’Ottocento, oggi quasi completamente disabitato, dove si è consumata una delle vicende umane più incredibili della nostra storia
Di uomini che come quello spazzino stanno scontando una pena da detenuti liberi a Pianosa ce ne sono trenta.
Alcuni di loro erano già  passati da lì quando c’era il carcere: anzi, i carceri, perchè di penitenziari ne esistevano un tempo ben cinque.
Altri, quasi tutti, sono arrivati da Porto Azzurro. Li seleziona una commissione che ne esamina il profilo psicologico e umano, valutando le attitudini per questo esperimento che non ha uguali, nei modi in cui viene attuato a Pianosa, nel nostro ordinamento carcerario.
C’è chi ha ucciso, chi ha rapinato, chi ha trasportato droga.
C’è il cinese che insieme al rumeno si occupa dell’orto dove si producono la verdura e la frutta per Porto azzurro e per il ristorante, l’unico dell’isola in gestione a una cooperativa. C’è il siciliano mago dei motori, capace di rimettere in sesto indifferentemente una Panda e una ruspa.
C’è il pugliese spazzino. Ci sono il sardo e il sudamericano ormai specialisti della ricostruzione dei muri a secco che a Pianosa sono un’autentica opera d’arte.
E poi chi serve ai tavoli del ristorante. Chi ti fa il caffè all’unico bar. Chi pulisce la spiaggia. Chi rifà  le camere all’unico alberghetto. Chi accudisce i cavalli e guida la carrozza che porta i turisti in giro per l’isola.
E qui sta il salto. Sono detenuti che scontano una pena in un regime di semilibertà  e lavorano regolarmente retribuiti.
Come prevede appunto la legge, articolo 21 dell’ordinamento carcerario.
Non sono in vacanza. Ma in questo caso interagiscono con la gente assolvendo un compito che va ben oltre la rieducazione: tengono in vita e contribuiscono a preservare questo angolo di paradiso terrestre.
Adesso Pianosa fa parte del parco dell’arcipelago toscano, è una riserva integrale. La proprietà  è demaniale, la competenza ambientale è dell’ente parco della regione Toscana, quella amministrativa è del Comune.
Le barche non si possono avvicinare, la pesca è tassativamente vietata entro un miglio dalla costa.
Si può fare il bagno solo alla spiaggia di sabbia bianchissima separata con il piccolo paese dal resto dell’isola completamente piatta come dice il suo nome, che era tutta una colonia penale agricola, da un enorme barriera di cemento armato, ormai quasi più diroccata di tanti muri di sassi e mattoni.
Non altra funzione se non quella intimidatoria: nelle torrette di sorveglianza non è mai salita una guardia. Quel muro gigantesco era stato tirato su più di trentacinque anni fa, dicono per volontà  del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando venne costruito sul vecchio sanatorio il carcere di massima sicurezza nel quale furono rinchiusi prima i brigatisti, quindi dopo il 1992 i mafiosi.
Era il luogo del famigerato (per i criminali) 41-bis.
A Pianosa fu il momento più brutto dell’età  moderna. Non che non ne avesse vissuti di peggiori.
I romani vi confinarono l’ultimo e più problematico nipote di Ottaviano, Agrippa Postumo, che si fece costruire una residenza con le terme in riva al mare, e i resti sono ancora lì; ma pare che avesse anche una splendida villa all’interno, si mormora proprio sotto l’ex carcere di massima sicurezza non a caso battezzato “Diramazione Agrippa”.
Ci sono catacombe cristiane che si estendono sotto gran parte dell’isola, con 700 tombe già  scoperte.
E nel 1553 i pirati turchi invasero Pianosa sterminando la popolazione. Per più di due secoli, da allora, rimase un deserto. Fino a quando nell’Ottocento riprese a vivere e il Granduca di Toscana la trasformò in una colonia penale agricola.
Era la nostra Cajenna, al pari della Gorgona e dell’Asinara.
Da cui qualcuno, emulando Papillon, cercava sempre di scappare. Ma con scarsa fortuna. Un galeotto attraversò le otto miglia di mare che separano Pianosa dall’Elba con la camera d’aria di una ruota di trattore ma trovò i carabinieri ad aspettarlo.
Poi con il supercarcere diventò un inferno. Dentro e fuori. Dentro, centinaia di detenuti. Fuori, centinaia di guardie carcerarie con le famiglie.
Il paesino meraviglioso intasato dalle macchine perennemente in sosta, con le persone sedute negli abitacoli e i finestrini abbassati che si parlavano da un’auto all’altra.
Pianosa era arrivata ad avere anche 2.500 abitanti, ma in una condizione assurda.
Tutti erano prigionieri. Nessuno era felice.
L’inferno durò quasi vent’anni. Il 28 giugno del 1998, improvvisamente, scattò l’ora X.
Il governo di Romano Prodi decise di chiudere il penitenziario e Pianosa fu evacuata in un solo giorno. Forse l’unica fuga di massa di detenuti e secondini con le loro famiglie che la storia ricordi.
A testimonianza di quell’incredibile episodio c’è una caserma della polizia nuova di zecca, comprensiva di una enorme centrale termica, mensa, cucina e circolo ufficiali, costata miliardi e mai aperta: è lì, con le piante di cappero che penetrano nelle fessure spaccando gli intonaci ancora immacolati, entrano nei quadri elettrici, coprono i marciapiedi.
Ci fu chi perfino chi lasciò la casa aperta con i letti sfatti e la pastasciutta calda nei piatti. E l’isola fu di nuovo un’isola deserta. Come di fatto è ancora oggi.
Fa impressione il porticciolo, perfetto nelle proporzioni e nelle sagome, che fu definito da qualcuno il più bello del mondo, senza una barca: a parte quella dell’unico residente isolano nato a Pianosa, il custode delle catacombe Carlo Barellini.
Fanno impressione le spettacolari merlature smozzicate dalla salsedine, le case lesionate, i due piccolissimi alberghi Trento e Trieste affacciati sulla piazzetta del porto dove i bambini giocavano con il pallone che finiva sempre in acqua, ormai cadenti.
E le strade deserte, dopo le cinque di sera quando il battello dei turisti giornalieri torna a Marina di Campo.
Consola soltanto il pensiero che lì altri danni l’uomo non ne sta facendo, e che se non ci fosse stato il carcere Pianosa avrebbe avuto un destino ben diverso: probabilmente non dissimile da quello di tanti altri luoghi incantati della nostra Italia ora sbranati dal cemento e dalla speculazione.
E ti viene in mente che forse la strada giusta per preservare ancora tutto sia puntare su questo singolare e straordinario compromesso.
Soltanto con un po’ di buonsenso in più. Da parte di tutti. Forse è giusto spendere milioni per ripristinare le antiche specie animali autoctone: c’è un progetto con fondi europei gestito dall’ente parco.
Ma sarebbe forse ancora più giusto salvare prima la splendida roccaforte del porticciolo costruita sul disegno fatto da Napoleone Bonaparte durante i suoi cento giorni all’Elba, che sta cadendo a pezzi.
Con tutti i denari che si buttano per cose inutili, davvero è impossibile trovare qualche risorsa da investire nel recupero di parte almeno di quelle architetture uniche al mondo?
Energie umane per uno sviluppo sostenibile di Pianosa, come dimostra l’esperimento che si sta facendo qui, non mancherebbero.
Le regole per i detenuti liberi, intendiamoci, sono rigide: non potrebbe essere diversamente. Ognuno ha un ruolo preciso.
Hanno il telefonino e possono parlare con il figlio o la fidanzata. Ma finita l’attività , a sera, devono rientrare. Non nelle celle, perchè il carcere non c’è più da 17 anni, bensì in una vecchia prigione riadattata ad alloggi dagli stessi detenuti: si chiama “Diramazione Sembolello” ed è il posto dov’era stato rinchiuso durante il fascismo Sandro Pertini. Tutto è secondo la legge.
I detenuti hanno anche la possibilità  di ricongiungersi con gli affetti familiari, come prevedono appunto le norme. Per gli incontri c’è una piccola residenza risistemata sempre in economia, battezzata “la casa delle mosche”.
Reggere una situazione del genere non è facile. I soldi sono pochissimi e si fa quasi tutto cannibalizzando le vecchie strutture carcerarie.
Un aiutino arriva dall’ente parco. Qualcosina anche dal Comune. Ma oltre al fisico, ci vuole anche una passione bestiale.
Quella che non manca a Claudio Cuboni, assistente capo delle guardie carcerarie (quattro in tutto) di stanza a Pianosa.
Un ragazzo sardo di cinquant’anni con l’hobby (o forse anche qualcosa di più) della scultura, capace di gestire con umanità  e rigore un equilibrio sottilissimo.
Forse anche perchè sta a Pianosa da ventitrè anni. Forse perchè ha visto com’era prima e com’è adesso.
Forse perchè sa che per una volta tanto un articolo della nostra Costituzione può essere rispettato: il 27, quello secondo cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Dice la statistica che commette di nuovo un reato il 68 per cento di chi sconta la pena in carcere normale.
Dal 2004 sono passati a Pianosa 120 detenuti e quelli che dopo aver terminato qui la pena lavorando ci sono ricascati sono solo tre. Il 2,5 per cento.
E questo vale più di ogni altra cosa

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)

This entry was posted on venerdì, Agosto 7th, 2015 at 13:09 and is filed under Costume. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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