Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
PRESSIONI PSICOLOGICHE E TRANELLI COME PRETESTO PER LIBERARSI DI DIPENDENTI
È un vero e proprio test a tappeto quello che Pam sta compiendo in numerosi punti
vendita e che ha portato al licenziamento di dieci dipendenti negli ultimi tre mesi solo a Roma, oltre che ai tre tra Siena e Livorno degli ultimi giorni. Si tratta della cosiddetta “prova del carrello”, un test attitudinale in cui un ispettore mandato dall’azienda finge di essere un cliente e prova a fregare il cassiere: si va dal furto vero e proprio di prodotti allo scambio di etichette per pagare di meno. Il caso ha suscitato grande scalpore e ha fatto imbestialire i sindacati, che per giovedì 20 novembre hanno previsto un tavolo condiviso con i dirigenti di Pam Panorama per trovare una soluzione. Ma la mobilitazione è una prospettiva concreta.
Il cibo scaduto e la lettera contro il cassiere
Se a Livorno e a Siena gli ispettori si limitavano a rubacchiare, nei 25 punti vendita romani le strategie erano ben più complesse. Dalle scatolette di tonno scadute e non controllate, che sono costate il lavoro a un dipendente solo tre giorni fa, a fantomatiche lettere scritte dai clienti. Come Massimiliano, 55 anni e dal 1996 lavoratore dell’azienda: «L’azienda mi ha spiegato che un cliente aveva scritto una lettera di lamentela, ma nessuno me l’ha mai fatta leggere. Non riesco neanche a difendermi senza la lettera», ha raccontato a Repubblica Roma. «Inoltre devo assistere mia madre disabile, ma nonostante questo
sonno stato trasferito tre volte».
Le pressioni sulle dipendenti: «Licenziata per non aver visto oggetti nascosti»
Ma anche a Roma la strategia dei furterelli e della pressione psicologica sui dipendenti sembra all’ordine del giorno. Antonella, da 34 anni cassiera per Pam, è stata sottoposta due volte al test del carrello. «A fine luglio un ispettore si è presentato, io sono rimasta tranquilla e ho seguito la normale procedura. Lui conversava con me e spesso si metteva davanti al display per impedirmi la visuale», ha raccontato. «Mi sono accorta subito che c’erano etichette sbagliate, ma mi sono sfuggite due barrette di cioccolato nascoste in un angolo cieco del carrello». Due mesi e mezzo dopo, la seconda visita di un ispettore «Stavolta mi sono agitata, ho controllato bene tutto il carrello e le etichette ma non ho visto il trucco nascosto dentro la scatola da dieci litri di latte e uno nella confezione delle uova. Sono andata nel panico e mi sono sentita male».
La sollevazione dei sindacati: «Condizioni di lavoro siano dignitose»
La lettera di diffida mandata dai sindacati all’azienda si basa proprio sul racconto dei dipendenti. «Denunciano un clima interno sempre più teso, segnato da richiami spesso pretestuosi e da una gestione percepita come conflittuale», hanno spiegato i sindacati Filcams Cgil, Fisica Cisl e Uiltucs. «Chiediamo all’azienda di cambiare rotta e avviare un confronto costruttivo per ripristinare condizioni di lavoro dignitose. Un’ausiliaria alla vendita non può fare anche la vigilante».
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
PER MATTARELLA E’ IL SEGNALE CHE IL GOVERNO DIMOSTRA DI VOLER MUOVERE GUERRA A LUI …SI ATTIVA LA LINEA ROSSA CON IL SOTTOSEGRETARIO MANTOVANO E ARRIVA LA RETROMARCIA DELL’ESECUTIVO. LA SORA GIORGIA NON CHIEDE LE DIMISSIONI DEL CONSIGLIERE DEL PRESIDENTE GAROFANI MA RESTA LA TENSIONE… GAROFANI NON HA MAI DETTO “SCOSSONE”
C’è sempre un momento in cui dire basta. Per Sergio Mattarella, si presenta attorno alle 17. Da ore, i media titolano: “Garofani inopportuno”. Palazzo Chigi contro il Colle, di nuovo. Quasi a mettere la presidenza della Repubblica spalle al muro. Ricostruzione che stupisce il Quirinale. Concetti che non combaciano con i fatti, sostengono. Perché la presidente del Consiglio attacca ancora, dopo aver chiesto un incontro?
Perché, se i toni della leader durante il colloquio sono stati gentili? E ancora: si è detta dispiaciuta per l’accaduto, riferiscono, tanto da aver addirittura lasciato intendere che forse qualcosa il capogruppo Galeazzo Bignami avrà in effetti sbagliato, anche soltanto per aver vergato un comunicato evidentemente non troppo chiaro. Per Mattarella chiarissimo, invece, nel suo puntare dritto contro il capo dello Stato.
Basta, dunque: questo è il segnale che parte dal Colle. Si attiva quindi l’unica linea rossa sempre operativa tra i due palazzi – quella che passa dagli uffici di Alfredo Mantovano e mobilita
ambasciatori poco esposti – e il messaggio viene recapitato alla presidente del Consiglio.
Con una postilla aspra, anche se formalmente cortese: avevamo apprezzato la scelta di chiedere un incontro, pensavamo che l’intenzione fosse di voltare pagina, ma con questo atteggiamento Palazzo Chigi dimostra di non voler chiudere il caso. Linguaggio diplomatico che cela un sospetto ancora più allarmante: il governo dimostra ancora, dopo gli attacchi dell’altro ieri, di voler muovere guerra al Colle.
È a questo punto, quando su Roma è appena sceso il buio, che l’esecutivo innesca la retromarcia: caso chiuso, mettono nero su bianco i due capigruppo di Fratelli d’Italia (uno è proprio Bignami) e stima immutata per il presidente.
Eppure, la sensazione è che troppi strappi siano stati consumati. E veleni, sgarbi, sospetti. Le indiscrezioni sulla volontà di Meloni di succedere al presidente. L’avviso ai naviganti, nelle ore dello scontro: ora chiudiamo la partita con la riforma del premierato.
E ancora la mail firmata da uno sconosciuto burattino – quelle con la notizia su Garofani – che finisce quasi integralmente in pagina sulla Verità.
La sensazione pungente, al Colle, che la denuncia di un presunto complotto contro il governo stia assumendo la forma di un’operazione contro il Quirinale. Può reggere davvero una tregua del genere?
Anche a sentire Meloni, il chiarimento ci sarebbe stato. Certo, assicura la presidente del Consiglio a chi l’ha sentita, in quei venti minuti nulla di quanto sostenuto dai Fratelli d’Italia martedì è stato omesso: nulla contro di lei, presidente, ma altro
discorso è un suo consigliere che va in giro a sostenere con leggerezza tesi del genere, quello davvero è sconveniente.
Significa che la presidente del Consiglio ha chiesto a Mattarella la testa di Garofani? No, giura la leader, altrimenti l’avrei fatto pubblicamente. No, rimbalza dal Quirinale, nessun passo indietro è stato reclamato. Il senso del comunicato, però, sembra come invocare quella testa.
Quando Meloni precisa, spiega e circoscrive l’attacco di Bignami al consigliere, Mattarella prende atto.
E però – su questo le due versioni non divergono – il presidente risponde anche che quell’articolo della La Verità era chiaramente contro il capo dello Stato.
E che dunque cavalcarlo, come ha fatto il capogruppo del partito di maggioranza relativa, significava e significa ancora attaccare la presidenza. No, replica la leader, Garofani è stato citato per sostenere l’opposto, e cioè che il bersaglio è soltanto il consigliere.
La formula dell’armistizio, a sera, non può che essere: caso chiuso. Per il Quirinale, a dire il vero, aperto e chiuso dalla stessa mano. Poi, certo, gli interrogativi continueranno ad alimentare sfiducia, sospetti.
Quella mail che finisce dritta in un articolo del quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, ad esempio, lascia addosso agli uomini del presidente la sensazione di interrogativi ancora da chiarire. E poi: con che coraggio la destra attacca il Quirinale sostenendo che Garofani avrebbe parlato di «scossone», quando sempre nella mail (e dunque nell’articolo copia-incolla) quel virgolettato non è mai attribuito al consigliere con delega alla Difesa?
(da Repubblica)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
ERA UNA CENA PRIVATA, C’ERANO 16 PERSONE AL TAVOLO, PROVENIENTI DA MONDI DIVERSI: CHI HA “TRADITO” GAROFANI? (E QUALCHE SOSPETTO ORMAI PRENDE FORMA)
L’inizio è degno della Grande bellezza; il finale, ancora nebuloso, somiglia a una spy
story, fatta di mail inviate ai giornali firmate da un misterioso e arcitaliano Mario Rossi.
Giovedì 13 novembre, ristorante della Terrazza Borromini, vista mozzafiato su piazza Navona: a un unico tavolo — prenotato per 18 persone ma occupato solo da 16 — un gruppo di amici provenienti da mondi diversi (dell’economia, delle banche, del commercio) si ritrova a cena unito dalla fede calcistica per la Roma. Meglio: si mangia e si beve nel ricordo di Agostino «Ago» Di Bartolomei, lo storico e amatissimo capitano giallorosso scomparso 31 anni fa.
Poco prima, al Tempio di Adriano, c’è stato un evento per il secondo anno di vita dell’associazione dedicata alla memoria del calciatore. Più tardi un bel gruppetto di persone va a cena. Fra queste c’è Francesco Saverio Garofani, consigliere del capo dello Stato e segretario del Consiglio supremo di difesa. […] in questo contesto, fra un brindisi alla Magica e un «ti ricordi in curva Sud?», che l’ex parlamentare del Pd parla a ruota libera di scenari politici
«Era una chiacchierata in libertà tra amici», ha ammesso Garofani ieri al Corriere […]
I suoi pensieri in libertà diventano dopo cinque giorni l’apertura del quotidiano di Maurizio Belpietro. Titolo: «Così il Colle proverà a fermare Meloni». L’ombra del complotto agita Fratelli d’Itali
Tre giorni dopo la cena, domenica — alle 13.24— una mail inviata a svariati giornali, soprattutto di centrodestra, riporta le considerazioni del consigliere di Sergio Mattarella, limitandosi a dire che sono state pronunciate durante una cena con uomini dello sport, della politica e delle istituzioni. La mail è firmata Mario Rossi. È stata inviata dall’indirizzo di stefanomarini@usa.com.
Il testo della mail, cestinata da diversi quotidiani a partire dal Giornale, sarà pubblicato integralmente dalla Verità con la firma Ignazio Mangrano (nome di un giornalista che non esiste) con i virgolettati (mai smentiti) del consigliere quirinalizio.
Appena la notizia deflagra rimbalza un dettaglio: il giornale di Belpietro ha l’audio di questa chiacchierata. Almeno così si dice. […] Dunque Garofani sarebbe stato registrato a tavola da uno o più tifosi romanisti.
E poi le sue parole sarebbero state trascritte nel testo della mail girata a diversi quotidiani, a partire da quelli di centrodestra.
Chi è stato fra i quindici presenti a cena alla Terrazza Borromini ad accendere il cellulare per «fermare» quelle considerazioni nelle note audio? […] una serie di congetture incredibili: registratori sotto il piatto, cimici nelle sedie, camerieri con barbe finte, i russi e via discorrendo… Qualcuno a quel tavolo di fratelli romanisti avrebbe «tradito» Garofani […]: perché? […]
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
LA DUCETTA EVOCA COMPLOTTI E FABBRICA NEMICI PER OSCURARE LE CRITICHE E “LA STAMPA” LA UCCELLA: “MELONI VUOLE SOSTITUIRE ‘L’ABBIAMO FATTO’ CON IL ‘NON CI HANNO LASCIATO FARE’. C’È LA PARTITA VERA IN CUI MELONI È GIÀ IMMERSA: REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA, ELEZIONI POLITICHE, QUIRINALE, LA CASAMATTA CHE IL CENTRODESTRA NON È MAI RIUSCITO A CONQUISTARE”
La traccia di quel che accadrà, di qui in avanti, è scritta nelle modalità con cui Giorgia Meloni ha gestito l’incontro al Colle. L’opposto di un’andata a Canossa.
Secondo la grammatica istituzionale, sarebbero bastate quattro parole: “Caso chiuso, piena fiducia”. Invece, accolta per mettere un punto, da un lato finge di smussare, dall’altro rilancia, trasformando l’occasione nell’ennesimo capitolo di un racconto.
È la classica modalità proiettata tutta sul “fuori”, lungo l’asse tra il capo e il popolo ove l’elemento istituzionale è rappresentato come un ostacolo: al Palazzo si concede una frase conciliante, alla piazza si dà il titolo. Si fa finta di dire “non era nostra intenzione lo scontro”, però il messaggio reale è: vedete come gliele abbiamo cantate. Per l’opinione pubblica resta che hai tirato una palata di fango sul Quirinale, il luogo delle presunte trame contro la volontà popolare.
Ed è quel che conta.
Spiegare tutto questo putiferio solo con le regionali, il cui esito è scontato, è fuorviante. Al fondo, c’entra la natura. Quella dell’underdog, che evoca complotti perché cresciuta nel mito del “noi pochi contro il mondo”, e dunque difende sempre il vincolo clanico. Realismo avrebbe suggerito, al di là di torti e ragioni, di non aprire un fronte con chi, peraltro, si è mostrato tutto fuorché ostile al governo, dalla Flotilla all’Ucraina.
Ma il realismo attiene al governo, qui c’è dell’altro.
In prospettiva c’è la partita vera in cui Giorgia Meloni è già pienamente immersa.
Il suo assalto al cielo, vissuto come la rivincita storica di un mondo: referendum sulla giustizia – Nordio che loda Licio Gelli è piuttosto definitorio dello spirito che anima la pugna -, elezioni politiche, Quirinale, la casamatta che il centrodestra non è mai riuscito a conquistare. Se fa filotto potrà dire che, all’età di 52 anni, ha fatto la Storia. È un disegno teso a riscrivere il potere in Italia, i cui prodromi si intravedono nel modo in cui tutti gli house organ raccontano nella quotidianità Mattarella. Un tagliatore di nastri, mentre il racconto “presidenziale” è tutto tarato su palazzo Chigi.
La posta in gioco è tutt’uno con la modalità trumpiana di gestione della partita: la mobilitazione al posto del governo e lo storytelling al posto della realtà, nel discredito di tutto ciò che è fonte ufficiale. Se parli con questo o quell’esponente del governo capisci che, per i prossimi mesi, una vera agenda di lavoro non c’è, in un clima da assuefazione al galleggiamento: al posto del piano casa c’è il condono; al posto della crescita c’è l’autocelebrazione dei conti in ordine; al posto della politica industriale c’è l’Ilva che chiude, al posto della sicurezza ci sono i reati che aumentano.
Il programma di governo dei prossimi mesi è solo: referendum sulla giustizia, premierato, legge elettorale.
Giorgia Meloni sa che, a parti invertite, avrebbe scatenato l’inferno dopo il caso di un ragazzo della Bocconi accoltellato a corso Como per 50 euro. E che, a parti invertite, sarebbe stato un problema giustificare un Natale in cui le tredicesime servono a
pagare le bollette, dopo l’estate degli ombrelloni a cento euro.
Il tema la preoccupa eccome. L’unico modo per reggere un anno e mezzo così è seguire la natura: sostituire il rendiconto del proprio operato, su tasse e sicurezza, con la mobilitazione “contro”, “l’abbiamo fatto” con il “non ci hanno lasciato fare”. È un copione che tocca nel centrodestra corde profonde
Il punto non è tanto il diversivo comunicativo inteso come parlar d’altro. L’agenda del plebiscito è comunicativa in quanto politica, auto-alimenta il racconto tappa dopo tappa. La giustizia prepara il premierato, che secondo le intenzioni dovrebbe terminare a maggio la prima lettura, per andare in seconda settembre.
Il premierato prepara la forzatura sulla legge elettorale che prepara le politiche, che, a loro volta, preparano il Great Game quirinalizio. Vedete, la volta scorsa c’era solo la sinistra da battere. Qui c’è da fare la Storia.
Insomma, è irrilevante che siamo governo, siamo ancora opposizione del Sistema che ambisce a cambiarlo. Avete capito perché Mattarella è stato così maltrattato? Era il trailer del film che verrà.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
LO STORICO RADCHENKO: “E’ UNA RESA MASCHERATA PER KIEV”
Immagini già viste cento volte: un palazzo residenziale squarciato. Pompieri e
volontari scavano tra la neve che si scioglie e il fango nero. Stavolta nell’Occidente del Paese. Almeno 26 civili uccisi. Tre bambini. La guerra entra nel suo quarto inverno. Circa un milione e mezzo tra mori e feriti, soldati e civili di entrambe le parti. Lontano dal fronte, Stati Uniti e Russia discutono un piano a 28 punti che potrebbe cambiare tutto. Forse chiudere la guerra. Chiuderla male. Chiuderla non per sempre.
L’idea nasce a Miami, tre giorni di incontri tra Steve Witkoff, inviato di Donald Trump, e Kirill Dmitriev, consigliere del Cremlino. Il testo circola tra poche mani. A Kiev arriva in uno scambio riservato: Witkoff lo ha consegnato al capo del Consiglio di sicurezza ucraino Rustem Umerov. Il messaggio è chiaro: l’Ucraina deve cedere territorio e dimezzare l’esercito. A Mosca il documento piace. A Washington qualcuno lo definisce “realistico”. A Kiev lo chiamano con il nome giusto: capitolazione. Ma il punto non è solo il piano. È il momento in cui arriva.
Volodymyr Zelensky è in difficoltà. Il fronte arretra. Nell’ultima settimana i russi hanno conquistato 90 chilometri quadrati, secondo la Kennedy School di Harvard. Pochi, ma il doppio della settimana prima. I danni alla rete energetica pesano ogni giorno di più. Ma soprattutto pesa la corruzione. Lo scandalo che travolge la catena degli appalti potrebbe allargarsi al settore della difesa, dice a Fanpage.it un parlamentare ucraino. Deputati della stessa maggioranza parlano di “nuovo governo”. Gli alleati europei osservano. Il presidente appare più vulnerabile. E meno libero. Proprio mentre Washington preme per un accordo che nessun leader con potere pieno firmerebbe.
Il piano contiene 28 punti. I dettagli cambiano a seconda delle versioni che filtrano. Ma l’impianto resta: cessione completa del Donbass, anche della parte ancora controllata da Kiev; stop alle forniture di missili a lungo raggio; riduzione drastica dell’esercito, che sarebbe più che dimezzato, in pratica ridotto a una forza di polizia senza armi pesanti; fine dell’assistenza militare USA; linea del fronte “congelata” nelle oblast di Kherson e Zaporizhzhia. Nessuna adesione alla NATO; possibile via libera all’ingresso nell’UE.
In cambio, gli Stati Uniti prometterebbero una qualche forma di garanzia di sicurezza. Non definita. Sicuramente inferiore a un
“articolo 5”. È un testo obliquo. Pende verso la Russia.
La stessa notte in cui il piano trapela, arrivano i bombardamenti più profondi mai condotti sull’Ucraina occidentale. Case. Scuole. Reti elettriche. È una tattica antica. Il bombardamento di Natale su Hanoi e Haiphong nel 1972 uccise migliaia di civili. In gennaio, la guerra del Vietnam era già finita. Henry Kissinger dopo quei bombardamenti dormì “benissimo”, disse anni dopo a chi scrive.
I negoziati si rafforzano col fuoco. In questo senso va letto anche l’episodio della nave spia russa che a largo delle coste britanniche ha sfidato la RAF, puntando i radar sugli aerei inglesi. Vladimir Putin vuole sedersi al tavolo con un vantaggio.
Un altro brutto segnale per Zelensky: le dimissioni dell’inviato speciale di Donald Trump Keith Kellog. Era il vero sostenitore dell’Ucraina nell’amministrazione USA. Evidentemente dietro le quinte si stanno preparando cose che non condivide.
Sergey Radchenko, storico e docente all’università Johns Hopkins, è tra i massimi esperti dei negoziati sull’Ucraina. Un suo articolo sul fallimento del tavolo di Istanbul resta un punto di riferimento. Citato, del tutto a sproposito, anche dai propagandisti russi e dai tifosi occidentali di Putin. Fanpage.it raggiunge Radchenko al telefono. Parla veloce. Non cerca formule. Ecco l’intervista, nella sua forma essenziale.
Professor Radchenko, quanto incide su questo piano russo-americano l’indebolimento politico di Zelensky dovuto alla tangentopoli ucraina?
Molto. Lo rende più vulnerabile sia verso la Russia sia verso g Stati Uniti. Ha meno margini. Già ne aveva pochi. La Russia vuole la sua rimozione. Per Putin sarebbe una vittoria simbolica
enorme. Potrebbe dire: “Abbiamo rovesciato il capo del regime nazista”. È pura propaganda, ma funziona.
Quindi la sua debolezza può spingerlo verso un accordo che non avrebbe mai firmato?
Se sente di essere sul punto di perdere il potere, potrebbe tentare un gesto drammatico: portare la pace. Una pace che somiglierebbe parecchio a una resa. Ma potrebbe dire: “Sì, ho fallito sulla corruzione. Però vi porto la fine della guerra”. È uno scenario possibile.
Il piano discusso a Miami è massimalismo russo riciclato a Washington’?
È difficile capire quanto della posizione russa sia stato semplicemente riciclato dal team di Trump. Gli indizi sono in quel senso. Dmitriev ha detto che “la posizione di Mosca è stata ascoltata”. Il piano concede alla Russia territorio che oggi non controlla. In cambio, l’Ucraina otterrebbe vaghe garanzie di sicurezza. Ma i russi non hanno mai accettato garanzie occidentali per l’Ucraina. Per loro, una garanzia forte è solo un’altra NATO. E la NATO è la linea rossa. Quindi la domanda resta aperta: Mosca accetterebbe davvero garanzie credibili?
Ma gli Stati Uniti sembrano proprio volerlo imporre, questo piano. Con quali conseguenze?
Conseguenze pesanti. Verrebbe visto come una nuova Yalta. Una pace imposta dagli americani insieme ai russi. Gli europei non avrebbero voce. Hanno già perso influenza. Si sono messi nel solco di Washington e ora non hanno carte da giocare. Non possono opporsi a un piano americano-russo. Resterebbero spettatori.
Se Zelensky rifiutasse il piano, rafforzerebbe la sua leadership
come difensore dell’Ucraina?
No. Si trova su un terreno scivoloso. Non ha spazio politico. Lo scandalo ha distrutto parte della sua credibilità interna e anche europea. La sua posizione è fragile. Rifiutare un piano americano sarebbe per lui quasi impossibile. Gli Stati Uniti possono esercitare molta pressione. Il rifiuto non lo salva. Lo espone.
È plausibile che il piano preveda la sua uscita di scena?
Sì. Fa parte degli obiettivi del Cremlino. Zelensky sta vivendo un incubo: potrebbe dover approvare un piano che prevede la sua fine politica. Certo, chiederebbe aiuto politico agli europei. Ma l’Europa non ha leve, per adesso.
I bombardamenti di questi giorni sono collegati ai negoziati? O sono la riprova che Putin vuole solo continuare la guerra?
Non significano che Putin esclude un accordo. Significano che vuole imporre un accordo equivalente alla disfatta di Kiev. Bombarda per aumentare la pressione. È una dinamica classica. Le bombe sui civili non indicano che rifiuta la pace. Indicano che vuole una pace ai suoi termini. Ovvero: capitolazione ucraina.
Quante possibilità ha il piano di essere implementato?
Dipende tutto dagli Stati Uniti. Putin ha obiettivi chiari: territori, esercito ridotto, neutralità e un governo “amico” a Kiev. La domanda è se Washington forzerà Kiev a cedere. L’Ucraina ha perso decine di migliaia di uomini per difendere quelle terre. Accettarne la perdita è politicamente quasi impossibile. Ma se gli Stati Uniti lo impongono, tutto diventa possibile. Sarebbe una pace precaria. Che dipenderebbe completamente dalla volontà americana.
Ma davvero Trump è disposto a fare l’agente di Putin? A imporre quel che vuole Mosca?
Finora ha resistito alle pressioni russe. Ma è evidente che il suo team quanto meno sta esplorando opzioni molto favorevoli a Mosca. E se gli Stati Uniti decidono di fare il lavoro di Putin, allora sì: il percorso per questa pace-resa è aperto.
Alla fine dell’intervista Radchenko resta in silenzio per qualche secondo. Poi la sua chiosa: “Trump sta facendo quello che Putin da tempo voleva che facesse”.
Sembra proprio che una pace possa arrivare solo se gli Stati Uniti faranno per Putin il lavoro che Putin non è riuscito a far da solo. Mosca non ha ottenuto i suoi obiettivi sul terreno. Li cerca tramite Washington. Zelensky è troppo debole per dire no. L’Europa troppo debole per impedirlo: troppi anni di delega strategica. Gli Stati Uniti abbastanza forti da imporlo. Putin tanto determinato da chiederlo.
Se il piano andrà avanti, Kiev dovrà capitolare, come spiega Sergey Radchenko. Allora la guerra finisce. Finisce male. Finisce con un Paese mutilato. Finisce con Putin che proclama una vittoria che non ha conquistato sul campo. Finisce con Washington che, per chiudere un dossier scomodo, si assume il peso di un accordo che contraddice la dottrina occidentale di molti anni. Ma finisce davvero, la guerra? Perché una pace così è difficile che porti stabilità. Porterebbe solo a una pausa.
(da Fanpage)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
LE PAROLE DI GAROFANI PRONUNCIATE ALLA TERRAZZA BORROMEO DOPO UN EVENTO SU DI BARTOLOMEI… IL FIGLIO DEL CAPITANO DELLA ROMA: “MA QUALE COMPLOTTONE CONTTRO IL GOVERNO, ESTRAPOLATI PEZZI DI CONVERSAZIONE DI SOGGETTI DOVERSI”
Le parole di Francesco Saverio Garofani sul presunto piano del Quirinale per fermare Giorgia Meloni sono state pronunciate giovedì 13 novembre alla Terrazza Borromini. Nel ristorante con vista su Piazza Navona erano presenti una ventina di ospiti. Mentre la mail di “Mario Rossi” è stata spedita la domenica a pranzo a diversi giornali di destra. Il presunto complotto contro la premier sarebbe stato ordito dopo la presentazione al Tempio di Adriano delle attività dell’associazione nata per ricordare il calciatore Agostino Di Bartolomei. Al “cocktail” era presente il figlio Luca.
Cocktail e complotti
Il figlio del capitano della Roma dello scudetto 1982-83 si definisce oggi «un amico di lunga data di garofani». È stato iscritto al Partito Democratico. E a Repubblica dice che stiamo parlando «del nulla. Ma quale complottone contro il governo… Io sono anni che lavoro in contesti prossimi alla politica, e so riconoscere quando una discussione fa un salto di scala, diventa sensibile. Invece ho letto delle cose campate in aria, costruite in
maniera totalmente artificiosa. Sono stati estrapolati pezzi di conversazione, anche di soggetti diversi». Secondo Luca Di Bartolomei Francesco Garofani «è la persona più moderata e più istituzionale che abbia mai conosciuto. Uno cui non ho mai sentito dire una parolaccia in vita, per dare un’idea del tipo. Figuriamoci i complotti».
La Terrazza Borromini
Sono andati alla Terrazza Borromini – tavolo prenotato per 18 persone, occupato da 16 – «perché il gestore è un caro amico, e anche molto romanista, il che non guasta. È un luogo dove ci sentiamo a nostro agio. È il secondo anno che la organizziamo lì. Mi sono occupato personalmente degli inviti». Ma i nomi «non li dirò neanche sotto tortura, per rispetto della privacy». Non ha nemmeno sospetti su chi abbia ascoltato (e forse registrato) la chiacchierata. «Non so se qualcuno ha tradito un patto. Sicuramente sono state tirare fuori frasi estemporanee». E Di Bartoomei non ricorda nemmeno in che contesto sono state pronunciate: «Faccio fatica a ricostruire una riflessione compiuta e approfondita sui massimi sistemi o un’analisi degli scenari futuri del Paese. Piuttosto, da quello che ho letto in questi due giorni, posso dire che si tratta di frasi estrapolate in maniera proditoria».
Dopo la cena è arrivata la mail. E ieri Il Giornale di Alessandro Sallusti ha fatto sapere che la missiva è datata domenica, alle ore 13.24. La firma è di tale Mario Rossi, nome presumibilmente di fantasia. L’indirizzo è stefanomarini@usa.com. La Verità
avrebbe cambiato solo la firma rispetto al testo, pubblicato integralmente. Stesso attacco: «C’è una conversazione, avvenuta lontano dai riflettori…». Stessa chiusa: il Colle «sta osservando, valutando, probabilmente orientando». Maurizio Belpietro ha scritto di avere ricevuto la notizia «da una fonte più che autorevole».
Il condirettore de La Verità Massimo De Manzoni ha smentito la ricostruzione suggerita dal Giornale, parlando di «invidia» dei colleghi: «Si assumono la responsabilità di quello che dicono, avremmo fatto tutto questo sulla base di una lettera anonima? E se fosse vero, come mai il Giornale non ci è andato dietro?». La fonte «non è un Mario Rossi». Anche se l’articolo pubblicato è identico a quello della mail. Tra i presenti al convegno (precedente rispetto alla cena) c’erano il conduttore di Di Martedì Giovanni Floris, il prefetto di Roma Lamberto Giannini, manager come Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema, diversi giornalisti (o ex) della tv di Stato come Carlo Paris e Fabrizio Failla. E Lando Maria Sileoni, leader della Fabi (un sindacato dei bancari).
Il quotidiano non ha chiarito l’esistenza dell’audio che sarebbe stato registrato di straforo durante la cena. Qualcuno dei commensali ha annotato mentalmente le uscite informali del consigliere di Mattarella? O è qualcun altro a registrare? E quindi l’ultima domanda rimane: chi è stato tra gli altri 15 ad accendere il cellulare e registrare la conversazione?
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
IL LORO COINVOLGIMENTO HA PRESO ALLA SPROVVISTA LE FAMIGLIE
A Triante, un quartiere periferico di Monza, è tutto palazzine e villette tranquille. Lì
abitano agenti di commercio e immobiliari, contabili e insegnanti. Lì è nato e cresciuto Alessandro Chiani, il 18enne che lo scorso 12 ottobre con altri quattro amici ha aggredito a coltellate e reso invalido uno studente 22enne della Bocconi per una banconota da 50 euro, nella zona della movida
di Corso Como. Quella stessa università, la Bocconi, che i suoi fratelli maggiori avevano frequentato. «Mi creda, siamo devastati. Abbiamo pregato tanto anche per quel ragazzo», sono le parole di Daniela, la mamma del giovane. «Non sapevo che girasse con il coltello».
È una parabola inspiegabile, almeno in apparenza, quella del 18enne che ha sferrato le due coltellate alla vittima. Ragazzo casa e chiesa, a frequentato l’oratorio fino alle scuole medie. Poi è cambiato, dicono che fosse «vivace». Lo scorso agosto, riporta Repubblica, era stato beccato dall’anti-taccheggio in un supermercato di Riccione, ma sembrava un furterello quasi innocente. Oltre a lui, è stato arrestato e portato in carcere con l’accusa di tentato omicidio e rapina aggravata l’altro maggiorenne Ahmed Atia. Cresciuto nel quartiere meno agiato di San Rocco, e figlio di una famiglia egiziana, lo scorso luglio era stato intercettato in centro a Monza mentre girava con un coltello in tasca. La sera dell’aggressione, è l’unico che non ha partecipato materialmente: si è limitato a fare da palo.
I tre minorenni della Monza bene
E poi c’erano gli altri tre, tutti 17enni. Quel 12 ottobre il gruppetto stava festeggiando il compleanno di uno di loro. C’è chi è figlio di un agente di commercio e che, al netto di un debito poi recuperato, a scuola va bene. E c’è chi è figlio di un bancario e gioca a calcio in una società monzese. Un altro, l’ultimo della compagnia di amici, è cresciuto a oratorio e Fortnite, anche se – raccontano al Corriere – è «un po’ un bullo». Sono loro, insieme ad Alessandro, a prendersi gioco della vittima nella sala d’attesa della Questura di Milano: «Lo vogliono vedere anche io il video, voglio vedere se ho picchiato forte».
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPA POTREBBE DICHIARARE NULLO IL PROTOCOLLO D’INTESA
Tra involtini di spigola e fragoline di bosco, circondati da una nutrita schiera di ministri, Edi Rama e Giorgia Meloni hanno siglato una serie di accordi bilaterali a Villa Pamphilj. Cultura, cybersicurezza, narcotraffico e un sacco di altre materie sulle quali non ci dilungheremo (16 in tutto) perché il centro di tutto erano, sono e saranno gli ormai famigerati centri per i migranti a Shengjin e Gjadër, al di là dell’Adriatico, costati quasi 700 milioni di euro più altri 70 previsti dalla nuova Finanziaria. Giorgia Meloni abbassa la voce ma non cambia i verbi a un anno di distanza da quella minacciosa cantilena di Atreju, sillabata con toni da balcone di Piazza Venezia: funzionare e funzioneranno. Sostiene la premier che quando entrerà in vigore il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, i centri “funzioneranno come dovevano dall’inizio. Avremo perso due anni per finire esattamente com’era all’inizio”. La responsabilità, te pareva, “non è mia, ciascuno si assumerà le sue” (attenti magistrati). E, sempre rivolta alle toghe, spiega: “Molti hanno lavorato per frenare o bloccare il progetto, ma noi siamo determinati ad andare avanti”. Il tempo non è servito a nulla, e nemmeno l’ossessiva modifica della materia a colpi di decreti: nei due dispendiosi centri ci sono una ventina di migranti, a dispetto delle magniloquenti cifre che snocciolavano all’indomani dell’intesa (tremila al mese).
Dopo questo show condito dalle solite lusinghe del premier albanese, due notizie in apparenza piccole mettono in dubbio le
certezze della premier. Il 5 novembre la Corte d’Appello di Roma ha firmato un’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia Ue che chiede lumi sulla competenza dell’Italia a siglare accordi come quello con Tirana.
I giudici romani domandano se – tenuto conto del Trattato dell’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, “in base ai quali l’Ue ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portata” – l’intesa Italia-Albania sia stata legittimamente siglata: se la Corte darà ancora ragione ai giudici italiani, il Protocollo sarà nullo.
C’è poi un altro ricorso che invece riguarda la competenza delle Corti d’Appello a decidere in prima istanza sui richiedenti asilo. Come si sa, il governo ha fatto di tutto per aggirare le ordinanze dei Tribunali che avevano disapplicato i decreti “Cutro” e “Paesi sicuri” (confortati anche da una sentenza della Corte di Giustizia europea dell’agosto scorso): uno dei tanti decreti aveva spostato la competenza dai Tribunali (che giudicano in primo grado) alle Corti d’Appello (che giudicano in secondo grado). Ora la Corte d’Appello di Lecce si rivolge alla Consulta perché i migranti oggetto dei provvedimenti non possono impugnare la decisione davanti a un giudice d’Appello, quindi a un giudice di merito, ma solo davanti alla Cassazione, quindi solo per motivi di legittimità formale.
Il diritto alla difesa – che sappiamo essere molto importante per Fratelli d’Italia e parenti vari – risulta “compresso” in maniera “irragionevole”. L’impugnazione è possibile in tempi “estremamente ridotti”, cinque giorni, e appunto “solo per
violazione di legge”.
Tutto questo – dicono giornalisti e commentatori – è troppo tecnico e complicato da capire per i cittadini. Si può riassumere in una semplice frase: questo governo non riconosce l’autorità giudiziaria quando intralcia le sue decisioni e prova ad aggirare le decisioni della magistratura, che applica le leggi fatte dal Parlamento, con decreti che non hanno mai i requisiti straordinari di urgenza e necessità prescritti dalla Costituzione. Ma visto che nemmeno le forzature funzionano, arrivano le varie riforme per imbrigliare la magistratura: e addio Stato di diritto. Più semplice di così…
(da ilfattoquotidiano.it)
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Novembre 20th, 2025 Riccardo Fucile
CI SONO MOLTE SFUMATURE TRA IL COLLABORAZIONISTA E CHI NON ADERISCE AL PRINCIPIO DI NATO O BARBARIE
Ma insomma: dove sono i putiniani? È forse una razza portentosamente impagliata a
grandezza naturale? Anzi: esistono i putiniani, i filorussi, reincarnazione aggiornata degli antichi supporter di Baffone, di Cruscev perfino di Breznev, ovvero gente che al momento buono, quello del passare dalle chiacchiere agli atti, tirerebbe fuori le bandiere della Federazione russa accuratamente nascoste in cantina in attesa della epifania del Piccolo Padre delle autocrazie, del Vento dell’est versione riveduta e corretta, e maniacalmente coatto lo piazzerebbe sul personale balcone? Pronto a obbedire e a credere, se non proprio a combattere.
Se usciamo dalla semantica degli eufemismi e dalle arzigogolate manovre dei politici nostrani a cui di quello che accade tragicamente tra Odessa e il Donbass importa meno che una
elezione amministrativa nel triveneto, perché mai in Italia anno domini 2025 terzo millennio qualcuno dovrebbe esser putiniano? In nome di che cosa? Il presunto putiniano italico mi sembra un Innominato matusalennamente ridestato da utilitaristiche rivisitazioni dell’allarmi, nemico alle porte! Si può ragionevolmente credere che ci sia qualcuno disposto a cadaverizzarsi su quell’abborracciato patchwork che sarebbe il putinismo: Borodino a braccetto con Stalingrado, Santa Russia e l’Internazionale, capitalismo oligarchico e soprattutto galere? Una sgangherata ricapitolazione storica davvero poco raccomandabile in cui perfino i russi sghignazzano e fanno fatica a inventariarla: figuriamoci eventuali virgulti e apostoli di Chivasso o Catanzaro disposti a immergersi nella stessa pece. Le ideologie, forse, tentano e sviano. Ma a Mosca dove è la ideologia?
Ammiratori della Forza autocratica come categoria dello Spirito forse? Ma quale? Una forza che non riesce neppur ad aver ragione in quattro anni degli scalcagnati ex sudditi ucraini? E che dovrebbe entro cinque anni! avanzare verso di noi simile a una inondazione.
Eppure… Più gli anni passano (quelli della ormai eternizzata guerra nelle pianure del centro Europa, quello sì il vero problema), più si acclimata, dalle nostre parti soprattutto, un maccartismo un po’ goffo, sbilenco, un maccartismo da cucina che denucia: spie… infiltrati… seduttori subdoli… doppiogiochisti! voci ahimè autorevoli annunciano il dilagare di ibride intromissioni e predicano ferree cautele, versione aggiornata del vecchio, primitivo taci il nemico ci ascolta. Si moltiplicano le rivelazioni: infiltrazioni russe attraverso
prezzolati dal titolo accademico e quinte colonne di più bassa lega “social”, in attesa che arrivino anche qui i misteriosi droni e chissà quali altre avvenieristiche diavolerie. Indagini lombrosianamente antropometriche misurano i tiepidi e gli esitanti nelle maledizioni antirusse, sarebbero già elementi patogeni della famiglia autoritaria.
Domanda. Non si rischia in questo modo di rendere reale ciò che reale non è, ovvero moltiplicare in modo contagiosamente tracotante i pochi grulli che trovan simpatico il sorrisino di Putin o fanno e rifanno i conti in tasca di quanto ci costa resistere (è vero, con scarsi risultati) a fianco di Kiev? Non si dà credito perfino al manipolo di “esperti” che hanno accettato il ruolo di controcampo all’Occidente uguale al Bene, sospettati, misericordia! di esser devoti ai rubli di Mosca?
Allora per definire i putiniani si è costretti ad operare “a contrario”. Secondo molti lo sarebbero tutti quelli che non sono dichiarati, sottoscritti, entusiasti “perinde ac cadaver” dell’Occidente, semplificato in Nato, Unione europea e Stati uniti. Ma qui la ingombrante presenza di Trump consente alcuni sostanziosi distinguo. Che non si uniscono al polifonico coro della necessità del riarmo.
È un concetto pericolosamente sviluppabile proprio per la sua indeterminatezza. Putiniani quindi diventano tutti i cosiddetti pacifisti che ormai è nebbiosa e smunta categoria assimilabile all’insulto. Un tempo la “gauche” anche nostrana li trovava carini, un piccolo mondo antico come si deve. Oggi equivale a vigliacchi pantofolai, disposti a tutto pur di dormir sonni tranquilli, o a utili idioti che non si accorgono di sognare ad occhi aperti mentre alle loro spalle scatta la tagliola dell’uomo
del Cremlino. Manovali pronti al soccorso sarebbero anche coloro che, pur considerando nefasta e orribile la vittoria di Putin, ricordano che le strategie messe in piedi a Bruxelles finora non hanno prodotto alcun risultato; e che render permanente la guerra, riproponendo blocchi e cortine di ferro o porcospini di acciaio, fa il gioco proprio di Putin. Lui che nel torbido brodo della guerra permanente nuota benissimo e si rafforza. Tra il collaborazionista e chi non aderisce al predicatorio: Nato o barbarie, forse ci sono larghi spazi di pensiero. Critico, non putiniano.
Domenico Quirico
(da lastampa.it)
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