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L’ITALIA AFFONDA E SILVIO PENSA AD UNA LEGGE AD PERSONAM CONTRO VERONICA LARIO E I FIGLI AVUTI DA LEI

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

SPUNTA LA NORMA CHE CONCEDE PIU’ DISCREZIONALITA’ NELLA LEGITTIMA PER I FIGLI… IL PREMIER POTREBBE DESTINARE A PIACERE META’ DELLE QUOTE RISERVATE ALLA PROLE, GARANTENDO LA MAGGIORANZA FININVEST A MARINA E PIERSILVIO…E’ LA QUARANTESIMA LEGGE AD PERSONAM

Il diavolo sta nei dettagli.
E tra le pieghe del Decreto sviluppo imposto all’Italia da Berlino e Parigi si nasconde la 40esima legge ad personam dell’era Berlusconi: la “taglia-legittima” (o “anti-Veronica”).
Tre righe secche mimetizzate a pag. 203 della bozza che restituiscono al Cavaliere il ruolo di king-maker nella delicata partita per la successione nella dinastia di Arcore.
Il succo della questione è semplice: se Berlusconi, toccando tutti i ferri del caso, facesse testamento con le leggi attuali, il controllo di Fininvest passerebbe di diritto alla seconda moglie Veronica Lario e ai figli Barbara, Eleonora e Luigi con una quota del 56,1%.
Relegando Marina e Piersilvio nello scomodo ruolo di azionisti di minoranza con il 43,9%.
Il Decreto sviluppo   –   ritoccando l’articolo 537 bis del Codice civile   –   cambia le carte in tavola e rimette il premier al centro dei giochi: consentendogli, in teoria, di lasciare fino al 53,38% dell’impero di famiglia ai due primogeniti e di ridimensionare Veronica e i suoi figli a soci di Serie B con il 46,62%
A garantire il miracoloso ribaltone è la revisione della legittima, la quota di eredità  che spetta per legge in caso di morte a moglie e figli.
Oggi la norma ha paletti rigidi che limitano la discrezionalità  del genitore che redige il testamento.
Nel caso dei Berlusconi, per dire, il presidente del Consiglio sarebbe obbligato a girare il 25% del suo patrimonio alla moglie   –   e Veronica Lario è tale fino al
divorzio   –   e il 50% ai figli, diviso in parti uguali.
A lui rimarrebbe in mano solo il 25% da distribuire a piacere.
Questa formula concentrerebbe automaticamente nelle mani della seconda moglie e dei suoi tre figli il controllo del Biscione.
Visti gli screzi in famiglia, il premier è da tempo a caccia di una soluzione che gli liberi le mani.
Il primo Cavallo di Troia   –   andato in fumo   –   è stata un norma presentata dalla Associazione delle aziende familiari (Adaf) che tagliava tout court la quota della legittima al 50% dell’eredità .
Lo scopo dell’Adaf era quello “di agevolare il passaggio di controllo delle pmi tricolori garantendo continuità  aziendale e riducendo la conflittualità  tra figli”. L’effetto collaterale era quello di togliere le castagne dal fuoco al Cavaliere.
Fallito questo tentativo, la legge “anti-Veronica” è rispuntata nel decreto sviluppo. L’articolo 542 conferma che alla moglie spetta un quarto dell’eredità  e ai figli la metà . Ma i margini di manovra di chi redige il testamento raddoppiano: del 50% riservato ai figli, solo la metà  va divisa in parti uguali.
Il resto può essere distribuito a piacere a uno o più di loro a sua scelta.
In soldoni: oggi Silvio Berlusconi ha in mano un jolly pari al 15,9% di Fininvest che non gli consente di sparigliare le carte e fa pendere l’ago della bilancia nel risiko di Arcore verso la seconda moglie.
Se la bozza diventerà  legge, invece, il premier avrà  a disposizione il 31,74%.
E a decidere chi terrà  in futuro le redini dell’impero di casa sarà  solo lui.

Ettore Livini
(da “La Repubblica”)

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LE PENSIONI SPACCANO IL GOVERNO: NIENTE ACCORDO SULLA MANOVRA

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

IL CONSIGLIO DEI MINISTRI DI IERI SERA TERMINATO SENZA UNA DECISIONE…VERTICE SERALE DI MAGGIORANZA, MA LA SITUAZIONE NON SI SBLOCCA…LA BASE DEL PDL IN RIVOLTA

La matassa è difficile da sciogliere, e in ballo c’è la tenuta del governo.
Le richieste europee di interventi strutturali sulle pensioni spaccano l’asse Bossi-Berlusconi, con la Lega Nord che si oppone minacciando la sopravvivenza stessa dell’esecutivo.
Alla fine di una giornata convulsa il Consiglio dei ministri straordinario è terminato senza assumere alcuna decisione.
E’ l’ennesimo rinvio, con il premier che prosegue gli incontri a Palazzo Chigi, a cena con alcuni ministri. Tra questi anche il leader della Lega Umberto Bossi. Ma anche durante il vertice serale non si trova la quadratura del cerchio.
Il Carroccio è la spina nel fianco. Sul tema pensioni è talmente categorica da minacciare mobilitazioni di piazza.
A dare il polso di una situazione che rischia di sfuggire ad ogni controllo è quanto si apprende in ambienti vicini a Gianni Letta. Secondo il sottosegretario non è possibile andare mercoledì a Bruxelles senza avere misure scritte nero su bianco. “E’ a rischio la tenuta del Paese”, avrebbe detto il braccio destro del Cavaliere.
E mentre Lega e Pdl continuano a trattare, La Padania, organo ufficiale delle camicie verdi, mobilita la base: “Scontro finale sulle pensioni”, è il titolo di apertura a tutta pagina del giornale in edicola stamane.
“Oggi il d-day – si legge nell’occhiello – No all’innalzamento dell’età  pensionabile. La Lega non arretra di un passo coerente con la posizione già  espressa con la manovra di agosto”.
Un groviglio difficile da sciogliere. Dopo il fallimento di quello odierno, domani ci sarà  un nuovo incontro ma nessun Cdm (almeno per il momento), e Berlusconi potrebbe presentarsi mercoledì a Bruxelles senza nessun provvedimento varato ma solo, spera, con un accordo politico su un pacchetto di iniziative.
La reazione dei partner europei e dei mercati a un tale atteggiamento sarebbe tutta da verificare.
Il Consiglio dei ministri era stato preceduto in mattinata da una girandola di incontri. Tra questi, quello a Palazzo Grazioli fra Berlusconi e Tremonti prima, e quello al Quirinale fra lo stesso premier e Napolitano.
Il Cavaliere era salito al Colle per rassicurare il capo dello Stato e garantirgli che l’Italia non è a rischio perchè i ‘fondamentali’ – secondo il premier – sono solidi.
La giornata è stata convulsa, sia per la maggioranza che per l’opposizione, e di fibrillazione dopo l’aut-aut dell’Unione Europa sulle pensioni. Parigi e Berlino chiedono risposte entro mercoledì 1, ma dentro la coalizione di governo la frattura è difficilmente sanabile: Berlusconi per tutto il giorno ha insistito sulla riforma, dibattito aperto nella Lega, riunita per ore in via Bellerio.
Riunione preceduta da una sibillina frase di Maroni: “Abbiamo già  dato”.
Intanto la “base” del Pdl si agita.
Sul forum ufficiale (“Spazio azzurro”) una sequela di sfoghi sintetizzati dall’avvertimento spedito a Berlusconi da un utente che si firma Massimo: “Lascia stare le pensioni, rischi di perdere una valanga di voti”.
La discussione ha investtio per tutto il giorno e anche la minoranza.
Con Fli che si diceva disponibile a votare la riforma in cambio delle successive dimissioni di Berlusconi.
Buttiglione (Udc) ragionava sull’età  pensionabile che va alzata ed è una vergogna che ce lo facciamo imporre dall’Europa invece di capirlo da soli”.
Nel Pd Follini ricalcava la posizione dei centristi, mentre per Cesare Damiano “non è accettabile intervenire nuovamente sulle pensioni”.
Il segretario Bersani provava a mediare, proponendo un pacchetto di misure più ampio: riforma del fisco aumentando la tassazione sulle rendite e alleggerendo il lavoro; liberalizzazioni; sviluppo del sud; riforma complessiva del welfare che preveda un sistema flessibile per il pensionamento con incentivi e interventi che riducano la precarietà  dei giovani.
Chiusura totale invece da parte di Idv (“La priorità  è recuperare le risorse riducendo i costi della politica, a partire dai vitalizi, e combattendo l’evasione fiscale e contributiva”), Sinistra e Libertà  (“serve la patrimoniale e la tassazione delle grandi rendite finanziarie”) e Prc (che invoca lo sciopero generale).

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BERLUSCONI: “STAVOLTA POTREI LASCIARE”

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

SCONTRO TRA PDL E LEGA SULLE MISURE RICHIESTE DALL’EUROPA, IL PESSIMISMO DEL PREMIER…. NEL PDL C’E’ CHI PENSA A UNA SOLUZIONE ALLA ZAPATERO CON ELEZIONI A MARZO…SI FA STRADA L’IPOTESI LETTA

Il passaggio più drammatico del governo, con un piede già  oltre il precipizio, si consuma alle sette di sera.
Quando Berlusconi incrocia il suo sguardo con quello di Umberto Bossi e scandisce bene le parole davanti al Consiglio dei ministri: “Le richieste che ci fanno in Europa sono pesanti, sono onerose sul piano del consenso elettorale, ma sono ineludibili. Vi chiedo quindi un mandato pieno per andare a Bruxelles, altrimenti è inutile che io parta”.
Anche Gianni Letta, aprendo la riunione, era stato del resto molto esplicito: “Nessuno qui dentro può immaginare che il presidente del Consiglio si presenti al Consiglio europeo a mani vuote”.
Nella richiesta di Berlusconi alla Lega di un “mandato pieno” c’è infatti anche la constatazione che, in caso contrario, per il premier non resterebbe altra strada che gettare la spugna e chiudere anzitempo la sua esperienza a palazzo Chigi.
Una possibilità  che, per la prima volta, abbandonando i soliti toni baldanzosi, Napolitano sente evocare dalla viva voce del Cavaliere, ricevuto in mattinata.
Al capo dello Stato, preoccupatissimo per il precipitare degli eventi, si presenta infatti un Berlusconi più realista del solito.
Pessimista sulle possibilità  di andare avanti: “Io davvero non so se ce la faccio. È chiaro che a Bruxelles ci vado solo se c’è l’accordo con Bossi”. Altrimenti il premier affaccia la possibilità  di un “passo indietro”, anzi appare addirittura “pronto” a farlo se la situazione lo dovesse richiedere.
La situazione è talmente grave che nel Pdl, per tutto il pomeriggio, si affastellano ipotesi estreme. Si discute di scenari “alla Zapatero”, con la possibilità  di un voto anticipato a marzo e annuncio immediato del “passo indietro”. Oppure di un governo guidato da Gianni Letta o Renato Schifani, che potrebbe trovare in Parlamento il sostegno del terzo polo.
Qualcuno pensa che sia solo un modo per aumentare la pressione sulla Lega, altri, stanchi del Cavaliere, ci puntano davvero.
Sta di fatto che il capo dello Stato si dà  da fare per tenere i contatti con tutti, dando vita a un giro di pre-consultazioni che coinvolge anche i principali esponenti dell’opposizione.
Incontra Enrico Letta, vicesegretario del Pd, e sente al telefono Pier Ferdinando Casini.
A tutti, governo e opposizione, ripete che “l’Italia deve garantire i suoi impegni”, dando così ragione a Barroso e Van Rompuy. Perchè “servono risposte urgenti e concrete”, il tempo degli annunci è scaduto.
Nè il Pd nè il terzo polo sono disposti a fare sconti o concedere aiuti a gratis. Chiedono la testa del premier, altrimenti il governo si arrangi. E anche Napolitano ammette che questa volta Berlusconi ce la deve fare con le sue gambe, non è possibile fare altrimenti.
E se il Cavaliere davvero dovesse farsi da parte oppure essere sfiduciato dalla Lega, il centrosinistra suggerisce la strada di un esecutivo di salvezza nazionale “alla Ciampi”, guidato da Mario Monti, che tiri fuori l’Italia dal buco nero dove si è cacciata.
Il governo invece è nel caos.
Nel faccia a faccia con Bossi il premier ricorre ai toni drammatici per indurlo a mollare sulle pensioni.
“Siamo con le spalle al muro – ripete in maniera accorata – e se non portiamo subito qualcosa a Bruxelles ce ne andiamo a casa tutti. Significa esporre l’Italia a un rischio enorme: te la senti di assumerti la responsabilità  di farci fare la fine della Grecia? Perchè è questo quello che accadrà “.
Di fronte ai ripetuti “niet” di Bossi deve saltare anche il Consiglio dei ministri previsto per oggi per approvare il decreto sviluppo.
Come soluzione di ripiego si pensa a una conferenza stampa con l’annuncio delle cose da fare e un “papiello” da portare a Bruxelles con i tempi di attuazione previsti per ogni provvedimento, sperando che il Consiglio europeo si accontenti di un pezzo di carta. Insomma, la strategia è ancora molto lontana da quelle “risposte concrete” chieste dal capo dello Stato e dai vertici Ue.
Nel Consiglio dei ministri, per uscire dall’impasse delle pensioni, si discute anche dell’ampio menu di riforme da approvare al più presto: mercato del lavoro, liberalizzazioni degli ordini professionali, riduzione del debito pubblico con dismissioni di beni demaniali.
Alla fine Berlusconi sembra rincuorato: “Vedete che da un male può nascere un bene. Può essere la volta buona che riusciamo a fare quella rivoluzione liberale per la quale siamo scesi in campo”. Una ventata di ottimismo che spiazza i ministri che lo stanno a sentire: l’ennesimo colpo da attore mentre il teatro brucia.

Francesco Bei
(da “La Repubblica”)

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“DEI PARTITI NON CI FIDIAMO PIU’”: GLI AQUILANI LANCIANO UNA COALIZIONE DELLA SOCIETA’ CIVILE

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

CENTO CITTADINI AQUILANI PROPONGONO UNA ALLEANZA DI LISTE CIVICHE ALLE AMMINISTRATIVE DI PRIMAVERA: “LA RICOSTRUZINE SIA PARTECIPATA”…LO SDEGNO PER LE PROMESSE NON MANTENUTE   E I SIPARIETTI MEDIATICI…ECCO TUTTI I DATI SULLA SITUAZIONE REALE A DUE ANNI E MEZZO DAL SISMA: LE PALLE MEDIATICHE DEL GOVERNO

Cento cittadini aquilani lanciano un’appello sul web: «La ricostruzione sia partecipata».
E propongono una coalizione di liste civiche alle amministrative della prossima primavera
Il teatro dei bagni folla e poi dello sdegno e dell’indignazione.
A L’Aquila, dopo il sisma del 6 aprile 2009, è andata in scena l’ascesa e caduta di Berlusconi. I siparietti mediatici, prima.
Poi, la mobilitazione della popolazione contro il governo e le sue promesse mancate: le migliaia di cittadini con le carriole in mano, per pulire il centro dalle macerie, le manifestazioni con migliaia di persone, e le firme (oltre 50mila) per chiedere una legge che ristabilisca democrazia e legalità  nell’area dell’emergenza.
Ora molti dei protagonisti di quelle battaglie promuovono un appello per lanciare la loro sfida: partecipare alle elezioni amministrative con una coalizione di liste civiche.
Si ispirano alla rivoluzione gentile di Milano e Napoli. Ma sono ancor più netti e decisi: «Dei partiti non ci fidiamo più», dicono chiaro e tondo.
Nè di quelli al governo, che nella città  del sisma ha mandato solo commissari ed esercito e non hanno mai ascoltato la voce dei cittadini.
Nè di quelli che siedono al Comune, retto dal Pd Massimo Cialente, accusato di essere «ambiguo e inconcludente», di alternare roboanti accuse a intensi flirt con Bertolaso prima, con l’abruzzese Gianni Letta, oggi.
A non andare giù a molti cittadini è stato il via libera del Comune al Progetto Case, le new town di Berlusconi, che hanno fatto di L’Aquila una infinita, invivibile, periferia (mentre la ricostruzione vera, a partire dal centro, è rimandata a non si sa quando).
E poi il comunicato di Cialente in difesa di Bertolaso dopo lo scoppio dello scandalo della cricca (l’ex sottosegretario è stato rinviato a giudizio per gli appalti del G8 della Maddalena). Troppe concessioni a un governo che lascia ancora a terra 4 milioni di tonnellate di macerie, e senza casa 35mila persone, di cui solo 14mila ospitate nelle new town.
Quindi — annunciano gli aquilani — faremo da soli: «Una coalizione di liste civiche», per vincere le elezioni di primavera.
Il candidato sindaco? «Lo sceglieremo tutti insieme».
Il programma? «Partiamo da idee comuni, ma vogliamo scriverlo strada facendo».
Al posto della campagna elettorale, un progetto di partecipazione aperto a tutta la città : workshop tematici da realizzare non in sale convegno, ma a contatto con la città  vera, nell’immensa periferia delle new town.
«Portiamo avanti una diversa concezione della delega. Non crediamo alle primarie, nè basta un voto ogni 5 anni. Vogliamo una democrazia continua, nella quale i cittadini possano esercitare sempre controllo e partecipazione. Solo così potremo ricostruire la città , che per noi è un bene comune», spiega Ettore Di Cesare, uno dei promotori dell’appello, che ha raccolto oltre 100 firme di cittadini, esponenti della società  civile, dell’economia, della cultura aquilana.
Docenti universitari, come il prorettore dell’ateneo Aquilano Giusi Pitari, la docente di ingegneria Laura Tarantino, e Antonello Ciccozzi, della facoltà  di lettere, promotore di un progetto di “microzonazione del danno” per avvicinare l’assistenza ai bisogni dei cittadini: «Per il commissariato di governo chi ha un mutuo sulla casa distrutta e ha perso il lavoro e un familiare riceve la stessa assistenza di chi magari lavora nelle costruzioni e ha raddoppiato il suo fatturato», spiega Ciccozzi.
Numerose le firme di commercianti, che col centro storico ancora chiuso non riescono a riaprire l’attività .
E poi ingegneri, architetti, tecnici, impegnati direttamente nella ricostruzione, resa impossibile da norme spesso contraddittorie:
«La sicurezza della ricostruzione viene sottoposta a parametri economici, e c’è ancora troppa confusione su tempi e modalità  per iniziare i lavori. Gli ordini professionali avrebbero dovuto bloccare tutto all’inizio, per chiedere regole certe, qualità  e sicurezza», spiega l’ingegnere Piero De Santis, uno tra i tecnici “critici” che ha firmato l’appello.
Tra i firmatari anche molti lavoratori del distretto dell’hitech aquilano, aziende come Alenia Thales e Technolabs, che provano una difficile rinascita, tra ammortizzatori sociali e problemi logistici (oggi a L’Aquila i cassintegrati sono oltre duemila, i disoccupati 4mila).
E poi molti giovani e donne. «La politica deve cambiare genere e generazione», spiega Anna Lucia Bonanni. «Basti pensare che in Comune su 40 rappresentanti c’è solo una donna. E venti diversi gruppi consiliari. Ognuno è portavoce solo di se stesso».
Il tema della democrazia e della partecipazione è centrale, per gli aquilani che vogliono sparigliare le carte: «L’Aquila è un laboratorio sia di autoritarismo che di partecipazione», spiega Antonietta Centofanti, firmataria dell’appello e presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime della casa dello studente, dove sotto le macerie rimasero 8 giovanissimi.
E l’Aquila è anche la città  della rivolta: «Dopo il sisma tanta gente è tornata ad impegnarsi in prima persona, e non può farlo nei partiti che ormai hanno perso ogni rapporto con la società . Il Consiglio comunale, il sindaco, l’opposizione, avrebbero dovuto fare da scudo, difenderci da quelli che la notte del 6 aprile ridevano, pregustando gli appalti», spiega Centofanti.
«Per fortuna siamo riusciti ad ascoltare quelle intercettazioni e questo ci ha permesso di metterci in moto. La ribellione è stata salvifica. E ora dobbiamo andare avanti. L’unica speranza è mettere in moto meccanismi di rivolta».
Per la rivolta, però, gli aquilani non aspetteranno le amministrative.
Già  da questo mese sono pronti a scendere in piazza.
Su di loro pende, infatti, il fardello del pagamento delle tasse non versate nei primi 14 mesi di emergenza: secondo il governo dovranno restituire tutti gli arretrati, fino all’ultimo euro, a partire da novembre (molte buste paga potrebbero essere quasi azzerate).
In Parlamento, inoltre, sta per iniziare la discussione sulla legge di iniziativa popolare che chiede risorse certe e una ricostruzione trasparente.
Per sostenerla gli aquilani sono pronti a tornare a invadere la strade di Roma, con le loro bandiere neroverdi.

L’Aquila, i numeri dell’emergenza

La popolazione assistita a settembre 2011: 35.238
Di cui: 13.376 nelle new town del piano C.a.s.e.
12.192 ricevono il contributo di autonoma sistemazione
639 in strutture ricettive (alberghi)
177 nella Caserma della guardia di Finanza di L’Aquila

La crisi
352mila ore di cassa integrazione a luglio 2011, equivalenti a 2mila lavoratori in cassa
1.300 lavoratori in mobilit�
4.000 ricevono l’indennità  di disoccupazione
7.000 disoccupati hanno smesso di cercare lavoro

I commissari
I compensi della struttura commissariale:
Vicecommissario Antonio Cicchetti: 232mila euro l’annoCapo della struttura tecnica di missione arch. Gaetano Fontana: 100mila euro l’anno

Il salasso
100milioni di euro di tasse non pagate durante l’emergenza dagli aquilani dovranno essere restituiti da novembre

Manuele Bonaccorsi

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DALLE PROMESSE ALL’ULTIMO CROLLO: L’ANNO TERRIBILE DI POMPEI

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

CADE UN MURO MA SALTANO ANCHE I FONDI PER LE ASSUNZIONI… TUTTI I PIANI DI RECUPERO SI SONO ARENATI….MINISTERO IN STATO CONFUSIONALE

A Pompei si guardava intensamente il cielo.
Appena diventava grigio, tornava l’incubo della pioggia che gonfiava d’acqua il terrapieno dietro i muri di via dell’Abbondanza.
Dal 6 novembre 2010, quando venne giù la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), è passato un anno.
Ma poco è cambiato.
Promesse, giuramenti: non è arrivato neanche un soldo di quelli annunciati più volte e neanche un’assunzione è stata avviata.
E così il sito – sessantasei ettari di cui quarantaquattro scavati, stesi sotto un cielo nero e ostile – è rimasto senza le protezioni che erano state assicurate dopo che lo sbriciolarsi dei muri aveva scioccato il mondo intero.
Mercoledì 26 arriva a Pompei il commissario europeo Johannes Hahn che dovrebbe dare il via libera allo stanziamento di 105 milioni di euro.
Una somma che, stando ai trionfalismi del ministero, sembrava già  nei cassetti da mesi. «Gravissima è la responsabilità  dei Beni culturali di non avere saputo proporre alcuna soluzione: nè in termini economici nè di risorse umane», è il commento di Maria Pia Guermandi del Consiglio nazionale di Italia Nostra.
Tutti sono d’accordo, almeno a parole, che solo una capillare, costante manutenzione ordinaria può mettere al riparo Pompei dai disastri.
È scritto in un piano redatto dalla Soprintendenza e approvato dal ministero. Lo ha ribadito il rapporto dell’Unesco, che rinvia ma non cancella l’ipotesi di inserire gli scavi vesuviani nella lista dei beni in pericolo.
Ma i mezzi e gli uomini a disposizione della Soprintendenza diretta da Teresa Cinquantaquattro non bastano. «In un anno abbiamo completato la mappatura di tutto lo scavo e cercato di tamponare le situazioni di massima emergenza. Ma senza quei 105 milioni e senza assunzioni i progetti di messa in sicurezza e di restauro non possiamo realizzarli», spiega la soprintendente.
E così prima il ministro Giancarlo Galan, poi il sottosegretario Riccardo Villari sono arrivati ad ammettere che davvero un’abbondante pioggia avrebbe potuto di nuovo trascinare con sè terra, fango e muri antichi.
Almeno le profezie al ministero le azzeccano.
L’ultima mazzata si è abbattuta giovedì sera al Senato. Dove è stato stralciato dal disegno di legge di stabilità , approvato cinque giorni prima dal Consiglio dei ministri, il comma sulle assunzioni di nuovo personale a Pompei.
Non c’entrava niente con quel ddl e ora seguirà  un iter autonomo. «Al ministero sono in stato confusionale», commenta Guermandi.
E così affinchè arrivino una ventina fra archeologi e tecnici (ma all’inizio si diceva una trentina) occorre aspettare ancora.
E intanto la situazione si è fatta disperata.
Mancano vigilanti e non si riesce a coprire tutti i turni.
Il laboratorio degli affreschi conta su tre restauratori soltanto. Gli archeologi sono sei, gli architetti sette e oltre che a Pompei lavorano a Ercolano, Oplonti e Stabia.
Gravissime sono le carenze fra i capotecnici, figure essenziali per vigilare i cantieri, che così sono affidati integralmente alle ditte esterne.
È un anno che si parla di nuove assunzioni.
I rinforzi erano garantiti dal decreto legge approvato ad hoc per tacitare lo scandalo pompeiano nel marzo scorso. Sono stati sbandierati prima da Sandro Bondi e poi da Galan come il segno di una risposta forte dello Stato.
Recentemente è stato Villari, new entry nel governo e ora investito di una delega speciale per Pompei e l’area napoletana (ha anche aperto un ufficio in Castel dell’Ovo, sul lungomare partenopeo) a indicare e poi spostare in avanti le scadenze: fine settembre, fine ottobre…
Ma non è accaduto nulla. Eppure c’erano graduatorie pronte, frutto di un concorso svoltosi due anni fa. Archeologi e architetti idonei erano in attesa di chiamata.
Altro capitolo doloroso, quello dei soldi.
Ancora nei giorni scorsi Villari “si augurava” che i 105 milioni sarebbero stati “scongelati” in occasione della visita del commissario europeo.
Teresa Cinquantaquattro insiste: «Allo stato attuale abbiamo speso solo i pochi soldi della Soprintendenza. Tutto quel che avevamo è impegnato».
Ma la macchina burocratica sarà  lenta e complessa.
Un ruolo negli interventi a Pompei lo avrà  anche Invitalia, società  pubblica a metà  fra il ministero dell’Economia e quello guidato da Fitto. La cui mission, come si legge sul sito, c’entra poco con l’archeologia: favorire l’attrazione di investimenti esteri, sostenere l’innovazione e la crescita del sistema produttivo, valorizzare le potenzialità  dei territori.
La comparsa sulla scena pompeiana di Invitalia è recente: nel decreto di marzo si parlava dell’apporto di un’altra società , Ales, questa sì di proprietà  dei Beni culturali.
Ma a Pompei nutrono anche altri timori.
Villari, sempre lui, ha fatto capire che i soldi promessi da un gruppo di investitori francesi (che potrebbero arrivare a 200 milioni) sono legati a una serie di iniziative fuori del sito archeologico promosse da imprenditori napoletani.
Che, tradotto, vuol dire infrastrutture, alberghi e altro.
Oltre alla pioggia, su Pompei potrebbe abbattersi un diluvio di cemento.

Francesco Erbani
(da “La Repubblica”)

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MALASANITA’, I CASI IN AUMENTO: LA MAGLIA NERA ALLA CALABRIA

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

TRA APRILE 2009 E SETTEMBRE 2011, SONO STATI BEN 470 GLI EPISODI REGISTRATI DALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE…UNA MEDIA DI 16 AL MESE CHE HA PROVOCATO 329 DECESSI…SOTTO ACCUSA L’INEFFICIZIENZA DELLE STRUTTURE

Sedici presunti casi di malasanità  al mese, 470 da fine aprile 2009 a fine settembre 2011. Episodi che per 329 volte hanno fatto registrare la morte del paziente o per errore diretto del personale medico e sanitario (223) o per disfunzioni o carenze strutturali (106).
Una tendenza in salita negli ultimi 12 mesi, con circa 200 episodi di presunta malasanità , in media 19 al mese, che avrebbero causato la morte di 166 pazienti.
Il quadro emerge dai dati rilevati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario e i disavanzi sanitari regionali.
Tra errori, disservizi, carenze strutturali e altre inefficienze, negli ultimi due anni e mezzo i casi di malasanità  che si sono rivelati fatali per il paziente, sono cresciuti.
Ma al di là  dei numeri, a impressionare è soprattutto il dato geografico.
In Calabria il maggior numero di casi di malasanità .
La maglia nera di regione con il maggior numero di episodi di sospetta malasanità  (97) va alla Calabria.   Segue la Sicilia, a 51, poi Lazio (32), Puglia (31) e Campania (29).
Tra i 30 e i 20 casi si attestano in Toscana, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, e Liguria. Scendono decisamente i numeri in Valle D’Aosta (10), Piemonte (9), Abruzzo (7), Umbria (4), Marche, Basilicata e Friuli Venezia Giulia (3).
Tra le aree più “virtuose” ci sono Molise e Sardegna (due casi di malasanità ) e Trentino Alto Adige (uno).
Decessi concentrati in Calabria e in Sicilia.
La classifica si riflette anche nella graduatoria delle regioni in cui si verificano più decessi.
Circa la metà  di questi si è registrata in Calabria (78) e in Sicilia (66).
Seguono Lazio con 35 morti, Campania con 25, Puglia con 21, Toscana con 18, Emilia Romagna con 16, Liguria con 14, Veneto con 13, Lombardia con 11, Valle D’Aosta con 9, Abruzzo con 7, Piemonte con 4, Umbria con 3, Friuli Venezia Giulia, Basilicata e Sardegna con 2, Trentino Alto Adige, Marche e Molise con 1.
La responsabilità  del personale sanitario e le carenze strutturali.
Su un totale di 470 casi di malasanità , 326 riguardano vicende legate a presunti errori da parte dei medici e del personale sanitario.
Errori che potrebbero aver causato 223 decessi.
Ma gli episodi di malasanità  spesso sono causati da disservizi, carenze e strutture inadeguate. Insomma, da lacune del Servizio sanitario nazionale considerate come punti critici dalla Commissione presieduta da Leoluca Orlando.
In particolare, su 144 casi totali registrati nel Paese, 34 riguardano gli ospedali siciliani, 23 le strutture del Lazio, 15 quelle della Calabria. E ancora: 13 casi si sono verificati in Puglia, 9 in Lombradia, 8 in Veneto e Campania, 7 in Emilia Romagna e Liguria, 6 in Toscana, 4 in Valle D’Aosta, 3 in Piemonte, 2 in Abruzzo e Sardegna, 1 in Friuli Venezia Giulia, Basilicata e Molise. Tre sono le regioni in cui non si sono registrati casi di malasanità  di tipo strutturale: Trentino Alto Adige, Umbria e Marche.
“Spesso i casi di malpractice potevano e potrebbero essere evitati, qualora gli operatori provvedessero o avessero provveduto a denunciare spontaneamente anomalie e disfunzioni”, rileva Leoluca Orlando, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario, che traccia un bilancio positivo sui lavori del gruppo da lui guidato: “A due anni dall’effettivo inizio della sua attività  di inchiesta, possiamo tracciare un bilancio molto positivo degli effetti prodotti dalla Commissione. In primo luogo la nascita e la crescita della consapevolezza che la tutela della salute, prevista dall’articolo 32 della Costituzione, sia un diritto per i cittadini ma anche un dovere per gli operatori sanitari, da noi continuamente invitati a rivendicare l’esigenza di essere posti nelle migliori condizioni di operare”.
“Studi internazionali hanno già  verificato che il 70% dei presunti casi di malasanità  è dovuto a disfunzioni e carenze organizzate del sistema sanitario”.
Commenta così i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sui casi di presunti errori nella sanità  italiana Massimo Magnanti, segretario del Sindacato professionisti emergenza sanitaria (Spes), che aggiunge: “Addossare la colpa degli errori ai medici è troppo semplicistico, spesso. La categoria lavora in strutture vecchie, con gravi carenze di personale che ne compromettono la qualità  dei servizi erogati”.
A preoccupare il sindacato è soprattutto “il sovraffollamento dei reparti, turni massacrati di guardia e carenza del personale per il blocco del turno over in alcune Regioni”, conclude il segretario.

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PREVIDENZA E VENDITE DI STATO: LA STRATEGIA DELL’EMERGENZA

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

NEL PDL E’ PROCESSO A TREMONTI: IL DECRETO SVILUPPO NON BASTA, SONO RICHIESTE MISURE STRUTTURALI

Tre giorni per mettere sul tavolo idee credibili e scadenze definite, settantadue ore per fare un po’ d’ordine nella marea di proposte e controproposte su cosa fare per riportare l’Italia allo sviluppo.
Ora Bruxelles chiede risposte certe e fissa per questo mercoledì, data del prossimo vertice Eurozona, l’appuntamento al quale il governo Berlusconi dovrà  presentarsi con un pacchetto ben definito di misure di risanamento e rilancio.
Un pacchetto appunto perchè, oltre al decreto Sviluppo che dovrebbe vedere la luce nelle prossime ore, i provvedimenti cui si pensa per risanare e rilanciare l’economia sono di natura varia.
Se ne parla ormai da mesi e le ipotesi sul piatto sono molte, ma il pressing esercitato nei confronti dell’Italia costringe il governo a passare rapidamente ai fatti.
Nelle dichiarazioni rilasciate ieri sera da Berlusconi le misure da adottare emergono con chiarezza: si va verso la vendita degli immobili di Stato, finalizzata a far cassa per raggiungere il pareggio di bilancio del 2013, e verso una nuova riforma delle pensioni.
I termini dell’intervento, d’altro canto, sono già  stabiliti: scomparsa degli assegni di anzianità  e allungamento dell’età  pensionabile ai 67 anni, un tetto che – ha precisato il premier – dovrà  valere per tutti i paesi europei.
Il forte richiamo dell’Europa da una parte, e la presa di coscienza che così fan tutti dall’altra, dovrebbero, secondo Berlusconi, aver ragione sulle resistenze della Lega. «Bossi capirà » ha detto
Oltre a queste due carte, le più pesanti fra quelle date ormai per certe – c’è poi il corollario di provvedimenti che dovranno fare da appoggio alla ripresa, come le cento agevolazioni alle imprese cui ha accennato lo stesso Berlusconi.
Ma in pista resta pure il progetto – targato Tremonti – di varare un piano di sviluppo per il Sud che sfrutti i fondi europei, e l’ipotesi di fare cassa vendendo, oltre agli immobili dello Stato, anche i terreni agricoli pubblici. Interventi di natura varia conditi con un elenco di liberalizzazioni e semplificazioni che dovrebbero togliere le briglie all’iniziativa imprenditoriale.
Un intricato e difficile puzzle i cui contorni dovrebbero essere definiti da Giulio Tremonti, se non fosse che la sua leadership è messa sempre più in discussione dalla stessa maggioranza.
Un problema nel problema: «Certo – ha ammesso il sottosegretario alla Difesa Crosetto – prima o poi si porrà  il tema di un ministro che dice l’opposto per il 99,9 per cento rispetto a quello che sostengono gli eletti alla Camera e al Senato del partito che esprime».
Al di là  delle tante e confuse idee sul rilancio, il grande quesito resta infatti lo stesso: si può fare sviluppo a costo zero come Tremonti vuole?
Sul tema la maggioranza si spacca.
Che le casse siano vuote lo ha ammesso anche Berlusconi e parte del decreto Sviluppo vero e proprio – fra sburocratizzazioni, pagelle on line e biglietti del tram elettronici – sarà  a costo zero, come il ministro dell’Economia vuole.
Ma detto questo l’idea di recuperare risorse – oltre che dalla vendita dei gioiello di Stato e grazie ai risparmi previdenziali – anche da pacchetto di sconti fiscali è tutt’altro che tramontata.
Di condono vero e proprio non si parla, ma il concordato trova ogni giorno nuovi pareri favorevoli.
E’ al centro di un elenco di provvedimenti volti alla chiusura di contenziosi vari che secondo il Pdl potrebbe portare nelle casse dello Stato 10 miliardi di gettito.
Resta in piedi anche l’ipotesi patrimoniale e il progetto di un accordo con la Svizzera, che garantendo l’anonimato, consenta di praticare una tassazione una tantum sui depositi di cittadini italiani.

Luisa Grion
(da “La Repubblica“)

argomento: Berlusconi, Costume, economia, emergenza, governo, PdL | Commenta »

LA QUOTA SESSANTA PER CHI HA 40 ANNI DI VERSAMENTI

Ottobre 25th, 2011 Riccardo Fucile

35 ANNI DI CONTRIBUTI DOVRANNO ESSERE ACCOMPAGNATI DA 65 ANNI DI ETA’… NON BASTERANNO 40 ANNI DI LAVORO SE NON SI SONO COMPIUTI ALMENO 60 ANNI DI ETA’

Trentacinque anni di contributi non saranno più sufficienti per andare in pensione anticipatamente. Dovranno essere accompagnati da almeno 65 anni di età .
Non basteranno neppure i famosi 40 anni, se non si è compiuto almeno 60 anni di età . Queste sembrano essere le proposte sul tavolo del governo per risolvere il problema della sistemazione dei conti pubblici in materia di previdenza, problema sollecitato con forza in questi ultimi giorni dall’Ue.
L’obiettivo dunque è quello di uscire nel più breve tempo possibile dai pensionamenti anticipati, nonchè accelerare l’estensione del metodo di calcolo contributivo.
Anzianità .
Fino a qualche anno fa, per chi iniziava a lavorare molto giovane, questo era il massimo della carriera professionale.
Da un pò di tempo non è più così, e l’ultima manovra del luglio scorso ha ulteriormente spostato in avanti la soglia, che nel 2014 arriverà  di fatto a 41 anni e 3 mesi e anche di più per i lavoratori autonomi.
Non si è trattato, è bene dirlo, del diritto alla pensione di anzianità , che rimane fissato a 40 annualità , indipendentemente dall’età  anagrafica.
Non è stato messo in discussione neppure dal meccanismo che lega le pensioni all’aspettativa di vita: di triennio in triennio verranno incrementati i vari limiti di età , ma non il tetto dei 40 anni. In sostanza, l’attesa di 12 mesi (18 per gli autonomi) salirà  a 13 nel 2012 (19 per gli autonomi), a 14 nel 2013 (20 per gli autonomi) per attestarsi definitivamente a 15 (21 per gli autonomi) dal 2014 in poi.
Ora però la situazione cambia.
Come accennato, le indiscrezioni danno la pensione di anzianità  con 40 anni accompagnata da almeno 60 anni di età : la famigerata «quota 100».
In buona sostanza, non si potrà  più percepire la rendita dall’Inps prima di aver compiuto il 60° compleanno, anche nel caso in cui si possa far valere 40 anni e più di versamenti. D’altro canto – anche l’Ue l’ha sottolineato – la pensione di anzianità  è una caratteristica tipicamente italiana che non può essere più tollerata.
Vecchiaia a 67.
Per fare cassa non si può comunque prescindere sull’età  del pensionamento. Sull’innalzamento dell’asticella in questi ultimi tempi sono intervenuti quasi tutti i Paesi dell’Ue.
Anche l’Italia che con l’ulteriore manovra anticrisi di Ferragosto ha anticipato il passaggio a 65 anni dell’età  di vecchiaia delle donne, già  deciso con la precedente manovra del luglio scorso.
D’ora in poi, a quanto si dice sia stato concordato a Bruxelles, per la pensione di vecchiaia occorreranno non meno di 67 anni.
La pensione di vecchiaia è la regina dei sistemi previdenziali europei. In Italia, però, il suo primato è da sempre insidiato dalle rendite d’anzianità .
Una particolarità  destinata oramai a scomparire, soprattutto riguardo alle donne.
Già  nel 2011, ad esempio, l’età  anagrafica minima da accoppiare alla anzianità  contributiva utile per ottenere la pensione anticipata è di 60 anni.
Una soglia pari a quella prevista appunto per la vecchiaia.

Domenico Comegna
(da “Il Corriere della Sera“)

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