Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
PERCHà‰ STO CON FINI
In principio fu un gesto.
Un gesto di ribellione.
Scegliere di essere fascisti, così come prima avevamo scelto di identificarci con tutte le storie e le culture dei vinti.
Con le storie dei pellerossa, con quelle dei sudisti del generale Lee e dell’epopea di Via col vento, della Vandea e dei briganti Sanfedisti e delle insorgenze popolari e antigiacobine.
Fu una scelta di libertà .
In quegli anni ’60 quando il conformismo opprimente, americano, comunista e democristiano, sembrava non dovesse avere mai fine.
Poi fu Berkeley, i campus in rivolta e il maggio francese.
La fantasia al potere e chiedere l’impossibile.
La gioventù italiana, unita in un patto generazionale che scavalcava le antiche appartenenze, metteva a comune i sogni per correre incontro al futuro.
Come prima ci eravamo schierati a fianco dei nostri fratelli maggiori che a Salò avevano bruciato la loro giovinezza per un impeto di orgoglio, allora ci schierammo a fianco dei nostri coetanei per tentare l’assalto al cielo.
Poi il dramma di Valle Giulia, quando qualcuno, manganelli alla mano, assaltò e uccise i nostri sogni, chiudendo una stagione di speranza ed inaugurandone una di odi e di lutti.
E fu guerra civile.
Ma sopravvivemmo.
Sopravvivemmo agli antifascisti che negavano il nostro diritto ad esistere ed ai fascisti che avrebbero voluto imbalsamarci vivi.
Entrambi uniti dalla necessità di trovare un transfert, un nemico esterno immaginario che giustificasse e garantisse la loro esistenza.
Sopravvivemmo ad Almirante che aveva perfezionato la tecnica di imbalsamazione tramite ipnosi e incantamenti .
Sopravvivemmo a noi stessi che cercavamo nel confronto nuove identità che garantissero il permanere delle antiche.
La nostra Coltano era il recinto del ghetto entro cui eravamo rinchiusi, ma imparammo a guardare oltre il recinto e scoprimmo che il nemico era semplicemente l’altro da noi, da cui ci separavano le scelte ma cui spesso ci univa la comunanza dei sogni.
Ci rendemmo conto che era la sua diversità a garantire la nostra identità e che l’identità può esistere solo in senso plurale.
E soprattutto scoprimmo che quel recinto era sì un confine e linea di separazione, ma anche linea di contiguità e di incontro di due mondi diversi.
In quel ghetto, non solo metaforico, scoprimmo noi stessi e gli altri da noi, le diversità come ricchezza e il pluralismo come strumento necessario per la lettura del mondo.
E ci rendemmo conto che l’uscita dal tunnel del fascismo era lo stesso tunnel.
Percepimmo insomma che quel che rendeva unica quella storia era la sua straordinaria capacità di meticciarsi con altre storie e generare ancora storie differenti dall’una e dall’altra.
Capimmo che il nostro onore e la nostra fedeltà non potevano più essere il restare a fare la guardia alle rovine, ma abbandonarle per entrare nel mondo, per contaminarci e al tempo stesso contaminarlo, fecondandolo con la storia che avremmo saputo costruire.
E tra le rovine, dove il Maestro ci aveva lasciato, deponemmo la nostra inutile ed incapacitante weltanschaung per raccogliere quella intuizione del mondo che ci sarebbe da allora servita a cavalcare la tigre.
I valori cessarono di essere un limite e divennero strumento immateriale per affrontare il mondo, leggerlo, capirlo e trasformarlo.
Non avevamo direzioni su cui procedere sin quando non incontrammo i piccoli uomini che ci insegnarono ad orientarci nelle terre oscure e a cercare la montagna del Fato.
Conoscemmo Mordor, che si presentava con la faccia pacifica di un simpatico signore di mezz’età , che lusingava le nostre vanità e ci prometteva ricchezze e meraviglie solo che avessimo obbedito.
Siamo sopravvissuti a noi stessi e a quelli di noi che in presenza dell’anello hanno liberato il nazgul che era in loro.
E siamo sopravvissuti anche agli eserciti di orchetti che in nome dell’anello hanno tentato di negare la speranza.
La speranza in quel viaggio che è la vita anche di una comunità .
Che non è varcare il mare per giungere in prossimità delle colonne di Ercole e poi tornare ad Itaca.
Non ci sono Itache nel nostro destino di comunità ma nuove Roma da fondare con gli antichi valori e gli antichi dei.
E la consapevolezza che saranno diverse da come le abbiamo immaginate.
Siamo sopravvissuti anche a Fini che ci inchiodava a realtà già superate ed il cui superamento percepiva sempre troppo tardi.
Siamo sopravvissuti ai suoi strappi maldestri, frutto di un destrismo mal digerito che ha bisogno di nemici per nutrire la propria impotenza.
L’altro da se come nemico.
Prima i comunisti, poi gli omosessuali, poi i tossici, poi gli extracomunitari e poi infine i fascisti.
Il male assoluto.
Il nemico che diviene metafisico.
Ancora una volta il tunnel era la via d’uscita.
Entrare nel Pdl, percorrerlo sino in fondo e assumerlo come vaccino.
Noi eravamo con l’istinto già altrove e aspettavamo l’occasione per riprendere il viaggio.
Poi quel dito alzato.
Non sappiamo quanto coscientemente o meno.
Ma quel dito alzato è stato l’anello che torna a fondersi nel crogiolo del fuoco primigenio.
Cadono certezze e crollano fortezze inespugnabili.
Un senso di incredulità deforma in ghigno il sorriso sprezzante di principi e cortigiani dell’anello.
Si contano i sopravvissuti.
Lo straordinario è che tra i sopravvissuti c’è lo stesso Fini che, a forza di strappi, è riuscito nell’opera al nero, trasformando se stesso e le proprie incertezze in materiale solido.
Fini che si è liberato dal passato e da un agire fatto di reminescenze.
Ma che da quel passato riesce finalmente a cogliere gli aspetti più significativi, quali la capacità di guardare al futuro e quella di meticciare la propria storia per generarne una nuova.
La politica che torna ad essere avventura esistenziale dove i valori costituiscono i necessari strumenti di viaggio per riprendere il cammino ed offrire alla comunità la speranza di una nuova narrazione ed una utopia ragionevole.
Agostino Milani
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
CRISI E SOLDI PUBBLICI: IL CONFRONTO CON I CONTRIBUTI AI GRUPPI CONSIGLIARI… LA DENUNCIA DEI RADICALI
Da destra a sinistra non c’è chi non abbia invocato più trasparenza sui soldi pubblici
destinati alla politica.
Ma di passare ai fatti non se ne parla proprio. Se si eccettuano, naturalmente, alcune meritorie iniziative purtroppo isolate.
Qualche settimana fa il gruppo radicale al Consiglio regionale del Lazio ha pubblicato sul sito internet il proprio bilancio.
Un documento impressionante, che illumina un angolo del capitolo costi della politica finora tenuto accuratamente all’oscuro. Ovvero, i contributi che le Regioni erogano ai gruppi «consiliari».
Nel 2011 il Consiglio regionale del Lazio ha versato al gruppo radicale, composto da due persone, 422.128 euro.
Dividendo a metà questa somma si può dedurre che ogni singolo consigliere abbia avuto lo scorso anno a disposizione 211.064 euro.
Oltre, naturalmente, a stipendio, diaria, annessi e connessi.
Un paragone con i contributi ai gruppi parlamentari della Camera rende bene l’idea delle dimensioni.
Nel 2011 sono stati pari a 36 milioni 250 mila euro, cifra che divisa per i 630 onorevoli dà 57.539 euro.
Morale: i gruppi politici del Consiglio regionale del Lazio incassano contributi quasi quadrupli rispetto a quelli di Montecitorio.
Proiettando i 211.064 euro procapite sulla platea dei 71 consiglieri, si ha la strabiliante somma di 15 milioni.
Esattamente 14 milioni 985.544 euro.
L’anno, e per una sola delle 20 Regioni italiane.
Questo, almeno, dicono i numeri.
Anche quei denari, come i rimborsi elettorali, possono essere considerati parte integrante del finanziamento pubblico ai partiti.
Ma con una differenza non da poco: la loro entità è pressochè sconosciuta. Intanto ci sono Consigli regionali che non pubblicano nemmeno il bilancio.
Nel Lazio, poi, c’è l’abitudine delle cosiddette «manovre d’Aula».
Che però, pur chiamandosi così, formalmente per «l’Aula» non passano affatto.
Si tratta infatti di semplici delibere dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale adottate in momenti particolari.
Per esempio a ridosso dell’approvazione di bilanci regionali particolarmente rognosi e dove bisogna evitare al massimo il rischio dei franchi tiratori.
In questa legislatura ne è già stata fatta una che stanzia 3 mila euro al mese procapite. E dato che i consiglieri sono 71, considerando anche la presidente Renata Polverini, quella «manovra d’Aula» ha determinato un introito annuale aggiuntivo per i gruppi «consiliari» di oltre due milioni e mezzo.
Ma a che cosa servono quei soldi in più?
Il conguaglio è giustificato con l’esigenza di pagare altri collaboratori.
In realtà quei denari possono venire utilizzati con discrezionalità assoluta.
Anche perchè i collaboratori sono l’unica cosa che davvero non manca.
Il Consiglio regionale del Lazio, da questo punto di vista, non teme confronti. In un’assemblea di 71 componenti, i gruppi «consiliari» sono ben 17: cinque di questi sono stati costituiti durante la legislatura, grazie al fatto che esiste un limite minimo. È ammesso, cioè, anche un gruppo composto da una sola persona.
Diciamo subito che è una pessima abitudine in voga in quasi tutte le Regioni.
Tanto che di «monogruppi» se ne contano 75 in tutta Italia.
Soltanto nel Lazio ne esistono ben otto: e sorvoliamo sulla definizione grottesca di uno di essi, il «gruppo misto» presieduto e composto dall’unico consigliere Antonio Paris.
Il presidente di se stesso ha diritto a una indennità aggiuntiva di 891 euro netti mensili, e in quanto titolare di un «gruppo», può avvalersi di alcuni collaboratori. Sette, per l’esattezza: due laureati, due diplomati, una segretaria, un addetto stampa e un responsabile della struttura.
Ma per i «gruppi» più numerosi si può arrivare fino a 24 dipendenti.
Secondo le tabelle, il numero dei collaboratori dei politici nel consiglio regionale del Lazio potrebbero arrivare a 201.
Sarà questa l’impellente motivazione per cui la superficie della sede di via della Pisana ha bisogno di un ulteriore rilevante espansione?
Lo prevede un bando da poco pubblicato sul sito internet del Consiglio, nel quale si spiega che «l’ampliamento consta nella realizzazione di n. 2 palazzine definite da tre livelli fuori terra più un piano interrato e un corpo centrale».
Base d’asta, 8 milioni 259.750 euro e 49 centesimi. Iva esclusa.
Questo per la serie: «riduzione dei costi della politica».
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera“)
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
NEL DISPOSITIVO SI LEGGE CHE I CUSTODI DEVONO GARANTIRE “LA SICUREZZA” DEGLI IMPIANTI E DEVONO UTILIZZARLI “IN FUNZIONE DELLA REALIZZAZIONE DELLE MISURE TECNICHE NECESSARIE PER ELIMINARE LE SITUAZIONI DI PERICOLO”
Conferma su tutta la linea delle decisione del gip di Taranto Patrizia Todisco e, quindi, nessuna possibilità di utilizzo degli impianti a cui sono stati posti i sigilli.
Il Tribunale del Riesame, infatti, ha depositato stamane le motivazioni in base alle quali il 7 agosto scorso ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva.
Il provvedimento non è stato ancora notificato alle parti. Confermato, come si diceva, il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva senza concedere la facoltà d’uso, che peraltro — viene sottolineato — non era stato richiesto neppure dai legali del Siderurgico.
Secondo fonti giudiziarie, inoltre, il Riesame ha disposto che non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare.
Sul percorso da seguire per interrompere i reati, i giudici invece non si sbilanciano e affidano il compito ai custodi nominati dal gip e alla procura.
Il provvedimento — notificatoall’Ilva — è di circa 120 pagine.
Nel dispositivo della propria decisione (depositato il 7 agosto scorso), il tribunale del Riesame scriveva: “I custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti”.
Per rafforzare questa disposizione, il tribunale aveva nominato custode giudiziario proprio il massimo rappresentante Ilva, Bruno Ferrante, “nella sua qualità — precisa il tribunale nel dispositivo — di presidente del Cda e di legale rappresentante di Ilva spa”.
La nomina di Ferrante quattro giorni dopo la decisione del Riesame è stata revocata dal gip Patrizia Todisco.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
AVEVANO DEFINITO IMMORALE IL COMPORTAMENTO DEI GRILLINI, MA PAGANO GLI SPAZI PURE LORO, COME PERALTRO FANNO TUTTI I PARTITI… ANCHE PERCHE’ SE NON PAGASSERO QUALE TV PRIVATA LI INVITEREBBE MAI?
La macchina è partita, fermarla è un’impresa. 
E nella betoniera che macina agli occhi dell’opinione pubblica i partiti che hanno pagato e pagano per le apparizioni in televisione, non poteva mancare il Pd.
È bastato allungare fare un viaggio fuori dalle porte di Bologna per capirlo, lungo l’A14, l’autostrada Adriatica.
È stato sufficiente dare dare un’occhiata ai palinsesti delle emittenti romagnole, per scoprire come anche loro mettano mano al portafoglio pur di comparire sul piccolo schermo.
Con buona pace del presidente dell’Assemblea regionale dell’Emilia Romagna, il renziano Matteo Richetti, che alcuni giorni, apostrofando il Movimento 5 Stelle e i “grillini”, aveva definito l’abitudine come “immorale”.
Richetti è stato smentito addirittura dai suoi colleghi in Regione, che hanno ammesso senza problemi di aver acquistato spazi, interviste, trasmissioni.
Contattati da Il Fatto Quotidiano, gli uffici commerciali di Teleromagna e Telerimini affermano senza troppe premure di aver venduto spazi tv a consiglieri regionali del Pd, del Pdl e della Lega: “Lavoriamo con tutti i partiti politici, nessuno escluso”, confermano.
Se è un segretario allora paga il partito, se è un consigliere regionale si fattura al gruppo assembleare.
Il meccanismo è molto semplice e rodato”.
Si tratta di classici spot (7,50 euro per 30 secondi di pubblicità ), di servizi sul posto con operatore e giornalista o di vere e proprie interviste in studio.
“Abbiamo un listino con i prezzi differenziati in base alle fasce orarie — spiega un agente che procura contratti a Teleromagna — Ma si può anche comprare uno spazio trasmesso a rotazione mattino, pomeriggio e sera”.
Una delle trasmissioni più gettonate dai politici emiliano romagnoli è “30 minuti” , mandata in onda ogni giorno da Teleromagna.
“Costa 500 euro ed è un approfondimento politico, con un ospite in studio che risponde alle domande del giornalista”.
La stessa emittente mette a disposizione un programma di circa 15 minuti, in cui gli eletti hanno la possibilità di spiegare cosa fanno e cosa hanno intenzione di fare.
Si chiama “La mia Regione” ed è utilizzato anche dal gruppo regionale del Pd. “Abbiamo un regolare contratto — conferma il consigliere regionale del Pd Thomas Casadei, più volte seduto negli studi di Teleromagna — ma viene sempre indicato che si tratta di una trasmissione a cura del nostro gruppo politico” .
In realtà , alcune puntate, disponibili in rete dalla sigla iniziale alla sigla finale, appaiono prive della dicitura, o di loghi in sovrimpressione, che rivelino chiaramente la natura del messaggio a pagamento.
Così come manca la didascalia nel servizio andato in onda su Videoregione a febbraio di quest’anno, dedicato a un convegno organizzato dal Pd forlivese a Castrocaro Terme.
Quasi 14 minuti di immagini corredate di interviste a diversi esponenti di partito, tra i quali anche Casadei che spiega: “Non me ne sono occupato personalmente, ma non escludo che sia frutto di un contratto tra il Pd e l’emittente”.
In quest’ultimo caso i soldi provengono dalle casse del partito, che sborsa per avere un servizio giornalistico su un proprio evento.
Le apparizioni dei consiglieri negli studi televisivi locali, invece, vengono comprate attingendo al fondo che la Regione mette a disposizione delle attività dei gruppi.
Un tesoro di quasi 4 milioni di euro l’anno, ripartito tra le varie formazioni politiche in base al numero degli eletti, che prevede anche altre voci, come pranzi di lavoro, iniziative pubbliche e incontri.
Il capogruppo del Pd alla Regione Emilia Romagna, Marco Monari, esclude che il suo gruppo possa aver usufruito di questo budget per interviste a pagamento.
“Noi compriamo spazi pubblicitari per campagne istituzionali e d’informazione, ma sempre diffusi in appositi spazi regolamentati e segnalati con il nostro simbolo”, si difende e non facendo niente per non apparire scocciato e imbarazzato.
“Non abbiamo bisogno di acquistare comparsate televisive, a tradimento della buona fede dello spettatore. Se poi sono andati in onda video o trasmissioni senza la giusta dicitura — aggiunge — qualcuno dovrà chiarire. Io sono convinto che si debba capire senza difficoltà quando un programma è un prodotto politico. Perchè non si può pagare e poi stare sul confine, in una zona di ambiguità , rischiando di ingannare chi guarda”.
In pratica quello che Giovanni Favia, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, sostiene da quattro giorni e che, per lo stesso concetto, è stato travolto dal suo stesso “capo”, Beppe Grillo.
Emiliano Liuzzi e Giulia Zaccariello
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
IN DUE ANNI DI SERVIZIO DAVANTI ALL’ABITAZIONE DEL LEGHISTA LO STATO HA SPESO 900.000 EURO… MANTENUTA LA SCORTA DI 4 AGENTI A ROMA E 4 A BERGAMO
Da lunedì scorso è stato tolto il presidio fisso di otto uomini delle forze dell’ordine dalla villa di Roberto Calderoli, sui colli di Mozzo, in provincia di Bergamo.
Il servizio per Calderoli vedeva impegnati ogni giorno otto uomini tra carabinieri, poliziotti e finanzieri, che dovevano restare di guardia davanti alla villa anche quando l’ex ministro non c’era.
Il presidio fisso era stato disposto dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica di Bergamo, essendo Calderoli in teoria nel mirino degli estremisti islamici fin dal 2006, a seguito della querelle scatenata dalla sua maglietta con la caricatura di Maometto.
Oltre agli otto uomini del presidio fisso, Calderoli dispone anche di una scorta personale, che è stata mantenuta, formata da altri otto agenti, quattro a Roma e quattro a Bergamo.
Un servizio che aveva scatenato le proteste dei sindacati di polizia Ugl e Siulp, visto che negli ultimi due anni era costato 900 mila euro.
Anche considerando che la presunta minaccia risalirebbe a ben sei anni fa, se ha senso una scorta personale pare invece discutiibile aver speso quasi un milione di euro per piantonare un bidone di benzina come la casa di Calderoli.
Un servizio di vigilanza alla villa che avrebbe potuto essere affidato dal politico leghista a un istituto privato, qualora lo avesse ritenuto necessario.
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
RIEMERGONO I CASI DEI DIRETTORI DI GIORNALI ACCOMPAGNATI DAGLI AGENTI… E ANCHE TRADITI, COME NEL CASO DI FEDE, IL CUI CAPOSCORTA HA TESTIMONIATO CONTRO DI LUI AL PROCESSO RUBY
Cosa hanno in comune un politico condannato per mafia (vedi Marcello Dell’Utri), un
ex ministro pluri dimissionario con sopra la testa un bell’appartamento acquistato a sua insaputa (vedi Claudio Scajola).
E una serie di prime firme del nostro giornalismo?
Sicuramente aver frequentato il Parlamento, senza dubbio una certa simpatia per il centrodestra. Una vaga fama godereccia.
Ma soprattutto: il servizio scorta.
La lista dei beneficiari non è amplissima, ma comunque carica di suggestioni, inciampi, inchieste e polemiche.
Del gotha fanno parte Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri, Bruno Vespa, Emilio Fede e Vittorio Sgarbi.
Alcuni dati: esistono quattro livelli di scorta a seconda della gravità .
Nel grado più alto sono previste due o tre macchine blindate, con tre agenti per auto. In quello più basso, la macchina non è blindata e gli agenti sono uno o due.
Difficile, se non impossibile, quantificare realmente quante sono le personalità coinvolte.
Le accertate sono attorno a 585, ma le variabili sono tali da non poter rendere il numero fisso.
Questo perchè in Italia non c’è un unico assegnatario, ma si passa dall’ispettorato del Viminale, al Reparto scorte di Roma (il più grande del Paese), fino agli ispettorati di Camera, Senato e Quirinale.
Senza poi escludere i Servizi Segreti. Tra questi reparti c’è chi ha avuto a che fare con Vittorio Sgarbi.
L’ex sindaco di Salemi è, strano a dirsi, il più agitato e polemico sull’argomento. Il giorno in cui gli è stata sospesa ha immediatamente rassegnato le dimissioni da primo cittadino.
Al grido: come osate!
Ristabilita, poi anche rafforzata, Sgarbi è stato protagonista all’aeroporto di Fiumicino di un qui pro quo con gli agenti dello scalo che hanno denunciato le continue angherie alle quali sono sottoposti dal critico d’arte.
La questione? Sempre la stessa: “Rifiuta di fare la fila, vuole sempre saltare la coda”. Parola del sindacato di polizia. Fino a quando “si è fatto inserire nella lista del Cerimoniale di Stato, da cui passano capi di Stato e personalità internazionali”, continua la Silp Cgil.
Ovvia la smentita di Sgarbi.
Questione intricata anche per Maurizio Belpietro, in questi giorni protagonista con Libero di una battaglia (giornalistica) contro la scorta di Gianfranco Fini, da mesi ubicata in quel di Orbetello.
Il direttore vive sotto tutela dal gennaio 2003 (allora era al Giornale), dopo una lunga serie di minacce e una lettera recapitata con dentro due proiettili. Una sera è stato anche allontanato modello-Hollywood da un ristorante perchè davanti all’entrata era stato scoperto un furgone rubato con due soggetti dentro.
Ma l’apice è stato raggiunto quando si parlò di attentato con tanto di titoloni a tutta pagina, e la cronaca dettagliata di un inseguimento messo in atto da un capo scorta particolarmente solerte.
Vicenda poi archiviata dalla Procura di Milano.
Il tizio pericoloso pare fosse un semplice ladro.
Alter ego di Maurizio Belpietro è Vittorio Feltri. Ha difeso Gianfranco Fini, e chiesto di abolire la scorta per tutti, comprese le tre maggiori cariche dello Stato: “Ripeto: si considera superfluo o troppo oneroso un servizio così? Eliminiamolo eventualmente per tutti, senza discriminazioni in positivo”, ha scritto il condirettore del Giornale.
Anche con Fede c’è di mezzo la Procura di Milano.
Durante le udienze del processo Ruby, l’ex capo della sua scorta, Luigi Sorrentino, ha raccontato le abitudini dell’ex direttore del Tg4.
Abitudini che hanno portato il carabiniere a discutere prima, e venire allontanato poi, dal servizio offerto al giornalista.
All’epoca del bunga bunga arcoriano furono numerosi gli agenti pronti a ribellarsi scocciati (e avviliti) per dover assistere a certe pratiche.
Postilla: dopo la polemica scatenata da Libero contro Fini, il ministro Cancellieri ha annunciato la nascita di un “gruppo di lavoro” per valutare lo stato delle scorte. Peccato che in questo recente clima da spending review è stato accorpato l’Ucis, l’ufficio nato dopo la morte di Marco Biagi e già preposto a tale funzione.
Franco Patrizi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
IL RETROSCENA E I PROGETTI DELL’EX MINISTRO… LO STUDIO DI UN NUOVO MOVIMENTO E LE CRITICHE AI PARTITI IN CRISI
Un anno fa era ancora il ministro che scriveva un decreto che Berlusconi, qualche giorno dopo, aveva già deciso di cambiare.
Era il potentissimo, quanto inviso ai suoi, uomo che decideva i tagli, le linee economiche, le politiche per la tenuta del bilancio.
Quello a cui il Cavaliere, proprio nell’infuocato agosto del 2011, sottrasse di fatto la guida della politica economica prendendola in mano direttamente per predicare una «politica espansiva, per la crescita».
IL FUTURO
Il resto – un veloce precipitare della situazione verso la crisi che portò alle dimissioni di Berlusconi e al governo Monti – è storia.
Adesso, c’è chi per Giulio Tremonti prospetta un futuro politico più che a rischio, chi ne evidenzia l’isolamento e l’ostilità in quello che è stato il suo partito, il Pdl, chi già preannuncia che Berlusconi «non lo candiderà più».
In realtà , come le cose dicono e come lo stesso ex ministro ha sempre sostenuto in questi mesi, la rottura – politica, non personale – è avvenuta allora.
Quando le strade si divisero su scelte economiche diverse, quasi opposte.
E da allora i rapporti politici tra i due si sono interrotti, anche se quelli personali, seppur sporadici, sono sopravvissuti alla tempesta, perchè il Cavaliere è uno che non dimentica nemmeno i compleanni degli uomini con cui ha vissuto fianco a fianco (e proprio ieri, guarda caso, l’ex ministro festeggiava 65 anni, si può giurare che da Villa la Certosa sia partita la telefonata di auguri).
CONTRIBUTO
E però, è certo che il cammino comune si è interrotto, e che sembra ad oggi impossibile vedere Tremonti nelle liste di un Pdl che lo ha sempre vissuto come un corpo estraneo.
Ma immaginare che l’ex ministro torni al suo studio professionale, si dedichi soltanto ai libri o ai convegni è altrettanto improbabile.
Lui, con gli amici e i collaboratori, ha fatto capire che è pronto ancora a dare il suo contributo ad una politica che vede in una crisi di difficilissima ma anche «delle soluzioni possibili».
Ed è convinto che uno spazio politico fra partiti sempre più in crisi ci sia.
I RAPPORTI
In un Paese dove la benzina sfiora i due euro – sono i suoi ragionamenti – dove si è varata una riforma delle pensioni che non darà risparmi e una del lavoro che creerà «centinaia di migliaia di disoccupati» tra i giovani con contratti a termine che non potranno essere assunti in pianta stabile dalle aziende proprio nei settori cruciali della crescita – quelli dell’innovazione, dell’informazione, della ricerca, dell’informatica -, nuove ricette sono doverose e possibili.
Ed è a quelle che l’ex ministro sta lavorando, mantenendo molto stretti e frequenti i suoi rapporti con economisti come con politici, europei e non solo, conosciuti negli tanti anni in cui – alla guida dell’Economia -, l’Italia vantava una crescita «migliore di quella di Francia e Olanda», uno spread medio a 113, coesione sociale e anche il riconoscimento di Mario Monti che dava atto a Tremonti di aver tenuto in ordine i conti pubblici pur avendo fatto troppo poco per la crescita.
PARLAMENTO
Oggi invece il quadro appare all’ex ministro sconfortante.
A bocce ferme, si prospetta un Parlamento legittimato dal voto del 60-70% degli italiani, con alto astensionismo, con i maggiori partiti che, anche in Grande coalizione, non rappresenterebbero nemmeno la metà degli italiani.
E questo perchè l’offerta politica è «limitata»: un Pdl sempre più trasformato in Lista Berlusconi, una Lega non più di governo, qualche lista personale di «telepredicatori» e Grillo. Questo avrebbero di fronte gli elettori del centrodestra, visto che la Cosa centrista in costruzione appare, con le aperture a sinistra, più «rosa che bianca…».
MOVIMENTO
Ecco allora che si apre uno spazio per un movimento ancora tutto da costruire ma del quale Tremonti può fare da catalizzatore.
Nelle sue uscite pubbliche in occasioni di dibattiti e per la presentazione del suo ultimo libro, «Uscita di sicurezza», raccontano che l’interesse attorno a lui e a un suo eventuale impegno è stato costante.
E la dice lunga il botta e risposta avvenuto la scorsa settimana a Cortina, dove appunto Tremonti si trovava per presentare la sua ultima fatica e dove aveva appena finito di smontare pezzo per pezzo la politica di Monti con relativi risultati (non a caso al suo governo ha votato solo la prima fiducia, e nessun’altra).
Ad una signora che gli chiedeva di firmare una copia del libro e che, entusiasta, gli sorrideva «professore, lei deve fondare un partito!», ha risposto in sua vece l’amico Gianni Letta, presente all’evento: «Ma guardi che lo sta già fondando…».
«Ho passato il Rubicone», è stata l’unica ammissione fatta tempo fa da Tremonti a chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto in futuro, conscio comunque che «le piante devono crescere dal basso».
Se non è un annuncio, ci somiglia molto.
Paola Di Caro
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
GUAI LEGALI ANCHE PER LE AGENZIE DI RATING MOODY’S E STANDARD & POOR’S CHE DOVRANNO COMPARIRE IN GIUDIZIO CON L’ACCUSA DI FRODE PER AVER ASSEGNATO VALUTAZIONI GONFIATE A TITOLI VENDUTI DA MORGAN STANLEY E GARANTITI DAI TITOLI SPAZZATURA
Anche Deutsche Bank finisce sotto inchiesta per riciclaggio. 
La banca tedesca, insieme ad altri tre istituti di credito europei di cui non si conoscono ancora i nomi, è infatti finita sotto la lente degli organi di vigilanza Usa — l’Ufficio del Tesoro per il controllo di asset esteri, la Federal Reserve, il Ministero della Giustizia e la Procura di New York – per un presunto riciclaggio di denaro sporco.
Secondo quanto trapela da ambienti legali, le autorità di vigilanza americane si muoveranno con decisione contro il gruppo tedesco una volta chiuso definitivamente il caso Standard Chartered, la banca britannica accusata di aver nascosto 250 miliardi di dollari di transazioni con l’Iran, in barba alle sanzioni contro il regime di Teheran, e che nei giorni scorsi ha raggiunto un accordo con il Dipartimento Servizi Finanziari di New York, pagando una multa di 340 milioni di dollari. Il patteggiamento le ha consentito di mantenere la licenza per operare negli Usa.
Deutsche Bank non ha rilasciato nessun commento, ma ha precisato che “nel 2007 la banca prese la decisione di non fare più affari con i governi di Siria, Iran, Sudan e Nord Corea e mettere fine a tutti i rapporti esistenti con questi Paesi entro il limite legalmente possibile”.
Nuovi guai legali anche per le agenzie di rating Moody’s e Standard & Poor’s che dovranno comparire in giudizio con l’accusa di frode nella vicenda dei mutui subprime e, in particolare, per aver assegnato “rating gonfiati” a titoli venduti da Morgan Stanley e garantiti dai mutui subprime, dopo che il giudice distrettuale di New York, Shira Scheindlin, ha respinto il ricorso delle due agenzie di rating di liquidare il caso, accettando così la richiesta degli investitori istituzionali, avviata nel 2008, di citarle in giudizio.
I legali degli investitori, fra cui l’Abu Dhabi Commercial Bank, si sono detti “soddisfatti che il giudice dopo aver esaminato le prove ha riconosciuto il valore delle nostre accuse contro le agenzie di rating”.
Sarà dunque una giuria di un tribunale di Manhattan a stabilire se le valutazioni assegnate da Moody’s e S&P alle obbligazioni garantite da mutui subprime erano “inappropriati”, traendo in inganno gli investitori.
E dando un contributo importante alla crisi esplosa nel 2007 con effetti ancora oggi sotto gli occhi di tutti.
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Agosto 20th, 2012 Riccardo Fucile
LA MALFA E PISANU DA RECORD… TRA I PRIMATISTI ANCHE I “GIOVANI” FINI E CASINI, MA ANCHE “SCONOSCIUTI” COME TASSONE E COLUCCI… FUORI CLASSIFICA ANDREOTTI: DALLA COSTITUENTE NON HA MAI SALTATO UN TURNO
Quasi ottanta anni di Parlamento in due, più dei 66 anni di vita del Parlamento italiano, dalla sua prima seduta il 28 giugno 1946.
Il record è di Giuseppe Pisanu, per il Senato, e Giorgio La Malfa, per la Camera, che ad oggi hanno registrato 38 anni di attività nelle rispettive Camere d’appartenenza.
A stilare la classifica della longevità politica è stato il senatore Idv Stefano Pedica che contemporaneamente ha lanciato la campagna “Cosa hanno fatto in questi anni?”, per dire no a chi è in Parlamento “da una vita”.
Pezzo forte della campagna è un elenco di onorevoli da più d’un decennio: “Ci sono persone — fa notare Pedica — che siedono in Parlamento da decenni. Un lungo elenco di persone che vantano da un minimo di 16 anni a un massimo di quasi 40 anni di presenze alla Camera e al Senato”.
I due recordmen. Pisanu, 75 anni, 38 anni e 128 giorni in Parlamento, si trovava già sotto i riflettori tra il 1975 il 1980 quando si trovava nella segreteria politica nazionale della Democrazia Cristiana guidata da Benigno Zaccagnini: cercarono di porre le basi del compromesso storico con il Partito Comunista di Enrico Berlinguer e soprattutto dovettero gestire i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro.
Si allontanò dalla politica perchè sfiorato dalla vicenda P2 (c’è chi lo avvicinò al nome di Flavio Carboni), ma tornò grazie a Silvio Berlusconi che al suo equilibrio dovette ricorrere dopo che Claudio Scajola firmò una delle sue tante lettere di dimissioni da ministro (in quel caso dovette lasciare il Viminale perchè definì il giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Br, “un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza”).
La Malfa, 73 anni, ex capo del Partito Repubblicano Italiano, partecipò — con il partito guidato dal leader Giovanni Spadolini — a molti governi del Pentapartito negli anni Ottanta.
Figlio d’arte di Ugo, pure lui capo del Pri tra i Sessanta e i Settanta (a lui Pertini affidò un mandato esplorativo nel 1979 che avrebbe visto il primo capo del governo non dc, ma il tentativo fallì) Giorgio La Malfa è stato nominato ministro già nel 1980.
Poi è tornato al governo pure lui con Berlusconi, assaggiando la Seconda Repubblica dopo essersi abbeverato alla Prima.
Il resto della top ten della Camera.
Alla Camera, saldamente al secondo posto è l’onorevole Mario Tassone dell’Udc, poco noto alle ribalte televisive ma con 34 anni e 14 giorni di carriera parlamentare.
Plurisottosegretario Dc, ha partecipato a governi di Bettino Craxi, Amintore Fanfani e al Berlusconi II (dal 2001 al 2006) dov’è stato promosso — in quota Udc — viceministro di Pietro Lunardi.
Sembrava poter finalmente emergere dalle retroguardie quando Marco Follini decise di dare le dimissioni da segretario, ma gli venne soffiato il posto a capo dell’Unione di Centro da Lorenzo Cesa.
Dopo Tassone si qualifica in alta classifica con 33 anni e 34 giorni Francesco Colucci: nato socialista e diventato ultraottantenne con il Pdl.
Detiene un record in stile Bolt: è l’unico deputato ad essere stato eletto questore della Camera in due legislature consecutive (2006-2008 e quella corrente iniziata nel 2008).
Non c’era mai riuscito nessuno nel Parlamento repubblicano (l’unico precedente risale alla Camera del Regno dei Savoia).
I due presidenti.
Ecco invece due protagonisti della politica italiana e peraltro entrambi alla guida dell’assemblea di Montecitorio.
Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini sono entrati alla Camera per la prima volta insieme, 29 anni fa.
I curricula sono arcinoti.
Fini, eletto per la prima volta nel 1983, era delfino di Giorgio Almirante che lo aveva designato personalmente durante una festa a Mirabello.
Poi una nuova investitura nella corsa a sindaco di Roma (1993, questa volta era Berlusconi ancora solo imprenditore), gli anni al fianco del Cavaliere sia all’opposizione sia in maggioranza (da ministro e da vicepremier), poi la fusione di An con Forza Italia e infine lo strappo.
Casini ha una carriera analoga nella sua parte centrale (la scelta di campo a favore di B., opposizione, governo, comizi e sbandieramenti in piazza con Silvio e lo strappo finale) ma tutto era iniziato da consigliere comunale a Bologna e poi da discepolo di Bisaglia prima e Arnaldo Forlani poi.
D’Alema secondo alla Turco.
Prima del Partito Democratico, forse a sorpresa, è l’ex ministro Livia Turco (25 anni e 42 giorni), eletta la prima volta nel 1987, carriera tutta all’interno del Pci, poi diventato Pds (lei era favorevole alla Svolta), poi Ds, poi Pd.
La Turco precede perfino Massimo D’Alema (23 anni e 125 giorni) che pur avendo cominciato a fare politica da giovanissimo è riuscito a farsi eleggere “solo” nel 1987.
Poi, va detto, non si è potuto certo lamentare perchè ha ricoperto quasi tutto quello che poteva ricoprire (ed è stato anche in predicato di salire al Colle: pare fosse uno dei candidati “preferiti” di Berlusconi).
Walter Veltroni e Rosy Bindi si trovano, invece, nel folto gruppo di “diciottenni” che contiene anche nomi eccellenti come quello di Silvio Berlusconi.
Primo della Lega è Umberto Bossi con 21 anni e 124 giorni seguito da Roberto Maroni (20 anni e 111 giorni).
I senatori tra i senatori.
A Palazzo Madama dietro a Pisanu c’è Altero Matteoli (ministro, ministro e ancora ministro del centrodestra berlusconiano), entrato alla Camera nel 1983 insieme a Fini e al suo Msi, come il collega di partito (allora ed oggi) Filippo Berselli.
La presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro è all’ottavo posto con 25 anni e 42 giorni, più di Emma Bonino (21 anni e 90 giorni), ma soprattutto più di Franco Marini (20 anni e 111 giorni) che aveva avuto altro da fare (il sindacalista). Maurizio Gasparri e i leghisti Roberto Calderoli e Roberto Castelli sono parlamentari da 20 anni.
Schifani, Dell’Utri, Dini, Bersani: “giovanissimi”.
L’attuale presidente del Senato, Renato Schifani, è a quota 16 anni e 96 giorni: ultimo in classifica in compagnia di Marcello dell’Utri, Lamberto Dini e Marcello Pera.
Fuori dalla classifica di Pedica c’è il segretario Pd Pier Luigi Bersani, giunto alla Camera nel 2001 nella legislatura numero 14 e impegnato per due anni a Bruxelles dal 2004 al 2006.
E il leader Idv Antonio Di Pietro che divenne senatore per la prima volta nel 1997 (candidato a elezioni suppletive nel seggio del Mugello) ma non fu eletto nella legislatura 2001-2006.
Pedica spiega che si tratta di “politici che hanno vissuto la prima e la seconda Repubblica e che in tutto questo tempo hanno visto crescere il debito pubblico del nostro Paese fino a 2 mila miliardi”.
Pedica ha annunciato una raccolta di firme “per mettere fine ad un sistema che in questi anni ha creato tanti ‘stipendiati’ d’oro senza alcun beneficio per i cittadini”.
L’inarrivabile Divo.
Della classifica non fa parte il senatore a vita Giulio Andreotti, nonostante spetti proprio a lui il record assoluto di anni passati tra palazzo Montecitorio e Palazzo Madama: fece parte dell’Assemblea Costituente, è stato eletto nella prima legislatura e, da allora, non ha mai “saltato un turno”.
Ora è senatore a vita: lo nominò il presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1991. Cossiga non c’è più, Andreotti (classe 1919) sì.
D’altra parte il potere logora chi non ce l’ha.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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