PSICOPATOLOGIA DI UN VENTENNE DEGLI ANNI ’70
PERCHà‰ STO CON FINI
In principio fu un gesto.
Un gesto di ribellione.
Scegliere di essere fascisti, così come prima avevamo scelto di identificarci con tutte le storie e le culture dei vinti.
Con le storie dei pellerossa, con quelle dei sudisti del generale Lee e dell’epopea di Via col vento, della Vandea e dei briganti Sanfedisti e delle insorgenze popolari e antigiacobine.
Fu una scelta di libertà .
In quegli anni ’60 quando il conformismo opprimente, americano, comunista e democristiano, sembrava non dovesse avere mai fine.
Poi fu Berkeley, i campus in rivolta e il maggio francese.
La fantasia al potere e chiedere l’impossibile.
La gioventù italiana, unita in un patto generazionale che scavalcava le antiche appartenenze, metteva a comune i sogni per correre incontro al futuro.
Come prima ci eravamo schierati a fianco dei nostri fratelli maggiori che a Salò avevano bruciato la loro giovinezza per un impeto di orgoglio, allora ci schierammo a fianco dei nostri coetanei per tentare l’assalto al cielo.
Poi il dramma di Valle Giulia, quando qualcuno, manganelli alla mano, assaltò e uccise i nostri sogni, chiudendo una stagione di speranza ed inaugurandone una di odi e di lutti.
E fu guerra civile.
Ma sopravvivemmo.
Sopravvivemmo agli antifascisti che negavano il nostro diritto ad esistere ed ai fascisti che avrebbero voluto imbalsamarci vivi.
Entrambi uniti dalla necessità di trovare un transfert, un nemico esterno immaginario che giustificasse e garantisse la loro esistenza.
Sopravvivemmo ad Almirante che aveva perfezionato la tecnica di imbalsamazione tramite ipnosi e incantamenti .
Sopravvivemmo a noi stessi che cercavamo nel confronto nuove identità che garantissero il permanere delle antiche.
La nostra Coltano era il recinto del ghetto entro cui eravamo rinchiusi, ma imparammo a guardare oltre il recinto e scoprimmo che il nemico era semplicemente l’altro da noi, da cui ci separavano le scelte ma cui spesso ci univa la comunanza dei sogni.
Ci rendemmo conto che era la sua diversità a garantire la nostra identità e che l’identità può esistere solo in senso plurale.
E soprattutto scoprimmo che quel recinto era sì un confine e linea di separazione, ma anche linea di contiguità e di incontro di due mondi diversi.
In quel ghetto, non solo metaforico, scoprimmo noi stessi e gli altri da noi, le diversità come ricchezza e il pluralismo come strumento necessario per la lettura del mondo.
E ci rendemmo conto che l’uscita dal tunnel del fascismo era lo stesso tunnel.
Percepimmo insomma che quel che rendeva unica quella storia era la sua straordinaria capacità di meticciarsi con altre storie e generare ancora storie differenti dall’una e dall’altra.
Capimmo che il nostro onore e la nostra fedeltà non potevano più essere il restare a fare la guardia alle rovine, ma abbandonarle per entrare nel mondo, per contaminarci e al tempo stesso contaminarlo, fecondandolo con la storia che avremmo saputo costruire.
E tra le rovine, dove il Maestro ci aveva lasciato, deponemmo la nostra inutile ed incapacitante weltanschaung per raccogliere quella intuizione del mondo che ci sarebbe da allora servita a cavalcare la tigre.
I valori cessarono di essere un limite e divennero strumento immateriale per affrontare il mondo, leggerlo, capirlo e trasformarlo.
Non avevamo direzioni su cui procedere sin quando non incontrammo i piccoli uomini che ci insegnarono ad orientarci nelle terre oscure e a cercare la montagna del Fato.
Conoscemmo Mordor, che si presentava con la faccia pacifica di un simpatico signore di mezz’età , che lusingava le nostre vanità e ci prometteva ricchezze e meraviglie solo che avessimo obbedito.
Siamo sopravvissuti a noi stessi e a quelli di noi che in presenza dell’anello hanno liberato il nazgul che era in loro.
E siamo sopravvissuti anche agli eserciti di orchetti che in nome dell’anello hanno tentato di negare la speranza.
La speranza in quel viaggio che è la vita anche di una comunità .
Che non è varcare il mare per giungere in prossimità delle colonne di Ercole e poi tornare ad Itaca.
Non ci sono Itache nel nostro destino di comunità ma nuove Roma da fondare con gli antichi valori e gli antichi dei.
E la consapevolezza che saranno diverse da come le abbiamo immaginate.
Siamo sopravvissuti anche a Fini che ci inchiodava a realtà già superate ed il cui superamento percepiva sempre troppo tardi.
Siamo sopravvissuti ai suoi strappi maldestri, frutto di un destrismo mal digerito che ha bisogno di nemici per nutrire la propria impotenza.
L’altro da se come nemico.
Prima i comunisti, poi gli omosessuali, poi i tossici, poi gli extracomunitari e poi infine i fascisti.
Il male assoluto.
Il nemico che diviene metafisico.
Ancora una volta il tunnel era la via d’uscita.
Entrare nel Pdl, percorrerlo sino in fondo e assumerlo come vaccino.
Noi eravamo con l’istinto già altrove e aspettavamo l’occasione per riprendere il viaggio.
Poi quel dito alzato.
Non sappiamo quanto coscientemente o meno.
Ma quel dito alzato è stato l’anello che torna a fondersi nel crogiolo del fuoco primigenio.
Cadono certezze e crollano fortezze inespugnabili.
Un senso di incredulità deforma in ghigno il sorriso sprezzante di principi e cortigiani dell’anello.
Si contano i sopravvissuti.
Lo straordinario è che tra i sopravvissuti c’è lo stesso Fini che, a forza di strappi, è riuscito nell’opera al nero, trasformando se stesso e le proprie incertezze in materiale solido.
Fini che si è liberato dal passato e da un agire fatto di reminescenze.
Ma che da quel passato riesce finalmente a cogliere gli aspetti più significativi, quali la capacità di guardare al futuro e quella di meticciare la propria storia per generarne una nuova.
La politica che torna ad essere avventura esistenziale dove i valori costituiscono i necessari strumenti di viaggio per riprendere il cammino ed offrire alla comunità la speranza di una nuova narrazione ed una utopia ragionevole.
Agostino Milani
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