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LA CASTA DELLA UE: BUONUSCITE D’ORO PER I PARLAMENTARI

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

L’INDENNITà€ TRANSITORIA GARANTISCE AGLI ONOREVOLI ASSEGNI ENORMI PER “REINSERIRSI NEL MONDO DEL LAVORO” E L’INTERA ASSEMBLEA SI DIVORA UN MILIARDO E 700 MILIONI

Il termine tecnico è “indennità  transitoria”, ma gli uffici di Bruxelles preferiscono definirla “incentivo al reinserimento lavorativo”.
Per i parlamentari europei che non verranno rieletti o non si ricandideranno è, più semplicemente, una generosissima buonuscita, l’ultimo assegno prima di dire addio a Strasburgo e Bruxelles. Pensione a parte, ovviamente.
Il principio è simile a quello che regola un normale trattamento di fine rapporto, ma ci sono due differenze importanti.
Uno, l’indennità  transitoria non viene accumulata attraverso accantonamenti di stipendio, ma è finanziata totalmente attingendo al budget comunitario.
Due, rispetto a un normale tfr è molto più lauta.
Prendiamo ad esempio i quattro parlamentari europei con passaporto italiano che hanno messo piede per la prima volta a Strasburgo nel 2013: Fabrizio Bertot (Fi), Franco Bonanini (ex Pd), Susy De Martini (Fi) e Franco Frigo (Pd). Se non dovessero essere rieletti, riceveranno un bonifico d’addio dell’importo di 39 mila euro ciascuno.
L’indenntà  di chi può vantare un lungo trascorso nell’assemblea comunitaria può raggiungere l’equivalente di due anni di stipendio: 190 mila euro.
Nella pattuglia dei 73 eurodeputati italiani l’unica che potrebbe intascare la cifra piena è Cristiana Muscardini, stabilmente ancorata al suo scranno a Strasburgo dal 1989, quando venne eletta nelle file dell’Msi.
Ciriaco De Mita — che tornerà  nella natìa Nusco, dove spera di essere eletto sindaco — dopo vent’anni di carriera percepirà  159 mila euro.
Anche Mario Borghezio — a meno di clamorosi exploit leghisti nella circoscrizione Centro — lascerà  Strasburgo, dove da 13 anni conduce la sua battaglia antieuropea.
Il suo addio sarà  accompagnato da 103 mila euro.
Il meccanismo di calcolo dell’indennità  transitoria è semplice: per ogni anno di attività  il parlamentare riceve un mese di stipendio (7.956 euro lordi, che al netto delle tasse diventano circa 6.200).
Il tetto massimo è fissato in 24 mensilità , quello minimo in sei.
Per questo è sufficiente un periodo di appena dodici mesi per ricevere una buonuscita da quasi 40 mila euro.
Quest’indennità  è solo una delle tante voci che contribuiscono a far lievitare i costi dell’Europarlamento.
Le cifre ufficiali indicano una spesa totale di 1,756 miliardi di euro l’anno, oltre un quinto del totale delle spese amministrative dell’Unione.
Di questi, il 35 per cento viene impiegato per pagare gli stipendi degli oltre 6 mila impiegati, le traduzioni e gli interpreti; mentre il 27 per cento serve per finanziare tutti le spese connesse ai 765 europarlamentari: stipendi, rimborsi spese, assistenti, uffici di rappresentanza.
Questo significa che ogni parlamentare costa al contribuente 2 milioni 295 mila euro l’anno.
A gravare come un macigno sul bilancio dell’Assemblea c’è il problema della doppia sede. Anzi, tripla: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo.
È un tema che si trascina da tempo. Mario Giordano, nel suo ultimo libro Non vale una lira, ha fatto i conti e ha calcolato che questa assurdità  brucia 103 milioni di euro l’anno tra spese di viaggio, di alloggio, mantenimento delle sedi e indennità  di missione.
Nell’ottobre scorso è stata approvata una risoluzione che dovrebbe finalmente accorpare quello che una burocrazia schizofrenica ha disseminato in tre Stati diversi, ma le possibilità  che il provvedimento entri effettivamente in vigore sono nulle, perchè sarà  sufficiente il veto di un Paese per bloccarla.
E la Francia non ha nessuna intenzione di rinunciare alla sua eurosede, nonostante a Strasburgo non si tenga nessuna seduta per 317 giorni l’anno.
Il fedele alleato di Parigi sono gli stessi europarlamentari, che grazie ai continui spostamenti ricevonoemolumenti aggiuntivi per 3.300 euro al mese.
Tra gli altri costi all’indice c’è quello del doppio vitalizio. Fino alla riforma del 2009, ogni eurodeputato poteva richiedere una sorta di pensione integrativa, oltre a quella pagata direttamente dallo Stato di provenienza.
A differenza di quelle stipulate dai privati cittadini, i contributi di questa seconda pensione venivano però coperti per due terzi dal datore di lavoro, cioè l’Ue.
La lista completa dei 1.113 beneficiari è segreta, ma il think tank britannico Open Europe cinque anni fa riuscì ad ottenerne un estratto in cui figurano i nomi di Antonio Tajani (attuale Commissario per l’industria), Fausto Bertinotti e Umberto Bossi.
Si sa inoltre che il 62 per cento degli europarlamentari italiani vi ha aderito, a fronte del 35 per cento dei tedeschi, del 28 per cento dei francesi e dell’11 per cento degli olandesi.
Nonostante dal 2009 non sia più possibile aderirvi, in questi giorni la doppia pensione è tornata di attualità .
Stando alle cifre confermate dalla stessa Ue, infatti, la prebenda che si vorrebbe abolita pesa ogni anno di più sulle finanze comunitarie.
Gli ultimi dati disponibili parlano di un deficit attuariale che ha superato i 227 milioni di euro.

Alessio Schiesari
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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SE IL CANTAUTORE DI SINISTRA NON VUOLE VOTARE PIU’ PD

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

L’ULTIMO A SALUTARE E’ STATO FRANCESCO GUCCINI

L’amore tra la sinistra e il cantautorato italiano è finito da un pezzo.
L’ultimo a salutare è stato Francesco Guccini, il maestrone, passato, assai remoto, da anarchico e presente da astenuto: “Non mi riconosco in questa sinistra”, ha detto.
“Il massacro di Romano Prodi è stata la svolta. Da qualche parte dovrò pur stare, ma questo Pd non mi piace, non mi piace per niente. Dicono che Matteo Renzi sia democristiano. Io non lo so, non lo conosco”. Non lo conosce e non smania per conoscerlo.
Una svolta maturata da tempo da Fiorella Mannoia, un voto a Rivoluzione civile alla Camera, uno al Movimento 5 stelle al Senato. Non al Pd.
E se Lucio Dalla aveva chiuso le porte alla sinistra già  ai tempi di Cofferati sindaco di Bologna, è sulla via dell’abbandono anche Francesco De Gregori, assolutamente critico nei confronti di Matteo Renzi, e in lite, a mesi alterni, con il resto delle macerie che restano del centrosinistra.
Dalla lo raccontava (“a votare non vado più”), De Gregori resta coperto da quel velo di riservatezza, nascosto dietro barba, cappello e occhiali da sole
Sembra di parlare della preistoria. Ai tempi del Partito comunista, cantanti, ma anche molti attori e registi, stavano da quella parte lì.
Chi non si schierava rischiava di finire sul registro delle mosche bianche. O peggio, nere. Come accadde a Lucio Battisti.
All’inizio degli anni Settanta lo accusarono di finanziare gruppetti dell’estrema destra e dovette chiuderla lì anche con i concerti dal vivo, causa minacce.
Vuoi per quella direzione ostinata e contraria, vuoi che il loro pubblico era giovane, giovane e comunista.
Vuoi che le feste dell’Unità  pagavano fior di quattrini per averli a casa. Oggi non c’è più niente di tutto questo. Pochi cantautori giovani, poco pubblico, neppure l’ombra di quelli che erano i valori della sinistra.
Renziano è Roberto Vecchioni che ha dedicato un suo vecchio pezzo al fu giovane rottamatore. Sogna ragazzo sogna.
Tenacemente vicino al Movimento 5 stelle Dario Fo. Gino Paoli era comunista e non trova una casa. La stessa dalla quale era uscito Enzo Jannacci, negli ultimi anni disincantato quanto strampalato era stato tutta la vita.
A favore di Grillo sono invece sia Cristiano De Andrè che Ivano Fossati: “L’unica rottura in un panorama politico piatto”.
The times they’re a’changin, per dirla alla Bob Dylan.
E qualche domanda, anche questa classe politica leva anni Settanta, forse dovrebbe porsela.

Emiliano Liuzzi
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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CASO ALDOVRANDI: “IO, EX POLIZIOTTO, MI VERGOGNO PER QUEGLI APPLAUSI”

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

INTERVISTA A ROLANDO BALUGANI, FONDATORE DEL SAP, IL SINDACATO DI POLIZIA CHE HA APPLAUDITO GLI AGENTI CONDANNATI: “QUEI SINDACALISTI HANNO DIMOSTRATO ROZZEZZA E INSENSIBILITA'”

“Io mi vergogno per quello che è accaduto a Rimini”.
Rolando Balugani, 70 anni, è un ex agente di polizia oggi in pensione. Ed è anche uno dei fondatori del Sap, il sindacato degli agenti che durante un recente congresso in Romagna ha tributato un’ovazione agli agenti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi: “Ancora una volta i poliziotti hanno perso un’occasione per chiedere umilmente perdono per un’azione di cieca violenza, ingiustificata. Solidarietà  alla mamma di Federico, Patrizia Moretti”.
Una lunga lettera, quella scritta da Balugani, che al telefono ricorda: “Le lotte per avere un sindacato di polizia cominciarono negli anni Settanta, quando eravamo umiliati, calpestati, buttati in mezzo alla strada e nelle piazze dalle sei del mattino a mezzanotte. Allora io ero a Milano e allora avevamo una diversa sensibilità  culturale, politica e sociale. Lo spirito originario del sindacato era ben altro”.
Tornando ad oggi, commentando quegli applausi, le critiche verso i vertici del sindacato di cui lui è stato dirigente per una vita (era segretario regionale dell’Emilia-Romagna durante la stagione della Uno Bianca) si fanno più dure: “Quei poliziotti-sindacalisti hanno dimostrato rozzezza, insensibilità  e mancanza di cristiana pietà  per quel povero giovane e la madre, Patrizia Moretti che, con indomito coraggio, ha difeso la memoria del figlio Federico. Ancora una volta i poliziotti hanno perso un’occasione per chiedere umilmente perdono per un’azione di cieca violenza, ingiustificata. Se i poliziotti non avranno l’umiltà  di fare delle serene autocritiche e di ammettere le proprie colpe (tutti possono sbagliare) non usciranno mai da questa spirale di violenza che, purtroppo, periodicamente riemerge.
Perchè “non vanno dimenticati”, continua Balugani, “i crimini della Uno bianca, le assurde violenze di Genova e tanti altri episodi minori, che spesso hanno determinato la morte di inermi cittadini. I congressisti del Sap non si sonno resi conto che le loro inspiegabili manifestazioni di solidarietà , oltre ai colleghi già  condannati per la morte di Aldrovandi, danneggiavano tutta la Polizia”.

Rosario Di Raimondo

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LENIN E’ VIVO E VOTA ANCORA: NEL CUORE ROSSO DELL’EMILIA, DOVE NEANCHE I GRILLINI VOGLIONO RIMUOVERE IL BUSTO DEL LEADER COMUNISTA

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

E’ ANCORA IL SIMBOLO DI CAVRIAGO DOVE PD, RIFONDAZIONE E M5S SI CONTENDONO LA CARICA DI SINDACO

Chi guiderà  la città  nei prossimi anni lo deciderà  solo il voto, a fine maggio.
Ma qui, in un certo senso, un sindaco c’è già . Non sulla carta, ma nel solco tra leggenda e storia, quella che vuole Lenin primo cittadino onorario grazie a una scheda elettorale che qualcuno, nel 1920, segnò simbolicamente con il nome del leader russo. Da allora molto è cambiato ma non a Cavriago, cuore della provincia reggiana, patria di Giuseppe Dossetti e Orietta Berti.
Terra intrisa di memoria, che anche ora non si vergogna a definirsi rossa e dove tutti hanno un aneddoto da regalare.
Le mucche rosse, i garofani e lo gnocco fritto al primo maggio.
È la nostalgia di una vita che scorre lenta e pacifica, all’ombra di una piazza dove gli anziani parlano ancora di comunisti e di compagni.
Oggi Cavriago, alle vigilia delle amministrative, è costretta però a fare i conti con una sinistra in bilico tra passato e futuro, divisa tra renziani e radicali. Mentre alla porta, anche da queste parti, bussa il Movimento 5 stelle.
La fotografia è questa: 9700 abitanti, uno sfondo di pascoli e fattorie, alle finestra una pioggia di bandiere tricolori, qua e là  la falce e il martello.
E poi il pezzo forte, che ha reso questo piccolo comune famoso in tutt’Italia: il busto di Vladimir Lenin, uno dei pochi rimasti al mondo, oggetto ogni anno di pellegrinaggi e commemorazioni.
Fu regalato dall’ambasciata italiana dell’Unione sovietica negli anni Settanta, e oggi nessuno sembra intenzionato a toglierlo.
Nemmeno il Movimento 5 Stelle, il partito che più di tutti rifiuta ideologie del passato e la logica destra contro sinistra. “Il busto è diventato ormai un simbolo di questo comune e sarebbe assurdo rimuoverlo” spiega Andrea Toni, l’aspirante sindaco scelto dai Cinque Stelle. Quarant’anni, nella vita progetta e certifica sistemi per l’isolamento degli edifici. “La cosa più difficile è fare capire alle persone che la sinistra di un tempo, quella delle lotte per i lavoratori non c’è più. Ora non è più questione di destra o sinistra ma di buon senso”.
Convincere a voltare le spalle al partito non sarà  un’impresa facile.
Eppure a maggio sarà  lui l’avversario temuto sia dal Pd, sia dalla lista civica Cavriago città  aperta.
Perchè se a Cavriago la partita si gioca tutta a sinistra, è chiaro anche che è il movimento di Grillo l’unico in grado di rosicchiare percentuali alle formazioni storiche.
Anche grazie al consenso dei più giovani e al traino delle elezioni europee. “Noi speriamo di arrivare al 18%, massimo al 20%. Sarebbe un successo. Anche se per noi inserirsi in un Paese con una tradizione di sinistra così solida non è facile”.
La sinistra, già . Qui una volta si chiamava Pci, e raccoglieva senza fatica oltre il 70% di voti.
Alle amministrative del 2014 si presenterà  spaccata in due, con il Pd, ultrafavorito, intenzionato a correre da solo.
Alle scorse elezioni prese il 45%, e oggi punta a un risultato poco distante da quello di cinque anni fa. Il candidato si chiama Paolo Burani, già  vicesindaco e assessore alla cultura nell’amministrazione uscente.
Renziano, anche se non ama definirsi così, Burani proviene dall’area cattolica, quella vicina a Romano Prodi. L’asso nella manica della sua campagna elettorale si chiama Multiplo, ed è il centro progettato e realizzato in questi ultimi anni, grazie alla sinergia tra pubblico e privato.
Un piccolo regno della cultura immerso nel verde, dove si può leggere, ascoltare musica, navigare in Internet, e persino portarsi a casa una stampa, una litografia o una foto artistica.
“È l’artoteca: funziona come una biblioteca ma con le opere d’arte. Ci siamo ispirati ai paesi del nord Europa e la nostra è tra le prime in Italia. Questo è il modello dei progetti che vogliamo portare avanti nei prossimi cinque anni”.
A sinistra del Pd c’è invece Cavriago città  aperta, lista civica che raccoglie personalità  diverse, dalla segretaria del circolo di Rifondazione comunista, Annalisa Magri, a un ex giocatore della Juventus, Gianluca Francesconi. In cima c’è Liusca Boni, ex delegata Fiom correrà  per la poltrona più importante.
Così come fece suo zio Francesco, primo sindaco dopo la Liberazione. Comunista, manco a dirlo. “Il Pd dimentica molte cose” va all’attacco la Boni. “Cavriago non è più quella di una volta. Basta pensare alla Mariella Burani, chiusa per bancarotta fraudolenta, non per mancanza di ordinativi.
La gestione dei Burani, cittadini cavriaghesi, ha lasciato per strada 200 lavoratori”. Possibilità  di un’intesa con il partito di Renzi? Quasi ridotte all’osso. “Il Pd di oggi non riesce a ritrovare quelli che una volta erano anche i loro valori. Ha abbandonato una strada per imboccarne un’altra in nome del rinnovamento e di riforme che per noi non sono tali”.

Giulia Zaccariello

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MACCHINA DA SOLDI PRIVATI: LA RICETTA RENZI PER LA GALLERIA DEGLI UFFIZI A FIRENZE

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

GLI STRANI INTRECCI: IL CONCESSIONARIO CIVITA FA CAPO A GIANNI LETTA E IL PORTAVOCE E’ UN UOMO DI VERDINI

“Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto”, ha dichiarato Matteo Renzi il 29 novembre 2012.
A giudicare da quel che si è visto giovedì sera a Servizio Pubblico, almeno quest’unico punto del programma dell’ex sindaco di Firenze si è avverato: nel celebre palazzo vasariano, un invalicabile muro di corpi traspiranti preclude ogni possibilità  di vedere le opere d’arte.
Il limite di sicurezza prevede la compresenza di 980 persone al massimo. Nelle scorse settimane, dipendenti e giornalisti ne hanno contate invece almeno fino a punte di 3.500.
Meglio non chiedersi cosa sarebbe successo nel caso di un’evacuazione d’emergenza.
No, è una novità : negli ultimi anni si sono susseguiti esposti e denunce, soprattutto da parte dei sindacati dei dipendenti, ma senza sortire alcun effetto: lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città , e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione.
Ci vogliono un Leonardo distrutto o un turista morto per far capire che gli Uffizi sono sul punto di esplodere?
La faccia della soprintendente Cristina Acidini, di fronte alle telecamere di Santoro, è la risposta: non sento, non vedo, non parlo.
D’altra parte, un processo della Corte dei conti chiede 600.000 euro di danno erariale alla signora, che nel 2009 ha fatto comprare allo Stato un crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e prezzato da lei stessa.
E se nessuno dei cinque ministri che si sono succeduti da allora ha pensato bene di destinarla ad altro incarico è anche perchè la Acidini garantisce il rapporto di ferro che lega il Polo Museale al concessionario, che è Opera Laboratori Fiorentini, di Civita Cultura (presidente Luigi Abete), a sua volta parte di Associazione Civita (presidente Gianni Letta).
Tanto che il portavoce del concedente (cioè il Polo Museale) è un ex giornalista del Giornale della Toscana di Denis Verdini, ora dipendente di Opera: un portavoce a cui la Acidini ha addirittura consentito di curare un’incredibile mostra di documenti storici a Palazzo Pitti.
Il legame tra Opera e Polo è ormai cementizio: la concessione risale nientemeno che al 1996, ed è andato avanti di proroga in proroga, alla faccia della libera concorrenza.
Ed è Opera a staccare i biglietti per gli Uffizi, e dunque a governarne gli accessi e a decidere la sorte delle opere, la condizioni della visita, lo stato reale della sicurezza.
In verità , la legge Ronchey prevede che si possa (ma non che si debba) cedere a un privato for profit come Opera la biglietteria di un museo come gli Uffizi.
E le immagini di Servizio Pubblico dimostrano che non è una buona idea dare le chiavi del nostro patrimonio culturale a chi non ha altra bussola che il proprio profitto.
Perchè il risultato è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili: incassando a percentuale, il concessionario ha interesse a farcire il museo come il tacchino del Ringraziamento, senza curarsi dell’usura delle opere, del drastico abbassamento della qualità  della visita, e del rischio sicurezza.
E non è solo un problema di biglietti.
Nello scorso dicembre, i lavoratori del Polo hanno contestato la decisione dell’Acidini di affidare le visite guidate del Corridoio Vasariano alla solita Opera.
Essi fecero notare che i dipendenti pubblici erano più che capaci di gestire da soli la cosa, il che avrebbe evitato le assurde tariffe del servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e 16 il… gratuito!
Ma nonostante tutto, si continua a perseverare sulla strada della “macchina da soldi”.
Nemmeno le immagini girate in galleria hanno indotto Philippe Daverio (ospite di Santoro) a cogliere il punto: il noto divulgatore ha pensato bene di ripetere che gli Uffizi dovrebbero fare i numeri del Louvre.
Qualcuno dovrebbe spiegargli che il Louvre è quasi 12 volte più grande degli Uffizi per dimensioni fisiche e ha un numero di opere d’arte che è circa 76 volte quello degli Uffizi. Considerando che i visitatori del Louvre sono solo 5 volte più di quelli degli Uffizi, dovremmo piuttosto meravigliarci che non ci sia stato ancora il morto.
Al contrario, nei 44 punti che strutturano la sua “rivoluzione” della Pubblica amministrazione, Renzi ha incluso l’idea di introdurre “una gestione manageriale nei poli museali”: il che vuol dire continuare a badare solo ai profitti (sperando almeno che siano pubblici), e non alla sostenibilità  culturale e alla sicurezza dei lavoratori e dei visitatori dei musei.
Chissà  se Renzi si è mai chiesto perchè da 20 anni gli Uffizi non appartengono più ai fiorentini, che ci mettono piede solo da bambini e poi si tengono alla larga da quella specie di pericoloso bagno turco sontuosamente decorato.

Tomaso Montanari

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MASSONERIA TOSCANA, RENZI E VERDINI

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

SOSPETTI E SMENTITE TRA LEEDEN E CARRAI… E STA PER USCIRE UN LIBRO “SULL’APPRENDISTA POLITICANTE” MATTEO RENZI

Le voci su Renzi e la massoneria toscana di Licio Gelli si rincorrono da mesi. Addirittura, il papà  del premier, l’imprenditore Tiziano Renzi, è stato costretto a smentire una sua presunta affiliazione a una loggia massonica.
Tutta colpa della frequentazione e delle affinità  con il corregionale berlusconiano Denis Verdini, il regista del patto del Nazareno nonchè altro politico sospettato di un essere un grembiulino di rango.
L’ultimo anello della presunta catena occulta del premier ha il nome di Michael Ledeen, una delle figure più inquietanti dell’intelligence americana, che ha lavorato con le amministrazioni di Reagan e Bush figlio.
Ledeen è stato grande amico di Gelli e le sue impronte digitali compaiono in tutti i misteri della Repubblica italiana, dalla P2 ai servizi deviati, dall’uccisione di Moro alla strage di Bologna.
Ad avvicinare Renzi a Ledeen è stato Marco Carrai, che è il custode finanziario delle trattative più riservate del premier.
Ovviamente a reggere tutti i sospetti è il rapporto di simpatia e di collaborazione tra Renzi e Berlusconi, già  iscritto alla loggia del Venerabile Gelli.
La prossima settimana, per Kaos Edizioni, uscirà  l’ultimo lavoro di Michele De Lucia, ex tesoriere di Radicali italiani, dedicato proprio a Renzi: Il Berluschino. Il fine e i mezzi di Matteo Renzi.
I riferimenti alla massoneria compaiono in tre distinti capitoli, di cui uno intitolato malignamente “L’apprendista politicante”.

FD’E

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IL RENZIANO CARBONE FINISCE IN TRIBUNALE PER USO SPREGIUDICATO DELLA CARTA DI CREDITO AZIENDALE

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

SECONDO LA SOCIETA’ PER CUI LAVORAVA E’ STATA UTILIZZATA PER PRANZI E VIAGGI NON AUTORIZZATI

Prossima tappa il tribunale civile di Roma.
Magari a bordo della stessa Smart che l’onorevole avvocato del Partito democratico Ernesto Carbone aveva messo a disposizione di Matteo Renzi quando, prima di ricevere l’incarico per la formazione del governo, il futuro premier scorrazzava tra un palazzo e l’altro del potere romano.
Brillante parlamentare in ascesa, voce ufficiale del renzismo, tra un’intervista televisiva e l’altra Carbone in questi giorni è alle prese con un fastidioso contrattempo.
Tutto a causa dei suoi trascorsi di manager che, tra il 2012 e il 2013, lo hanno visto come presidente e amministratore delegato alla testa del Sin, la società  controllata da Agea nata per sviluppare e gestire il Sistema informativo agricolo nazionale.
Il 27 marzo scorso, l’assemblea dei soci, su proposta dei nuovi amministratori, ha dato mandato al presidente del Cda, Francesco Martinelli, di esercitare l’azione di responsabilità  nei confronti di Carbone.
Motivo: l’uso disinvolto della carta di credito aziendale durante la sua permanenza al Sin.
Una decisione presa sulla base «delle irregolarità  riscontrate dal Collegio Sindacale per spese non riconducibili ai fini aziendali», si legge nel verbale d’assemblea.
Rilievi che già  il 14 febbraio erano stati oggetto di una lettera di contestazione a Carbone delle spese ritenute illegittime.
In totale, oltre 20mila euro, quasi la metà  relative a pranzi e cene, oltre a viaggi e trasferte, voli per Londra e Croazia, fatture per alberghi e hotel,   noleggio di auto con conducente e   acquisto di biglietti del treno.
Tutto regolare, secondo Carbone, che nella sua risposta alla lettera di contestazione, ha rivendicato la «piena legittimità » delle spese sostenute.
Risposta, però, pervenuta al Sin solo il 20 marzo, «due giorni dopo che la stessa Sin, essendo inutilmente decorso il termine per provvedere alla restituzione delle somme» contestate, gli aveva già  inviato «una seconda comunicazione (datata 18 marzo) nella quale veniva intimata l’immediata restituzione dell’importo contestato».
Con tanto di avviso che, in caso di inottemperanza, sarebbe stata interessata l’autorità  giudiziaria.
Giustificazioni, quelle di Carbone, che evidentemente non hanno convinto nè gli attuali amministratori nè, tantomeno, gli azionisti del Sin.
A favore dell’azione di responsabilità  si sono pronunciati Agea, Almaviva (che, oltre a quello economico, ha invocato anche   il «danno d’immagine» sofferto dalla società ), Auselda Aed Group, Sofiter, Cooprogetti e Agriconsulting.
Sei su sette, con l’eccezione di Ibm che, esprimendo «perplessità » non tanto sulle motivazioni dell’azione di responsabilità  quanto per il rischio di «aumentare l’eco mediatica che continua ad investire» il Sin, ha invece preferito astenersi.
In tribunale, Carbone non sarà  solo.
L’assemblea degli azionisti del Sin ha deciso di agire, per il recupero di ulteriori spese ritenute illegittime, anche nei confronti di altri due importanti dirigenti: l’altro ex presidente, Francesco Baldarelli e l’ex direttore generale Paolo Gulinelli.

(da “L’Espresso“)

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“IL TAV BRENNERO È INUTILE” LO DICE LO STUDIO SECRETATO

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

IL DEPUTATO FRACCARO RIVELA IL DOCUMENTO DELL’UNIVERSITà€ DI INNSBRUCK… DAL 2006 IL GOVERNO SI RIFIUTAVA DI RENDERLO PUBBLICO: DATI SCONCERTANTI

Il documento era secretato da otto anni, e solo pochi giorni fa il deputato altoatesino Manfred Schullian della Sà¼dtiroler Volkspartei aveva incassato l’ennesimo diniego dal ministero dei Trasporti all’ennesima richiesta di renderlo pubblico.
È stato un intraprendente deputato M5S di Trento, Riccardo Fraccaro, a scovare una copia della relazione, un migliaio di pagine, scritta nel 2006 da Peter Lercher della facoltà  di Medicina di Innsbruck.
Lo studio era stato commissionato dalla Bbt, la società  mista italo-austriaca che sta costruendo il nuovo tunnel del Brennero dell’alta velocità  ferroviaria, 56 chilometri da Innsbruck a Fortezza.
Si trattava di studiare l’impatto dell’opera per valutare i benefici per gli abitanti dello spostamento del traffico merci dall’autostrada A22 del Brennero e dalla ferrovia tradizionale alla nuova linea scavata sotto le montagne.
Sfogliando lo studio si capisce perchè sia stato così gelosamente nascosto in questi anni. Secondo gli esperti gli effetti positivi sull’ambiente sarebbero trascurabili, per la semplice ragione che lo spostamento di traffico dalla gomma alla rotaia semplicemente non è previsto.
Nel 2006, quando lo studio fu consegnato, la previsione era di avere il nuovo tunnel in esercizio per il 2015, ma oggi, pur in assenza di opposizioni tipo Val di Susa, l’opera non va avanti.
Due anni fa a fronte di una divergenza non da poco tra i due partner sul costo dell’opera — 8 miliardi secondo l’Italia, 24 secondo la Corte dei Conti austriaca — il governo di Vienna ha annunciato che, non avendo i soldi, rinviava l’inizio degli scavi per il tunnel al 2016.
Restano i calcoli su cui hanno lavorato i medici di Innsbruck, secondo i quali al 2015 il nuovo tunnel sarebbe stato in grado di assorbire solo la crescita di traffico su gomma prevista, lasciando sulla A22 un numero di Tir esattamente uguale al passato.
Secondo quelle previsioni, nel 2012 avrebbero viaggiato sulla A22 41 milioni di tonnellate di merci, riducibili a 32 con l’entrata in funzione del nuovo tunnel ferroviario. Invece nel 2012 le merci trasportate su gomma non hanno superato le 29 tonnellate, senza tunnel.
A dimostrazione dell’inutilità  della nuova costosissima ferrovia, il comitato NoTav del Brennero ha pubblicato un’analisi del documento rivelato da Fraccaro, dalla quale emergono dati sorprendenti.
Lo scienziato Lercher calcola che l’effetto più significativo della nuova opera sarebbe una minor rumorosità , soprattutto notturna, non dei Tir ma dei treni merci: sono loro , secondo i suoi studi, a rovinare nell’Alta Valle Isarco il sonno e la salute di adulti e bambini, diffondendo depressione, ansia e ipertensione.
Benefici insufficienti, dice peraltro lo studio: nessun miglioramento decisivo si avrebbe sul fronte dell’inquinamento dell’aria determinato dagli autotreni.
Si scopre che nel futuro radioso della nuova ferrovia ad alta velocità  le emissioni inquinanti dei Tir (ossidi di azoto, polveri sottili Pm10, anidride carbonica, monossido di carbonio e via elencando) si ridurrebbero per valori tra il 6 e il 12 per cento.
Soprattutto, avvertono gli studiosi, questo sarebbe l’effetto non dell’investimento di decine di miliardi per costruire una ferrovia che per funzionare deve essere fatta tutta nuova da Innsbruck a Verona, ma semplicemente il risultato della prevedibile evoluzione tecnologica dei camion.
La conclusione dello studio è agghiacciante.
I medici di Innsbruck non solo avvertono che “anche dopo la costruzione della galleria di base del Brennero rimarrà ` un impatto residuo elevato sulla salute dovuto al rumore, in particolare a livello di fastidio, disturbo del sonno e trattamento dell’ipertensione e della depressione”, ma notano che, mentre si pensa alla costruzione del nuovo tunnel, sarebbe “opportuno compiere ogni sforzo per ridurre complessivamente i flussi di traffico anche sulla strada (in particolare durante la notte), in quanto le misure in questo senso costituirebbero un’ulteriore prevenzione degli effetti sulla salute”.
Lo studio si conclude con l’appello per “l’immediata adozione di provvedimenti adeguati”.
Bastava riportare i pedaggi della A22 al livello degli altri attraversamenti alpini, visto che più della metà  del traffico pesante su quella autostrada è fatto da Tir che allungano lo strada perchè lì costa meno.
Poi la concessionaria prende i soldi dei pedaggi e finanzia la costruzione della nuova e inutile ferrovia.
Di fatto in questi otto anni non si è fatto niente di quello che chiedevano i medici di Innsbruck, e ci si è limitati alla soluzione più pratica: secretare il loro studio.

Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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INTERVISTA A RINO FORMICA: “IL PROGRAMMA DELLA P2 E’ GIA QUI”

Maggio 3rd, 2014 Riccardo Fucile

L’EX MINISTRO SOCIALISTA E’ STATO IL PRIMO A SCOPRIRE IL VIRUS DEL GELLISMO NELLE PSEUDORIFORME DI RENZI

Gelli è vecchio e malato, ma la continuità  piduista appare come una maledizione eterna. Adesso tocca alla sinistra. È la prima volta che accade.
Non soffermiamoci sull’evocazione nominalistica, non mi interessa e non è questo il punto, se Renzi sia massone oppure no. Piuttosto bisogna capire un fatto profondo.
Quale?
Che cos’era il Piano di rinascita democratica di Gelli?
Lei ha scritto che, dopo 35 anni, vede il suo compimento. L’abolizione del Senato, il monocameralismo, l’indebolimento dei sindacati. Troppe analogie inquietanti.
Dall’Unità  a oggi, in centocinquanta anni, il bisogno di avere più concentrazione di potere e meno controllo democratico è stato costante. Il piano di Rinascita rappresenta questa spinta e il punto di applicazione è lo snervamento della democrazia politica e sociale organizzata.
Cioè i partiti e sindacati.
In questo ventennio il processo di depauperazione della democrazia organizzata è arrivato al punto finale con Renzi.
Perchè proprio con lui?
La sua Opa sul Pd non è casuale. E parlo di Opa perchè Renzi non ha conquistato il partito dall’interno, ma dall’esterno, utilizzando quello strumento di ipocrisia democratica che sono le primarie. Adesso il secondo attacco è alla rappresentanza istituzionale. Mussolini, nel 1926, fece una leggina per mettere i podestà  nei comuni sotto i 5 mila abitanti, eliminando i consigli comunali. Poi, poco alla volta, li mise in tutti. La rappresentanza fu completamente abolita.
Mussolini e Gelli sono richiami infamanti per un premier di centrosinistra.
La distruzione di partiti e sindacati, cioè dei corpi intermedi, è stata fatta per via autoritaria dal fascismo e poi cercata con vari tentativi di golpe. Il piano di Gelli è invece per via democratica.
Così Renzi sembra davvero il boy scout del Venerabile Licio. Lei parla di catto-massonismo.
Vede, quando io cito la massoneria, per quanto riguarda la maggioranza in sonno tra Berlusconi e Renzi, mi riferisco al metodo. Un metodo che porta a decisioni prese in modo occulto, in ambienti massonici o paramassonici. E poi non dimentichiamo la grande suggestione offerta dalla potente rete della massoneria toscana.
I sospetti sul plurinquisito Verdini, lo sherpa toscano di B. per le riforme.
Piuttosto ricorderei quello che è successo nel 1996 con Lamberto Dini.
Altro presunto fratello.
Nel 1994 dopo Berlusconi ci fu Dini al governo. Strada facendo si organizzò per conto suo e alle Politiche del 1996 si presentò con una propria lista nel centrosinistra. C’era lo sbarramento del 4 per cento e in Toscana il Pds fece una trasfusione di sangue “rosso” per consentirgli di raggiungere il quorum. Così subito dopo le elezioni Dini fece un manifesto politico per riproporre le riforme del piano di Gelli. Questa spinta alla riduzione democratica ha una sola madre ma tanti padri, come si può notare.
E chi è la madre?
È una filosofia della rappresentanza che omaggia la forma, non la sostanza. Sulla decretazione d’urgenza sono previste riforme che non riuscirono nemmeno al fascismo. Per non parlare del Senato, che si vuole trasformare in un organo ridicolo e mefitico.
Perchè mefitico?
Sarà  composto dai consiglieri degli organi più infetti e più sputtanati dagli scandali.
Le Regioni.
Ecco, saranno anche loro a decidere come cambiare la Costituzione e chi eleggere al Quirinale.
La continuità  piduista è viva e lotta a sinistra, stavolta.
I programmi di Gelli e Renzi sono uguali e oggi non c’è alcuna forza maggioritaria, compresa quella di Grillo, che si pone il problema della democrazia organizzata. Voi del Fatto fate battaglie giuste e di verità , ma date una mano alla demolizione quando non distinguete le istituzioni da chi le occupa provvisoriamente. Fate attenzione.

Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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