Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
TRA UNA SETTIMANA IN LIBANO SI VOTA PER LA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA E NESSUN PRESUNTO AMICO DI DELL’UTRI HA VOLUTO ESPORSI A POLEMICHE INTERNE
«Prendetevelo, prendetevelo e portatevelo in Italia». Il dossier sull’ex senatore Marcello Dell’Utri,
non è un caso politico in Libano e «giovedì prossimo sarà estradato in Italia, in ottemperanza al trattato di estradizione che esiste tra Italia e Libano».
Lo dice senza tanti giri di parole il Ministro delle Giustizia libanese, Ashraf Rifi, appena uscito – ieri sera – dal lungo Consiglio dei ministri dove erano in corso trattative per la designazione del nuovo Presidente della Repubblica che dovrebbe essere eletto il 25 maggio.
«Ho trasmesso il rapporto del Procuratore generale al primo ministro», aggiunge. «Non c’è alcun motivo giudiziario per non estradare Dell’Utri: ho preparato un progetto di decreto in cui adotto la posizione del Procuratore e verrà firmato anche dal ministro delle Finanze e dal Presidente della Repubblica. Questa procedura si concluderà entro qualche giorno, probabilmente giovedì, quando il signor Dell’Utri potrà essere mandato in Italia. Non c’è nessun ostacolo, la procedura non verrà interrotta».
Accanto a lui il ministro del Lavoro Sejaan Azzi che, visibilmente infastidito quando gli chiediamo se il Consiglio ha affrontato il “caso Dell’Utri” risponde: «Non è un affare libanese, ma un problema italiano, prendetevelo e portatevelo in Italia, qui abbiamo problemi e guai più gravi da affrontare».
Nel governo Azzi rappresenta il partito di Gemayel (Kataeb), ex presidente del Libano: significa che l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri è stato “scaricato” anche da quelli che erano i suoi presunti amici politici libanesi.
L’estradizione è dunque ormai una questione di formalità burocratiche. Dopo i pareri positivi del Procuratore generale, Hammud e quello del ministro della Giustizia, si attendono solo le firme scontate del premier e del Presidente della Repubblica.
Dell’Utri, ancora agli “arresti ospedalieri” nella clinica Al Hayat di Beirut è un uomo rassegnato: ha saputo delle evoluzioni del suo caso attraverso la moglie Miranda Ratti e il suo avvocato libanese Azoury che inutilmente in questi giorni ha presentato una serie di ricorsi alla Procura generale per tentare di evitare l’inevitabile.
Ora il passaggio successivo sarà quello della “consegna” del condannato Dell’Utri da parte della polizia libanese, che lo scorterà fino all’aeroporto di Beirut.
Lì sarà prelevato da agenti dell’Interpol che lo imbarcheranno su un volo di linea della compagnia italiana diretto a Fiumicino, da dove sarà trasferito in carcere.
La decisione libanese di “liberarsi” dell’imbarazzante caso Dell’Utri ha provocato un intervento di Silvio Berlusconi, grande amico di Dell’Utri con cui fondò Forza Italia: «Il sì all’estradizione di Marcello dimostra che sbagliava chi diceva che l’ex senatore era andato in Libano per evitare il carcere – afferma Berlusconi intervistato da Rai News – . Essendo persona intelligente non avrebbe scelto un Paese che ha un trattato di estradizione con l’Italia».
L’avvocato palermitano Giuseppe Di Peri, storico difensore di Dell’Utri, raggiunto telefonicamente da Repubblica, reputa invece «strano» il fatto che il Libano abbia fatto così in fretta.
«Trovo davvero strano che il Governo libanese abbia preso una decisione tanto importante in così poco tempo. Appare difficile che i ministri abbiano potuto leggere ben quattro sentenze, migliaia e migliaia di pagine, in poco tempo».
Soddisfazione è stata invece espressa dai pm di Palermo: «Ero pessimista, ma per qualche alchimia politica che non conosco l’estradizione è stata possibile», ha detto il procuratore aggiunto Vittorio Teresi: «È una notizia bellissima e un segnale importante, perchè altrimenti avremmo fatto tutti una pessima figura».
Gli investigatori della Dia di Palermo hanno intanto potuto ricostruire nei dettagli la permanenza di Marcello Dell’Utri in Libano.
Partito il 24 marzo scorso dall’aeroporto di Parigi e diretto a Beirut con il figlio Marco (in attesa della sentenza della Corte di Cassazione che il 9 maggio scorso ha poi confermato la sua condanna definitiva a 7 anni), l’ex senatore avrebbe sempre alloggiato all’Hotel Phoenicia dov’è poi stato intercettato dalla Dia e dall’Interpol italiana il 3 aprile.
Stabile e Viviano
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
“VI ASPETTAVO, HO LETTO GLI ATTI E PENSO DI POTER CHIARIRE TUTTO”… ATTI SEGRETATI, SCAJOLA HA RISPOSTO A TUTTE LE CONTESTAZIONI
È la sua versione. Ma stavolta ha risposto eccome, Claudio Scajola. Senza sottrarsi ad alcuna delle contestazioni poste dai pubblici ministeri: nè sui passaggi societari e gli amici pericolosi, come l’ex deputato Pdl latitante per una condanna definitiva di mafia, Amedeo Matacena; nè sui rapporti intrattenuti con eccellenti alleati internazionali come l’ex presidente libanese Gemayel e il mediatore Vincenzo Speziali, l’uomo che “salvava” gli impresentabili; nè sugli acerrimi avversari di Forza Italia che gli avrebbero stroncato la candidatura alle europee, fino a spingere Scajola a sfogare la propria ira al telefono con presunti ricatti, e la minaccia di «far succedere un casino» ai vertici del partito.
Sette ore interrogatorio, nel carcere di Regina Coeli, per il due volte ministro berlusconiano travolto dall’inchiesta del procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, con il sostituto Giuseppe Lombardo e il pm della Dna Francesco Curcio.
Nessuna nuova contestazione, precisano i suoi legali.
Di certo il detenuto Scajola – accusato di aver favorito la latitanza di Matacena (prima a Dubai, poi organizzandogli con provviste di denaro un trasferimento a Beirut) e indagato anche per concorso esterno in associazione mafiosa – respinge qualunque legame con i colletti bianchi delle cosche e sembra rileggere tutto in chiave politica: di rapporti, di informazioni, di contatti internazionali che appartengono alla consuetudine, in estrema sintesi, «di chi è stato nelle istituzioni e occupa un ruolo nella vita pubblica, da anni»
Si difende e ribatte, l’ex ministro dell’Interno che sembrava pronto a resurrezione politica, dopo la clamorosa assoluzione dall’accusa di aver acquistato parte della casa al Colosseo «a sua insaputa».
Poi il blitz che punta al patto tra esponenti politico- istituzionali e le vaste articolazioni economiche e finanziarie della ‘ndrangheta reggina, l’organizzazione con filiali in tutto il mondo, quella che già negli anni Settanta faceva società a Milano e shopping in via Montenapoleone.
Tra gli inquirenti e l’ex ministro si consuma così il primo duello di quella che si annuncia come una lunga e complessa partita giudiziaria. «Vi aspettavo. Ora ho letto gli atti e credo di poter chiarire ogni aspetto», avrebbe esordito Scajola, assistito dagli avvocati Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito. Che sottolineano il «clima sereno» in cui si è svolto il faccia a faccia e rispettano il silenzio imposto dalla magistratura.
Atti secretati, dunque. E comunque, a parte il sintetico verbale, ci vorranno alcuni giorni perchè accusa e difesa vedano trascritta su foglio la lunghissima registrazione dell’interrogatorio.
«C’è molto da lavorare. Punto », confermano i pm all’uscita dal carcere. Più o meno alla stessa ora, a margine di un incontro con gli allievi di una scuola di Macerata Campania, il procuratore Cafiero de Raho mette il dito nella piaga delle collusioni – senza ovviamente riferirsi ad alcuna delle numerose indagini da lui coordinate, prima a Napoli, ora a Reggio.
«Il contrasto alla corruzione va fatto non solo con l’introduzione di nuove norme, ma mediante controlli che sono già possibili e devono essere rigorosi all’interno delle amministrazioni, nelle banche dati e sui cartelli di queste società colluse che puntualmente si presentano alle gare d’appalto ».
Parole durissime sull’inquinamento del Palazzo.
«C’è un problema di etica della politica che ormai esige risposte che arrivino dall’alto – scandisce de Raho – Chi corrompe o è corrotto deve restare perennemente fuori dal sistema della politica, e fuori degli appalti, deve essere isolato. Mentre ora è il contrario: chi non partecipa alla corruzione, si sente isolato».
Bordata finale: «à‰ inimmaginabile che chi è stato condannato per un reato sia ancora sulla scena pubblica».
Conchita Sannino
(da “La Repubblica“)
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Maggio 17th, 2014 Riccardo Fucile
SE LE INCHIESTE SONO BIPARTISAN I GIORNALI BERLUSCONIANI CAMBIANO STRATEGIA
All’indomani degli arresti per lo scandalo dell’Expo e di Claudio Scajola, i giornalisti berlusconiani e i
berlusconiani doc sono riusciti a dare il meglio di sè.
“Manette grilline” titolava Libero di Belpietro, l’insolvente (perchè non paga i debiti e nemmeno se ne scusa, il gentiluomo).
E Sallusti di rincalzo: “Pareva strano che il partito dei giudici si astenesse dal partecipare a questa campagna elettorale”.
E Toti, questo fantasma inventato da Berlusconi: “Giustizia a orologeria”.
Insomma poichè le inchieste hanno colpito bipartisan, i giudici non sono più comunisti: sono diventati grillini. Una cosa talmente comica che non meriterebbe nemmeno un commento, ma uno di quegli irridenti billet di dieci righe che scriveva Indro Montanelli sul Giornale quando era ancora un giornale.
Alcuni berluscones sostengono che le inchieste sono state attivate ad arte per coprire le fratture all’interno della Procura milanese.
È stato facile per Ilda Boccassini replicare: “Le richieste risalgono a quattro mesi fa”.
Sarebbe più convincente sostenere che il grande risalto dato alle fratture nella Procura milanese serve per coprire l’enormità dello scandalo Expo.
Ma poi è così pretestuosa l’inchiesta che alcuni dei principali indagati, da Paris, direttore della pianificazione acquisti (ora ex) all’imprenditore Maltauro, stanno già confessando.
L’insolvente Belpietro irride Mani Pulite. “Eh sì, sembra proprio di essere ritornati ai bei tempi di Mani Pulite, quando le retate preventive a ridosso delle elezioni erano la regola”. E
h sì, peccato che a quelle ‘retate preventive’ Belpietro e il suo direttore, Vittorio Feltri, inneggiassero con gioia e summo cum gaudio trasformando delle inchieste giudiziarie in una caccia sadica (Carra sbattuto in prima pagina in manette, “il cinghialone”, eccetera).
Se c’è stato un giornale forcaiolo è L’Indipendente di Feltri e Belpietro. Io c’ero, a L’Indipendente, e quei due non possono prendermi in giro.
Divennero ultragarantisti quando passarono alla corte di Berlusconi, sempre per ‘lor-signori’ s’intende, per i delinquentelli da strada vale ciò che dice un’altra di quel giro Daniela Santanchè, detta familiarmente ‘la Santa’: “In galera subito e buttare via le chiavi”.
Quanto a Feltri, si occupa più modestamente di Scajola, si duole che questo bel giglio di campo sia stato messo in carcere. Che ragione c’era? “Il pericolo di fuga si presenta nel momento in cui scatta la sentenza definitiva”.
Ah sì, e Dell’Utri che se n’è ito in Libano con prudente anticipo? Pericolo di inquinamento delle prove? “Ma i Pm le hanno già attraverso le intercettazioni telefoniche”.
Feltri dimentica, anzi non sa, perchè in materia è ignorante come pochi, che gli elementi d’accusa dei Pm devono essere vagliati dai tribunali, altrimenti non ci sarebbe bisogno di una magistratura giudicante, basterebbe quella requirente, com’è negli Stati totalitari.
Il neogarantista Feltri è in contraddizione con se stesso e per tirar fuori Scajola dal gabbio lo dà già per condannato.
Basta. Con costoro è inutile discutere. Diceva un mio amico, grande pokerista: “Gioco contro chiunque tranne che contro la sfiga”. Si potrebbe tradurre in: discuto con chiunque tranne che con chi è in malafede. Comunque, visto che la magistratura ci costa un mucchio di soldi e non serve a nulla perchè ci sono esegeti molto più preparati, propongo di istituire un Tribunale Speciale composto da Feltri, Belpietro, Sallusti, Ferrara, Santanchè (costei con particolare delega per i reati da strada).
Benchè Feltri sia parecchio esoso e Belpietro insolvente, risparmieremmo un bel po’.
Massimo Fini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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