Destra di Popolo.net

IL CANDIDATO GOVERNATORE DELLA LEGA IN EMILIA HA NASCOSTO UNA CONSULENZA DI 17.000 EURO IN 4 MESI

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

QUANDO CORREVA DA SINDACO, ALAN FABBRI AVEVA OTTENUTO DAL GRUPPO REGIONALE LEGHISTA UN CO.CO.CO. DA 3400 EURO AL MESE, DIMENTICANDOSI DI CITARLO NEL CURRICULUM

Alan Fabbri, candidato presidente alle prossime regionali in Emilia Romagna, tra il 12 febbraio e il 30 giugno 2009 ottenne dal gruppo in Regione del suo partito, la Lega nord, un incarico professionale da 17 mila euro.
Un Co.co.co. da 120 euro al giorno che però non è nel curriculum ufficiale del sindaco di Bondeno e aspirante governatore, ma che risulta in una delibera della Regione che ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere.
Si tratta di un incarico che gli fu affidato esattamente nei mesi in cui il giovane leghista era impegnato nella campagna elettorale per diventare primo cittadino del suo paese natale (15mila abitanti).
Il 22 giugno di quell’anno infatti, dopo avere vinto al ballottaggio con il 56% dei consensi, divenne sindaco.
E nel curriculum, mentre compaiono le consulenze per la Regione del 2006 e del 2007, non c’è traccia del Co.co.co da 3400 euro al mese mentre era in corsa per diventare primo cittadino.
Queste le motivazioni ufficiali dell’incarico: “L’esigenza”, si legge nel documento del 4 febbraio 2006, “ravvisata dal Presidente del Gruppo assembleare Lega Nord Padania Emilia e Romagna di disporre di figure professionali a supporto delle attività  che fanno capo alla propria Segreteria particolare”.
Dopo il clamore dei 41 consiglieri indagati per i quasi 3 milioni di euro di rimborsi contestati dalla procura di Bologna, in gran parte dovuti a consulenze sospette affidate dai politici a collaboratori (spesso dello stesso partito), la stampa locale è venuta a cercare anche Fabbri.
Perchè? Il suo nome non compare mai nelle carte dell’inchiesta del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Bologna, che ha indagato solo per gli anni dal 2010 in poi.
Eppure anche il candidato leghista, prima di diventare sindaco a Bondeno, aveva avuto a lungo delle collaborazioni in consiglio regionale.
A riportarlo è il suo stesso curriculum, sempre sul sito del comune di Bondeno: “Dal 2005 al 2007, collaborazione a progetto in qualità  di consulente tecnico-amministrativo presso l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna, nello staff del Consigliere Regionale Questore Avvocato Roberto Corradi”.
Aggiungiamo noi, alla cifra di circa 12 mila euro l’anno. “È tutto alla luce del sole — ha spiegato Fabbri in un articolo comparso sulle pagine del Resto del Carlino in edicola del 12 novembre 2014 — pubblicato sul mio curriculum depositato in comune”.
Sì, ma sul suo curriculum manca qualche cosa.
Nel suo curriculum mancano infatti quei 17 mila euro, soldi pubblici della Assemblea legislativa, avuti dal gruppo del Carroccio in consiglio regionale in quei 4 mesi e mezzo.
La delibera dell’Ufficio di presidenza che stanzia la cifra per il giovane Alan, porta la data del 4 febbraio 2009 e la firma dell’allora presidente del consiglio regionale Monica Donini (ex Rifondazione comunista): una “nota del 27-01-09, del Presidente del Gruppo assembleare Lega Nord Padania Emilia e Romagna, Maurizio Parma” richiedeva infatti “il conferimento di un incarico professionale da rendersi in forma di collaborazione coordinata e continuativa al signor Fabbri Alan”.
Il motivo dell’incarico era “l’esigenza ravvisata dal Presidente del Gruppo assembleare Lega Nord Padania Emilia e Romagna di disporre di figure professionali a supporto delle attività  che fanno capo alla propria Segreteria particolare”.
Il Co.co.co. da circa 3.400 euro al mese di Fabbri si sarebbe dovuto svolgere mentre lo stesso era impegnato per la campagna elettorale per diventare sindaco di una cittadina di 15 mila abitanti.
“Ho lavorato per il consigliere Corradi con contratti di collaborazione nel 2007 e nel 2009”, è la prima spiegazione di Alan Fabbri a ilfattoquotidiano.it.
Ma il lavoro con Corradi risale al 2006 e 2007, e allora il candidato governatore ribatte: “Sì sì, sono quelli, adesso non ricordo. Mi ero laureato e ho cominciato a fare l’assessore. Si trattava comunque di circa 800 euro al mese”.
Non solo, c’è anche la collaborazione del 2009, non citata nel curriculum. Una collaborazione da 17 mila euro.
“Sì in più c’è quella. Mi ero licenziato dalla mia azienda per 4 o 5 mesi e ho lavorato ancora con l’ufficio di presidenza. Collaboravo per l’Ufficio di presidenza”.
Di cosa si occupava per giustificare un guadagno di oltre 3 mila euro al mese? “Non sono 3 mila euro e rotti al mese”, contesta Fabbri. “Mi occupavo a livello amministrativo dell’ufficio di presidenza e di quello che faceva l’avvocato Corradi”. Sul suo curriculum nel sito del Comune di Bondeno però non è riportata la consulenza da 17 mila euro del 2009: “Non lo so, verifico”.
Poi conclude: “Ho lavorato e pagato le tasse, tutto trasparente. Tra l’altro quella è stata una esperienza che mi è servita molto a capire il meccanismo della Regione. E poi tutto è visibile online sul sito della Regione”.
A riguardo del curriculum sul sito del Comune arriva anche una precisazione dell’ufficio stampa della Lega nord federale: “Quel curriculum, che è gestito dallo staff e non dal sindaco Fabbri direttamente, è aggiornato per le questioni politiche (fino al 2014, ndr) ma non è aggiornato per le sue vicende professionali. Per esempio sul Cv non c’è neanche scritto che lui, successivamente alla sua rielezione, ha anche raccolto le pere”.
A riguardo va ricordato che Fabbri viene eletto sindaco il 22 giugno e il suo incarico in Regione cessa ufficialmente il 30 giugno 2009.

David Marceddu
(da “il Fatto Quotidiano”)

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RENZI TAGLIA LA SICUREZZA; VIA UN PRESIDIO SU QUATTRO, SALTANO 253 STRUTTURE SU 974

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

I SINDACATI: “NOI NEMMENO CONSULTATI, UN INTERVENTO INDISCRIMINATO”… COLPITA ANCHE LA POLIZIA POSTALE E QUELLA FERROVIARIA

Alla direzione centrale per gli Affari generali della Polizia di Stato del Viminale lo hanno definito «Progetto di rimodulazione delle specialità  e delle unità  speciali».
Titolo in burocratese del piano di ristrutturazione che i sindacati hanno subito tradotto in italiano corrente: «Tagli selvaggi».
Prima eloquente anticipazione del parere formale che le associazioni di categoria dovranno esprimere nei prossimi giorni.
Fondata essenzialmente su un dato che, nelle 28 pagine del piano di interventi trasmesso alle organizzazioni sindacali solo qualche giorno fa, salta subito agli occhi: la sforbiciata, effetto della «rimodulazione», che cancellerà  253 degli attuali 974 presidi sul territorio nazionale, oltre il 25 per cento del totale.
Polizia stradale, polizia postale, polizia ferroviaria, squadre nautiche, polizia di frontiera sono le più colpite.
Una spallata ai già  precari standard di sicurezza che sta facendo scattare l’allarme tra gli operatori.
«Parliamoci chiaro», accusa Felice Romano, segretario generale del Sindacato italiano unitario lavoratori polizia (Siulp), «noi siamo i primi a sostenere la necessità  di una revisione nella distribuzione dei presidi di Polizia, ma qui siamo di fronte a una proposta di chiusure indiscriminate e senza alcuna logica»
Incognita sicurezza.
Insomma, una vera e propria mannaia, che si abbatte sulla Polizia di Stato dopo il duro braccio di ferro con il governo sul blocco degli stipendi andato in scena giusto un paio di mesi fa. «Riceverò gli agenti di polizia, ma non accetterò ricatti», aveva detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il 5 settembre, dopo la minaccia di sciopero generale da parte dei sindacati.
Che sia arrivata l’ora della vendetta? «Non confondiamo i piani, qui si tratta di una proposta che arriva dall’amministrazione e che non c’entra nulla con il governo», precisa il segretario generale Sindacato italiano lavoratori Polizia (Silp-Cgil), Daniele Tissone, «Piuttosto, sul fronte dell’esecutivo, temo le conseguenze dell’abolizione delle Province e dei relativi effetti sul riordino delle Prefetture e delle Questure, dal momento che siamo già  sotto organico di circa 22mila unità : sarà  solo la Polizia di Stato a pagare il prezzo della riorganizzazione o magari sarà  il caso si sedersi con calma a ragionare?»
Rimodulazione polizia
Allarme condiviso anche da Gianni Meuti, segretario generale di Sicurezza e diritti (Sed): «Una proposta segnata dalla totale mancanza di coordinamento tra i diversi corpi di polizia e ancor più grave tenuto conto che i suoi effetti andranno a sommarsi alla carenza di personale che, per effetto del turn over al 55 per cento (ogni 100 poliziotti pensionati se ne possono assumere solo 55), andrà  ulteriormente ad acuirsi nei prossimi anni. Il risparmio non si può fare a danno della sicurezza dei cittadini».
Ma cosa prevede nel dettaglio il piano preparato dalla direzione centrale del Viminale?
Agenti fuori strada.
Il progetto prevede di ridurre gli attuali 407 presidi di Polizia Stradale a 373, attraverso la soppressione di 2 compartimenti, 23 distaccamenti, una sottosezione e 3 reparti di intervento, oltre all’accorpamento di 4 distaccamenti e di una sottosezione.
«Un progetto scellerato», lo definisce Romano, «perchè in questo modo la Polizia taglia su se stessa senza sapere cosa succede negli altri corpi».
Il rischio, secondo il Siulp, lungi dal garantire un sistema più efficiente, è quello di renderlo «monco» dal punto di vista delle sinergie con le altre forze di polizia.
«Faccio un esempio: in Sardegna si prevede di sopprimere il distaccamento della stradale di Orosei, che copre attualmente una vasta area di decine di chilometri quadrati, mentre si lascia quello di Siniscola, 37 chilometri da Orosei, dove c’è anche una stazione dei Carabinieri», continua il segretario del Siulp.
Ancora: «A Roma, solo nella zona del Viminale, ci sono 4 commissariati e almeno altrettante stazioni dei Carabinieri, ma invece di intervenire su queste situazioni si lasciano del tutto scoperte intere aree del Paese». Morale: «E’ la prova», affermano al Siulp, «che manca del tutto quel coordinamento che sarebbe invece necessario per evitare sovrapposizioni nella distribuzione dei presidi».
Falle telematiche.
Ancora più eloquente l’ipotesi di intervento sulla Polizia Postale: i 101 presidi attuali si ridurrebbero a 27.
Lasciando in piedi i 20 compartimenti (uno in ogni regione) nelle sedi delle Procure distrettuali o delle Corti d’Appello, ed eliminando 73 delle 80 sezioni esistenti (ad eccezione di quelle di Brescia, Caltanissetta, Catanzaro, L’Aquila, Lecce, Messina e Salerno), oltre all’unica sezione oggi operativa presso il Garante delle Comunicazioni. «Un’ulteriore ipotesi di intervento priva di logica», prosegue Romano: «A parte il fatto che sui reati commessi a mezzo Internet, cioè in una realtà  virtuale, parlare di competenza territoriale è del tutto aleatorio, è già  facile prevedere quali saranno le conseguenze». Poniamo il caso che una vittima di stalking telematico sporga denuncia a Roma e si accerti che lo stalker ha agito da Faenza. «La Procura della Capitale delegherà  le forze dell’ordine di Faenza per gli atti di indagine in loco», spiega il numero uno del Siulp, «dove però mancheranno le professionalità  specifiche necessarie agli accertamenti finalizzati all’individuazione del responsabile».
Poi c’è un’altra questione. «Dei compiti di polizia informatica ci occupiamo noi e la Guardia di Finanza», fa notare Tissone del Silp: «Sulla sovrapposizione dei ruoli serve chiarezza anche perchè si rischia di disperdere un patrimonio di alta professionalità ».
Squadra nautica alla deriva.
Mannaia anche sulle unità  speciali: da 187 a 118 presidi. Per effetto, principalmente, della cancellazione totale delle squadre nautiche che passano da 50 a zero, della riduzione da 5 ad una delle squadre sommozzatori, da 49 a 44 dei nuclei artificieri e da 15 a 4 delle squadre a cavallo.
«Anche in questo caso si è seguita la strada opposta rispetto alla logica», accusa ancora Romano: «Si sostiene che non ci siano più i soldi per mantenere le imbarcazioni ed è pacifico che, in una situazione in cui le squadre nautiche della Polizia si sovrappongono a quelle dei Carabinieri, della Guardia di Finanzia, dei Vigili del Fuoco e delle Capitanerie di Porto, non possiamo permetterci di mantenere la situazione attuale».
Ma la soluzione suggerita dal Siulp va in un’altra direzione rispetto a quella prospettata dal Viminale: «Piuttosto che chiudere del tutto i presidi della Polizia di Stato, non sarebbe meglio che su una stessa imbarcazione ci fosse un poliziotto, un carabiniere e un militare della Finanza? Ma invece di puntare su un coordinamento interforze, anche in questo caso si preferisce abbandonare a se stesse intere aree del territorio nazionale».
Tagli alle frontiere.
Cinghia tirata anche per la Polizia Ferroviaria, che perderebbe 49 presidi, passando da 212 a 163.
Ridotti di oltre un terzo (da 67 a 40), invece, i presidi della Polizia di Frontiera. Per effetto, innanzitutto dell’azzeramento degli 11 uffici e delle 5 sottosezioni di Polizia di frontiera terrestre, trasformati, stando alla proposta, in altrettanti posti di Polizia alle dipendenze delle Questure.
«Due settori che sono in prima linea nella gestione della sicurezza», sottolinea Meuti: «Quanto alla Polfer, bene chiudere dove si può, ma a patto che il personale venga reimpiegato nello stesso comparto, nel caso della Polizia di Frontiera, invece, si prospetta uno spostamento delle competenze verso le Questure, con il rischio di disperdere la specificità  delle professionalità  impiegate in questo delicato ambito».

Antonio Pitoni
(da “il Fatto Quotidiano”)

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SE L’ASTENSIONISMO CONQUISTA PERSINO L’EMILIA-ROMAGNA

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

IL CASO DEI RIMBORSI PAZZI HA COINVOLTO TUTTI I GRUPPI POLITICI E LA CREDIBILITA’ DEGLI AMMINISTRATORI E’ ORMAI AL LUMICINO

La crisi di legittimità  della politica sta raggiungendo il suo acme.
E non in un luogo qualsiasi del paese, ma in Emilia-Romagna, quella parte d’Italia dove dal 1945 la sinistra ha conquistato credibilità  sul campo, con le opere invece che con la dottrina, ovvero per le capacità  dei suoi amministratori e politici di costruire e preservare il buon governo delle città .
Le istituzioni sane e le politiche sociali efficaci sono state il fiore all’occhiello della sinistra emiliana, nei fatti socialdemocratica e pragmatica.
Oggi, nemmeno quel lascito e quella memoria basteranno a convincere molti elettori e molte elettrici a votare, nonostante tutto.
Sono quarantuno i consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna indagati dalla magistratura per aver, si dice, effettuato spese ingiustificate con i soldi pubblici, travisandole come rimborsi per lo svolgimento del servizio politico, anche quando si trattava a tutti gli effetti di spese private o privatissime.
Certo, si tratta di accuse da provare, non di condanne. E i consiglieri indagati hanno tutto il diritto di contestare le accuse e di chiedere che si faccia subito luce.
Ma la politica è fatta prima di tutto di immagini, di percezioni costruite dall’opinione pubblica, di fiducia non cieca ma ragionata.
Un sentimento difficile da creare e consolidare, e allo stesso tempo molto facile da incrinare e demolire.
Anche per il “popolo delle feste dell’Unità ” (che è stato immortalato in un film-documentario appena uscito, proprio a ridosso di queste difficilissime elezioni regionali in Emilia-Romagna) sarà  difficile dimenticare tutto questo.
Nemmeno una lunga storia di appartenenza e passione servirà  a fermare la caduta di fiducia, che non attenderà  la fine delle indagini.
La sfiducia è diffusa e palpabile nell’opinione pubblica. Spiegabile anche con il fatto che nella sinistra italiana, locale e nazionale, non è si è mai affermata l’abitudine di votare turandosi il naso. Perchè nella sinistra non si è mai, per fortuna, coltivata l’abitudine di giustificare il basso profilo morale dei politici: un fatto che è e deve restare eccezionale, che non può essere consueto e soprattutto così esteso.
La storia dell’uso opinabile delle risorse pubbliche da parte dei consiglieri regionali dell’Emilia- Romagna non è recente.
Alcune avvisaglie emersero già  un anno fa quando vennero alla luce, era l’estate del 2013, le prime notizie su interviste a pagamento che alcuni esponenti locali coprirono con i soldi pubblici: soldi impiegati non per informare i cittadini, come avrebbe dovuto essere, ma per promuovere la propria immagine.
Da allora, le indagini sono andate avanti e hanno colpito i diretti interessati pochi giorni prima delle elezioni regionali.
Certo, non hanno coinvolto solo i politici del Pd, ma di tutti i partiti. Però questo argomento non vale come attenuante; è semmai un’aggravante.
Perchè una delle ragioni sulle quali il Pd ha consolidato la propria immagine, anche nel ventennio berlusconiano, è stata proprio la maggiore dirittura morale dei suoi politici, la loro serietà .
Oggi, questa immagine si è molto offuscata. E il fatto che il Pd sia di fatto senza rivali non è d’aiuto. È anzi un peso, un ostacolo, che dimostra ancora una volta come la competizione e il pluralismo politico siano essenziali per una buona democrazia elettorale.
Una classe politica che guadagna più dal non avere rivali credibili che dall’avere un proprio endogeno valore è un segno negativo che può favorire il senso di impunità , spingendo verso il basso il valore dell’intera classe politica.
E per molti elettori sarà  più che difficile far finta di nulla e votare come se tutto vada nel migliore dei modi.
Le insoddisfazioni per un percorso politico sempre meno lineare si sono manifestate già  nel corso delle ultime primarie nel Pd che hanno eletto Stefano Bonaccini come candidato alla presidenza della regione.
In quell’occasione, si è registrata una partecipazione irrisoria, di poche migliaia di iscritti o elettori.
Certo, il numero dei voti è alla fine quel che conta quando si tratta di decretare chi vince e chi perde. Ma il basso numero dei votanti rappresenta un sintomo di malessere che è difficile da ignorare. Un segno di declino di legittimità  morale che è gravissimo.
Queste recenti notizie danno credito alle previsioni su un’astensione in massa nella regione che un tempo vantava la più alta partecipazione al voto su scala nazionale.
Anche perchè non c’è un’alternativa politica capace di attrarre consensi. Su questa strada a senso unico, i politici si adagiano e ostentano sicurezza. Sanno che a loro non c’è alternativa. D’altra parte, il non voto, l’astensione sarà  (lo è nei sondaggi) il segno che agli elettori non resti davvero molta opportunità  di scelta.
Quello dell’Emilia- Romagna è certo un caso estremo di una crisi della rappresentanza politica e partitica che sembra irreversibile.

Nadia Urbinati

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IL NAZARENO AZZOPPATO: INTESE SU PREFERENZE E PREMIO, NON SU LISTA E SOGLIE

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

IL DOCUMENTO COMUNE DOPO L’INCONTRO TRA RENZI E BERLUSCONI SANCISCE UN ACCORDO PARZIALE

“L’Italia ha bisogno di un sistema istituzionale che garantisca governabilità , un vincitore certo la sera delle elezioni, il superamento del bicameralismo perfetto, e il rispetto tra forze politiche che si confrontino in modo civile, senza odio di parte”. Inizia così la nota congiunta Pd-Forza Italia diramata dopo l’incontro Renzi-Berlusconi.
“Queste – si legge – sono le ragioni per cui Partito democratico e Forza Italia hanno condiviso un percorso difficile, ma significativo, a partire dal 18 gennaio scorso con l’incontro del Nazareno. L’impianto di questo accordo è oggi più solido che mai, rafforzato dalla comune volontà  di alzare al 40% la soglia dell’Italicum, e dall’introduzione delle preferenze dopo il capolista bloccato nei 100 collegi. Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anzichè alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula al Senato dell’Italicum entro il mese di dicembre e della riforma costituzionale entro gennaio 2015”.
La nota conclude: “Questa legislatura che dovrà  proseguire fino alla scadenza naturale del 2018 costituisce una grande opportunità  per modernizzare l’Italia. Anche su fronti opposti, maggioranza e opposizioni potranno lavorare insieme nell’interesse del paese e nel rispetto condiviso di tutte le istituzioni”.

(da “Huffington Post”)

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PARTITINI IN SALVO, MA SENZA DIRITTO DI VETO: SOGLIA PREMIO AL 40%, QUELLA DI ACCESSO AL 3%

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

IL BALLOTTAGGIO DIVENTA PRESSOCHE’ CERTO… VINCE UN PARTITO E NON UNA COALIZIONE

Si alza la soglia per il premio di maggioranza (40 per cento), si abbassa quella per entrare in Parlamento (3 per cento).
Ma dietro il cambiamento di queste due cifre, l’accordo di maggioranza per la modifica dell’Italicum introduce due novità  fondamentali.
La prima è che il ballottaggio, il doppio turno, diventa la regola e non più l’eccezione, l’ipotesi eventuale.
La seconda è che lo scettro del comando, attraverso un robusto premio di maggioranza, viene consegnato a un partito anzichè a una coalizione, e i partiti minori perdono il potere di condizionare il vincitore
IL PREMI
Il patto del Nazareno prevedeva un premio di maggioranza che consentisse alla coalizione vincitrice di avere alla Camera 340 seggi su 630, a patto però che essa superasse la soglia del 37 per cento.
Una correzione introdotta all’ultimo momento da Renzi, e accettata da Berlusconi due giorni dopo l’incontro, introdusse il ballottaggio tra le prime due coalizioni, nel caso in cui nessuno superasse il 37 per cento, ma in questo caso con un premio ridotto: 327 seggi anzichè 340.
L’accordo di lunedì sera cambia tutto. L’asticella per aggiudicarsi il premio al primo turno viene alzata al 40 per cento, e non si parla più di coalizioni ma di partiti.
IL BALLOTTAGGI
E’ ipotizzabile che un partito, alle prossime politiche, superi da solo il 40 per cento? E’ possibile ma non è probabile, perchè non è affatto detto che Renzi riesca a ripetere l’exploit delle europee. Se il Pd – o un altro partito – si fermasse al 39,9 per cento, sarebbe inevitabile il ballottaggio.
Gli italiani sarebbero chiamati a decidere se affidare il governo a uno dei due partiti più votati, in un secondo turno che ricorda (negli effetti, non nella tecnica) il sistema francese.
Sarebbe una sfida a due. Renzi contro Berlusconi, oppure Renzi contro Grillo. E il vincitore avrebbe i numeri per governare da solo. In Parlamento i voti dei partiti alleati sarebbero aggiuntivi ma non più determinanti. E’ evidente che un simile meccanismo darebbe una formidabile spinta verso il bipartitismo
LO SBARRAMENTO
L’abbattimento delle soglie pretese da Berlusconi, 4,5 per cento per i partiti coalizzati e addirittura 8 per cento per i non coalizzati, era l’obiettivo principale degli alleati del Pd.
E l’hanno centrato: la soglia è stata ridotta al 3 per cento, cifra che lascia a molti – anche se non a tutti – la speranza di tornare in Parlamento. In cambio, i partitini hanno dovuto cedere il potere di interdizione, novità  non di poco conto.
PREFERENZE E CAPILISTA
Ostinatamente rifiutate da Berlusconi, che aveva imposto le liste bloccare, le preferenze tornano sulla scheda elettorale.
Ma con un trucco: prima viene eletto il capolista, poi chi ha preso più preferenze. In concreto, i partiti mediopiccoli manderebbero in Parlamento solo capilista (anche se utilizzerebbero la concorrenza tra i candidati per rastrellare il maggior numero di voti) e le preferenze deciderebbero solo una fetta più o meno grande degli eletti dei partiti maggiori, ovvero la quota di deputati oltre i primi 75 (i capilista).
A questo si aggiunga che i leader dei partitini hanno ottenuto la possibilità  di candidarsi in dieci circoscrizioni (prima erano otto) in modo da avere la certezza di essere eletti e la possibilità  di mettere in concorrenza, a colpi di preferenze, gli aspiranti subentranti.
CIRCOSCRIZIONI
Scendono dalle 120 dell’Italicum a 75. Significa liste non più di sei candidati ma di otto o nove. Con il superamento delle liste bloccate non era più necessario mantenerle “corte” per superare le obiezioni della Consulta. Le liste più lunghe potrebbero consentire al Pd di evitare le primarie (non previste in nessun Paese del mondo per i posti in lista) lasciando che i suoi elettori scelgano i nuovi parlamentari direttamente nei seggi ufficiali.
QUOTE ROSA
L’accordo di maggioranza segna un punto importante a favore della parità  di genere. Almeno il 40 per cento dei capilista dovranno essere donne, e nel caso fosse resa possibile una seconda preferenza (verificandone però la compatibilità  con l’esito del referendum del 1991 sulla preferenza unica) dovrà  essere “di genere”, ovvero a una donna se la prima preferenza è stata data a un uomo e viceversa. Un successo importante per le donne di tutti i partiti che alla Camera hanno combattuto (e perso) la battaglia per avere più chances di essere elette.

Sebastiano Messina
(da “La Repubblica“)

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VELTRONI AL COLLE, L’UOMO CHE PIACE A RENZI MA ANCHE A BERLUSCONI

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

SI È AUTOROTTAMATO, PERà’ ADESSO POTREBBE TOCCARE A LUI… GIOVANE QUANTO BASTA, TONI MORBIDI E PROFILO EUROPEO, IL PRIMO SEGRETARIO DEL PD GARANTE IDEALE DEL RENZUSCONI

Chi è il Candidato, con la maiuscola, su cui Berlusconi ha iniziato a ragionare domenica scorsa ad Arcore con i suoi fedelissimi? Il Candidato per il Quirinale, naturalmente.
La successione a Giorgio Napolitano è il Grande Gioco innescato dalle indiscrezioni di sabato scorso sulla “stanchezza” di Re Giorgio e dalla conseguente ipotesi delle sue dimissioni nel bimestre gennaio-febbraio del ’15.
E il “ragionamento” aperto dall’ex Cavaliere è la prova regina che il patto del Nazareno con Matteo Renzi reggerà  nonostante l’ammuina sull’Italicum su soglie di sbarramento e compromessi sulle quote di nominati.
Come vanno spiegando, sino allo sfinimento, le colombe forziste “la pietra angolare su cui poggia il Nazareno è l’elezione del capo dello Stato ed è impensabile che Berlusconi si tiri fuori”.
Aggiunge un parlamentare che conosce bene Silvio: “C’è un dato psicologico di cui bisogna tenere conto: tra Ciampi e Napolitano sono 15 anni che Berlusconi non può telefonare al Colle, è sempre stato costretto a fidarsi di vari ambasciatori, a partire da quello principale, Gianni Letta. Il patto del Nazareno serve anche stabilire un filo diretto tra lui e il Colle”.
Ecco perchè il l’ex Cavaliere non romperà  con lo Spregiudicato e punta il grosso delle sue fiches (a parte la scontata garanzia sulla “roba” e sulla tutela del conflitto d’interessi) su un nome davvero amico al posto di Napolitano.
E ragionando, ragionando, domenica scorsa ad Arcore c’è stata una prima scrematura dei nomi possibili, con uno che svetta su tutti gli altri.
Quello di Walter Veltroni, africano ad honorem, regista nonchè scrittore nella sua seconda vita da autorottamato.
“Di Veltroni mi posso fidare”, questa la frase berlusconiana che sottintende ai primi abboccamenti in merito con il clan renziano e che prevede Gianni Letta come segretario generale del Colle.
Il premier ha già  messo in chiaro che spetterà  al Pd fornire l’indicazione del nome e quello di Veltroni è collocato nella primissima fascia.
Ma soprattutto è l’unico autorevole in grado di unire le due sponde del patto.
Non Romano Prodi, detestato da B. ed escluso dalla stesura originaria del patto segreto. Non D’Alema, che è l’incubo di Renzi; non Casini, autocandidatosi, ma che sa di muffa democristiana; non l’ex craxiano Amato, che sarà  però il nome che Napolitano farà  ai due contraenti, come ultima moral suasion del suo secondo e breve mandato.
Berlusconi vuole una figura “morbida”, rotonda, senza spigoli come Napolitano.
E il profilo veltroniano è perfetto. Non solo.
Il regista che ha raccontato Berlinguer rappresenta il compromesso ideale tra le due “strade” avanzate sin qui nei vari colloqui riservati sulla successione a Napolitano.
Da un lato un presidente esperto e ancora garante verso l’Europa (Draghi, Monti, lo stesso Amato) ma che schiaccerebbe inevitabilmente i due soci del Nazareno.
Dall’altro una soluzione più giovane, magari rosa, tenuta in pugno dal renzusconismo.     Veltroni è a meta tra le due “strade” e può soddisfare le condizioni del patto.
Starà  poi a lui, icona politica del buonismo e del “maanchismo”, districarsi tra i primi due macigni del suo eventuale settennato: gli azzardi renziani sul voto anticipato, soprattutto quando l’Italicum sarà  approvato, e l’eterna richiesta di grazia motu proprio per Silvio. Sogghigna un deputato dem informatissimo sulla trattativa in corso: “Un presidente che si trovasse a fare subito tutte e due le cose, scioglimento delle Camere e grazia a B., si ritroverebbe i forconi in piazza del Quirinale”.
I rapporti tra il primo segretario del Pd e Berlusconi non sono mai stati agitati.
Fa parte ormai della storia di questo Paese, la celebre campagna elettorale delle politiche del 2008, quando Veltroni candidato premier del centrosinistra non citò mai l’avversario. Ovviamente Berlusconi stravinse e arrivò all’acme della sua popolarità  con il discorso bipartisan sulla Resistenza a Onna.
Dettaglio da non sottovalutare la trattativa segreta che B. e Veltroni fecero per introdurre la soglia del 4 per cento alle elezioni europee del 2009. Tutto si svolse a partire dal gennaio del 2009, come ha rivelato uno scoop del Male di Vauro e Vincino nel 2011, e l’incontro decisivo si tenne a casa di Goffredo Bettini, l’inventore del modello Roma.     Indovinate chi c’era a rappresentare Berlusconi? L’ineffabile Denis Verdini e finanche il faccendiere pregiudicato Luigi Bisignani.
Un tris di logge: P2, P3 e P4.
Poco dopo s’insediò anche Mauro Masi alla direzione generale della Rai. Fu il Riformista, qualche anno prima, a svelare i contenuti dell’accordone tra B. e Veltroni: Rai, legge elettorale, giustizia, federalismo e regolamenti parlamentari.
Unica controindicazione alla candidatura renzusconiana di Veltroni è il posto da dove è partito per la prima volta il suo nome: il Foglio di Giuliano Ferrara, monolocale giornalistico dell’inciucio permanente.
Fassino, su quelle colonne, nel 2006 lanciò D’Alema.
E venne fuori Napolitano.

Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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ECCO COME “CAMBIA VERSO” IL GOVERNO RENZI: SOCIETÀ PUBBLICHE, TUTTI GLI INCARICHI DEI RICICLATI

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

COTTARELLI VOLEVA RIDURRE DA 8.000 A 1.000 LE SOCIETA’ PARTECIPATE: SI ILLUDEVA, CI SONO ANCORA…   SONO UN PARACADUTE PER GLI ESODATI DELLA POLITICA

Dare l’esempio. Magari poteva servire, pensava il commissario alla spending review Carlo Cottarelli.
Alle prese con la grana delle società  partecipate dal pubblico, ne aveva scoperte 2.671 con più consiglieri che personale.
Una l’aveva il Tesoro. Rete autostrade mediterranee, creata dieci anni fa dal governo di Silvio Berlusconi: un dipendente fisso e dieci fra consiglieri e sindaci.
Cottarelli ne proponeva la liquidazione, illudendosi.
Ecco allora che invece di tirare giù la saracinesca, a fine settembre il governo ha nominato i nuovi vertici.
Non più cinque, perchè c’è pur sempre la spending review, ma soltanto tre.
Non tre qualsiasi. Presidente è Antonio Cancian, detto Toni. Reperto della vecchia Dc per cui venne eletto alla Camera nel 2002, poi deputato europeo del Pdl, quindi passato armi e bagagli nelle schiere di Angelino Alfano, aveva tentato a maggio la riconferma a Strasburgo. Senza successo.
Prontamente le larghe intese (versione renziana) gli hanno offerto un minuscolo risarcimento. Cancian guiderà  la società  con un solo dipendente in organico insieme al vicepresidente (!) Christian Emmola, presidente (renziano) dell’assemblea del Pd trapanese, e alla consigliera Valeria Vaccaro, dirigente del Tesoro e incidentalmente moglie dell’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Pinto, attuale consigliere Rai.
Per dare l’esempio, appunto.
E di storie finite così ce ne sono ancora.
Ricordate Arcus, società  che distribuisce soldi dei Beni culturali e che il governo Monti voleva seppellire?
Resuscitata dal Parlamento prima delle esequie, non si sarebbe salvata una seconda volta se avessero dato retta a Cottarelli. Non l’hanno fatto, e l’amministratore unico Ludovico Ortona, 72 anni, ex ambasciatore e già  capo ufficio stampa di Francesco Cossiga al Quirinale è sempre lì: riconfermato.
E la Sogesid, società  distributrice nel 2013 di 380 consulenze che sempre il governo Monti voleva sopprimere? Altro che soppressione.
Al suo vertice è arrivato il casiniano Marco Staderini, già  consigliere delle Ferrovie e della Rai.
E Studiare Sviluppo, società  di consulenza del Tesoro per cui il commissario ipotizzava analogo destino? Sopravvive alla grande con un consiglio di amministrazione rinnovato.
Ma qui almeno la scelta è caduta su tre dirigenti ministeriali. Magra consolazione, in un andazzo generale che sottolinea il contrasto profondo fra i proposit (verbali) di rinnovamento e le azioni concrete.
Qualche caso?
L’ex direttore generale della Rai nominato da Berlusconi, Mauro Masi, è stato confermato amministratore delegato della Consap, ultimo baluardo pubblico nelle assicurazioni: in aggiunta l’hanno fatto presidente.
Con lui è entrato in consiglio il segretario della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy, per di più amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste italiane.
Gruppo di cui nella scorsa primavera l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini nonchè ex deputato Udc Roberto Rao è diventato consigliere.
Tre mesi dopo alla presidenza della compagnia aerea delle stesse Poste, la Mistral Air, è sbarcato l’ex onorevole Pd Massimo Zunino.
Intanto al vertice di Poste Assicura arrivava Danilo Broggi, oggetto di apprezzamenti politici trasversali: è amministratore delegato dell’Atac, la claudicante azienda di trasporto del Comune di Roma.
Fra i consiglieri di Poste Vita è comparsa invece Bianca Maria Martinelli, dirigente delle Poste medesime e candidata senza fortuna alle politiche 2013 per Scelta civica. E se l’ex deputato Pd Pier Fausto Recchia ha conquistato la poltrona di amministratore delegato di Difesa servizi, quella di capo dell’Istituto sviluppo agroalimentare è toccata a Enrico Corali, nominato a suo tempo consigliere dell’Expo 2015 dal dalemiano Filippo Penati.
Mentre all’ex commissario della Consob di nomina berlusconiana Paolo Di Benedetto, incidentalmente marito dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino, è stato assegnato un posto nel cda del Poligrafico.
Per non parlare delle periferie, dove questo schema viene applicato senza soluzione di continuità .
Capita così di scorgere fra i nomi dei nuovi consiglieri di Finlombarda quello dell’esponente di Forza Italia Marco Flavio Cirillo: trombato alle politiche del 2013, nominato sottosegretario all’Ambiente nel governo Letta e lasciato a casa da quello di Renzi.
Ma anche di veder salire alla presidenza della Fincalabra, finanziaria di una Regione senza governatore e gestita da una reggente in attesa delle elezioni, Luca Mannarino: coordinatore regionale dei Club Forza Silvio.
Il seguito, temiamo, alla prossima puntata sui riciclati.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)

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ITALICUM, LA REGOLA CHE NON MUORE MAI: META’ DEL PARLAMENTO FORMATO DA NOMINATI

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

CON IL CAPOLISTA BLOCCATO, IN PARLAMENTO CONTINUERANNO A ESSERE ELETTI I “GRADITI” AI VERTICI DEI PARTITI

Renzi cambia il profilo della legge elettorale, ma lasciando bloccati i capilista e una fetta consistente di eletti sarà  scelta dai vertici di partito.
E ad andare all’attacco ora sono gli stessi deputati vicini al premier: “100 collegi sono troppo pochi, non c’è rapporto tra elettori e parlamentari”.
Esattamente come aveva detto la Consulta quando aveva affossato il Porcellum.
Matteo Renzi cambia i connotati all’Italicum. Ma lascia intatta la spina dorsale.
Mentre tutto cambia, infatti, l’unica regola che resta per sempre la legge dei nominati.
Il nuovo pacchetto del futuro sistema elettorale — confezionato al lunghissimo tavolo del vertice di maggioranza (erano in 18 a rappresentare, oltre al Pd, una spolverata di partitini) porterebbe nel nuovo Parlamento nel migliore dei casi un terzo di deputati scelti dalle segreterie di partito.
Nel peggiore dei casi anche oltre metà  dei 630 dell’assemblea, l’unica che gli elettori si potranno scegliere una volta che il Senato sarà  formato da consiglieri regionali: numeri alla mano sarebbero 120 per il Pd, quasi 100 per il M5s, un’ottantina di Forza Italia.
C’è la governabilità  grazie al premio di maggioranza, c’è la quota di rappresentanza grazie a una soglia di sbarramento appiattita al 3 per cento che secondo gli ultimi sondaggi permetterebbe il reingresso in Parlamento di Alfano e Casini, Vendola, Fratelli d’Italia.
Ci sono le preferenze, ma rischiano di essere solo un miraggio.
Capilista bloccati, per i candidati che non devono chiedere (voti) ma
Il segreto, infatti, è nel blocco dei capilista.
Vale a dire che — ammesso che il partito raggiunga il 3 per cento — il primo a essere scelto nella distribuzione dei seggi è appunto il primo dell’elenco dei candidati per ogni collegio.
E a decidere chi farà  il capolista saranno i vertici delle forze politiche.
Certo, ci sarà  chi proporrà  di passare per le primarie (come nel 2013 hanno fattoPd, Sel e Movimento Cinque Stelle).
Ma una volta sistemato in cima all’elenco, il primo della lista non avrà  bisogno di farsi il mazzo per cercare voti personali, come invece dovranno fare i suoi colleghi, dal secondo all’ultimo.
Quindi il calcolo indicativo sui deputati nominati va fatto sul numero dei collegi. Attualmente, secondo il testo approvato alla Camera, sono 120.
Così avremmo 120 capilista del Pd eletti senza preferenze, circa 95-100 per il M5s, 70-80 di Forza Italia. E così arriviamo a circa 300.
Poi vanno aggiunti i capilista dei partiti più piccoli che raccoglieranno voti qua e là . In particolare la Lega Nord, ovviamente, che nei sondaggi veleggia.
Ma anche il Nuovo Centrodestra, Sel, Fratelli d’Italia che in alcune zone d’Italia possono spuntarla. In questo modo si supera la metà  dei componenti della Camera eletti senza preferenze.
Il vertice notturno di maggioranza, tuttavia, ha proposto una riduzione dei collegi, abbassando il numero a una forbice tra 75 e 100.
In questo modo si arriverebbe — sono calcoli indicativi e non alla lira — a una quota che va dai 215 ai 260 parlamentari in quanto capilista e quindi “nominati” dai partiti.
I renziani: “100 collegi sono troppo pochi”. Come diceva la Consulta
Peraltro la Corte costituzionale, quando spogliò il Porcellum diRoberto Calderoli, pur non censurando del tutto la presenza di liste bloccate, parlò di una questione in particolare cioè “l’effettiva conoscibilità ” dei candidati.
Un aspetto che si riproporrebbe se i colleghi diminuissero di numero e quindi si allargasse la platea di elettori per ciascuno di essi.
Ed è qui che si concentrano le critiche di alcuni deputati renziani.
Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, uno che sulla riforma elettorale ha speso mesi di sciopero della fame, dice: “Con tutto il rispetto per lo sforzo di trovare un accordo in maggioranza che garantisca comunque l’approvazione della riforma elettorale, devo dire che la scelta di ridurre il numero dei collegi è una decisione sbagliata e grave che mi auguro possa essere rivista”.
Uninominalista convinto (sembra una parolaccia ma diciamo che il suo ideale sarebbe il vecchio Mattarellum), il deputato democratico aggiunge: “Già  l’introduzione delle preferenze in luogo dei collegi uninominali procurerà  danni dei quali ci pentiremo presto, se a questo ci aggiungiamo l’allargamento a dismisura della platea che dovrà  scegliere i propri rappresentanti otterremo lo ‘straordinario’ risultato di indebolire ancor di più quel rapporto diretto tra eletto ed elettore di cui ci siamo riempiti la bocca per tanto tempo. Che ci siano le preferenze o collegi plurinominali il requisito principale è che il rapporto tra eletto ed elettori sia il più diretto possibile se davvero vogliamo recuperare quel radicamento territoriale che da tempo è andato a farsi benedire”.
Per Giachetti su questo punto che definisce “qualificante” il Pd rischia di “calare le braghe”.
Ciao ciao coalizioni: la fine di un’epoca
Un altro effetto dell’Italicum 2.0 che finora è passato sotto silenzio è la probabile estinzione delle coalizioni.
Non esiste più infatti l’obbligo dei partiti di “sposarsi” prima delle elezioni: la soglia di sbarramento — quel 3% — è unica e non c’è più la distinzione tra partiti coalizzati e non coalizzati (che invece era uno dei principi fondanti del Porcellum, anche questo “censurato” dallaConsulta). E questa è una brutta notizia per Berlusconi.
Ai Cinque Stelle delle coalizioni non gliene può fregare di meno: le rifiutano a priori.
Il Pd non ne ha bisogno, almeno per ora, perchè il premio di maggioranza va al primo partito e non più alla coalizione vincente:
Renzi, dunque, non ha bisogno di prendere a braccetto tutti i nanetti di centrosinistra come fu costretto a fare Prodi con la sua Armata Brancaleone del 2006 (vittoriosa ma debolissima).
Ma, se si leggono i sondaggi, ora Forza Italia perde tutto il suo potere di calamitare in un’alleanza non solo la Lega, ma anche Alfano, Casini, La Russa e la Meloni.
Berlusconi, dunque, a oggi, potrebbe sperare solo in una sfida con i Cinque Stelle per tentare di arrivare al ballottaggio con il Pd.
Dopo che il boom del M5s ha messo fine al bipolarismo, l’Italicum potrebbe mettere fine all’epoca del berlusconismo.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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RENZI DA’ L’ULTIMATUM, MA CONFERMA IL PATTO

Novembre 12th, 2014 Riccardo Fucile

LA SCENEGGIATA PRECEDE L’INCONTRO TRA RENZI E BERLUSCONI DI OGGI ALLE 18

Renzi e Berlusconi si vedranno oggi alle 18.
Le agenzie battono la notizia alle 21 e 50. Subito dopo inizia la registrazione di Porta a Porta del premier.
Lo show può andare avanti, il patto del Nazareno è vivo e vegeto. Nonostante ultimatum e minacce.
La versione del premier è chiarissima: “Il problema nel caso specifico” della legge elettorale “non credo sia Berlusconi ma i suoi, i Brunetta, i Fitto”.
Hanno fatto pace? “Speriamo”. Poi, la velata minaccia: “Litigare fa sempre male, improvvisamente FI mostra libertà  interna: tutta insieme gli ha fatto male…”.
E quella più esplicita: “Le regole del gioco si fanno insieme non significa che se non sono d’accordo non si fanno. Io prima voglio farle, e poi insieme”.
Insomma, lui va avanti, confida che l’amico Silvio lo seguirà  e sa che FI non ha molte alternative.     “Il patto del Nazareno è importante, ma lo è ancora di più quello con i cittadini. Abbiamo chiesto a FI un impegno a trovare un accordo in tempi rapidi”.
La versione ufficiale a botta calda, dopo la fine dell’ufficio di presidenza degli azzurri, è quella che fornisce Maria Elena Boschi al Tg3.
La quale — con il tono sobrio e rassicurante che le è abituale — mette insieme una serie di condizioni obbligatorie. Punto numero uno: i paletti irrinunciabili dell’accordo sulla legge elettorale sono il “ballottaggio” e il “premio di maggioranza alla lista”.
Esattamente quello che garantisce il progetto renziano di un partito-piglia-tutto.
Ed esattamente quello su cui B. è pronto a cedere fin dal primo momento.
Punto secondo: la soglia di ingresso al 3% è sì l’ “accordo con la maggioranza” ma “il punto vero è il premio di maggioranza alla lista”.
E dunque, ancora una volta, se Matteo deve scegliere tra Berlusconi e la sua maggioranza, sceglie il primo.
Con buona pace dei piccoli. Limature in corso, si chiuderà  al 4%.
Punto tre: ci saranno alcune preferenze, come vuole la minoranza del Pd, “ma non può essere la minoranza a scrivere la legge elettorale”.
Si discute sulla grandezza dei collegi: dal vertice di maggioranza era uscita l’indicazione di allargarli.
Ma i renziani hanno già  cominciato a sostenere la tesi opposta: più sono piccoli, più c’è controllo sugli eletti.
Il che, non per niente, va bene anche a FI.
Sullo sfondo c’è la partita del Quirinale (nella quale Silvio e Matteo hanno bisogno l’uno dell’altro).
E sull’Italicum la quadra si troverà . A questo hanno mirato gli ultimatum andati avanti ieri per tutto il giorno.
Il primo di Luca Lotti: “Se le parole di Brunetta sul patto del Nazareno interpretano il pensiero di Berlusconi, allora non c’è neanche bisogno di incontrarsi”.
Aveva detto Brunetta: “Il patto del Nazareno prevedeva l’Italicum approvato alla Camera”. Poi, parla lo stesso premier in un tweet: “Il tavolo dei rinvii, dei tavoli tecnici, dei gruppi di lavoro è finito. Ora è tempo di decidere #lavoltabuona”. Ore 16 e 20.
È il suo modo di dare una mano all’amico Silvio, prima dell’ufficio di presidenza: mettergli pressione.
Che poi, la pressione è (anche) reale: il presidente del Consiglio sa che tra FI e il Pd un po’ di voti possono mancare.
Come sa che non può affidarsi su nulla solo ad Alfano e ai suoi. E allora, ecco che usa gli uni contro gli altri, e nel frattempo allarga a Cinque Stelle dissidenti, Sel e chiunque lo voglia.
Lunedì poi ha convocato per stasera alle 21 in streaming una direzione su tutto.
Jobs act, manovra, legge elettorale. Obiettivo, il solito: farsi blindare la linea.
E poi andare avanti come un rullo compressore.

Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”
)

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