Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
NELLA REPUBBLICA DEL CAZZEGGIO LA SUA CANDIDATURA DIVENTA CREDIBILE, VISTO CHI SAREBBERO I NOMI “ACCREDITATI”
Cosa spinge migliaia di italiani a volere Giancarlo Magalli al Quirinale? 
Nascono pagine di Facebook a sostegno della sua candidatura. E la consultazione lanciata tra i lettori di un importante giornale di opposizione per individuare un Presidente da scagliare tra i piedi della Casta non vede al primo posto i giuristi Rodotà e Zagrebelsky, ma il presentatore per famiglie.
Dai «Fatti Vostri» al «Fatto Quotidiano».
Di Magalli si ignorano le opinioni politiche. E la sua ironia bonaria, in un Paese che pratica l’estremismo anche nella comicità , gli ha impedito di diventare personaggio. La scalata al Colle nasce come scherzo goliardico, alimentato da un video satirico dove il candidato coniava il tormentone «turbofregna».
Ma oramai il meccanismo pare sfuggito di mano e Magalli è diventato un pretesto o addirittura un simbolo.
Tanto più provocatorio quanto meno lo è la sua immagine pubblica, con quel sorriso e quel colletto entrambi sempre perfettamente stirati.
Lui è l’italiano medio, dentro gli schemi ma fuori dai giochi.
E in una fase di disgusto generalizzato per l’establishment, la sua carenza di requisiti finisce per fare curriculum.
Si è pure scoperto che al liceo era in classe con Draghi e Montezemolo.
Venne bocciato (sembra che Draghi non passasse i compiti), ma recuperò l’anno in una scuola privata del Nazareno, nelle stanze in cui Renzi e Berlusconi hanno sottoscritto l’omonimo patto.
Come ogni cosa, in questa Repubblica fondata sul cazzeggio, col passare dei giorni l’ipotesi di una presidenza Magalli comincia ad apparire plausibile o comunque non scandalosa, specie quando si leggono certi altri nomi.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
UN ANNO E SEI MESI A GHISLANE RONDOT, CO-GESTORE DELLA MARSHALL E A RENZO GRAZIOSI, VETERINARIO, UN ANNO AL DIRETTORE ROBERTO BRAVI
La prima sezione penale del tribunale di Brescia ha condannato tre dei quattro imputati nel processo Green Hill, l’allevamento di cani beagle destinati alla sperimentazione scientifica, chiuso a Montichiari nell’estate 2012.
Condannati ad un anno e sei mesi Ghislane Rondot, co-gestore di Green Hill 2001 della Marshall Bioresources e della Marshall Farms Group, e Renzo Graziosi, veterinario. Un anno al direttore Roberto Bravi.
Gli imputati erano accusati di maltrattamento e uccisione di animale.
Il 12 gennaio il pm Ambrogio Cassiani aveva chiesto la condanna dei quattro imputati: tre anni per Rondot e due per Bernard Gotti (oggi assolto), co-gestori di Green Hill 2001 della Marshall Bioresources e della Marshall Farms Group.
La pubblica accusa poi aveva chiesto una condanna di due anni per Roberto Bravi e di tre anni e sei mesi per Renzo Graziosi, rispettivamente direttore e veterinario dell’allevamento
“All’interno di Green Hill c’era una strategia precisa — aveva detto il pm Cassiani nel corso della sua requisitoria — non c’era alcun interesse a curare i cani malati. Le cure avrebbero potuto alterare i parametri per la sperimentazione. I cani andavano quindi sacrificati“.
Secondo l’accusa sarebbero stati 6.023 i cani beagle morti all’interno di Green Hill dal 2008 al 2012 contro i 98 morti successivamente al sequestro dell’allevamento. Quando il 12 novembre scorso si era aperto il processo fuori dal tribunale si erano ritrovate alcune famiglie che hanno adottato i cani.
Il Tribunale non aveva ammesso come parti civili Legambiente nazionale e Legambiente Lombardia oltre a Oipa e associazione Vita da cani, mentre era state ammesse Lav, Leal, Lega nazionale difesa del cane ed Enpa.
“La sentenza di condanna di Green Hill è un riconoscimento a tutte e tutti coloro che in tanti anni hanno partecipato a manifestazioni a Montichiari e in tante altre parti d’Italia e del mondo, hanno digiunato, firmato petizioni, realizzato inchieste giornalistiche, presentato denunce, scavalcato barriere fisiche e ideologiche che difendevano l’indifendibile” dice Così Gianluca Felicetti, presidente di Lav.
Il tribunale ha disposto un risarcimento di trentamila euro per la Lav disponendo anche il divieto per i condannati di allevare cani per i prossimi due anni.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
CONTESTATE GITE NEI GIORNI FESTIVI E UN CENONE DI CAPODANNO AI TRE CONSIGLIERI REGIONALI DELA LIGURIA
Giustificate come rimborsi legati all’attività istituzionale ci sono viaggi in montagna, una mangiata di
ostriche al Cafè de Turin di Nizza e numerose gite fuori porta, nei weekend, a Pasqua, il 25 aprile e il Primo Maggio.
Lavoravano senza guardare il calendario i consiglieri della Lega Nord, come parrebbe suggerire anche un cenone di Capodanno, pagato con soldi dei contribuenti.
A far luce sui bilanci del Carroccio è la relazione che la Guardia di Finanza ha inviato alla Procura alcuni giorni fa.
Nel calderone dei conti leghisti c’è più di uno scontrino difficile da spiegare, per lo più pasti e soggiorni (spesso nei fine settimana o in giornate festive) in Italia e all’estero.
La relazione ora mette nei guai anche i rappresentanti del partito del Nord in Regione, Francesco Bruzzone, il nuovo capogruppo Maurizio Torterolo ed Edoardo Rixi, capogruppo nel periodo sotto esame, nonchè vicesegretario nazionale del movimento e scelto da Matteo Salvini come candidato governatore alle prossime elezioni liguri.
Le Fiamme Gialle li ha denunciati nell’ambito dell’inchiesta sulle spese pazze per peculato. In un caso viene ipotizzato anche il reato di falso, per la modifica di alcune ricevute.
La gestione contestata va dal 2010 al 2012.
L’elenco di voci sospette è lungo.
Si va dai pernottamenti in località montane come Courmayeur, in Valle D’Aosta, e Limone, in Piemonte, a un agriturismo per due a Cogne, passando per alberghi in città d’arte come Venezia e Pisa.
Ad attirare l’attenzione dei militari sono soprattutto le date delle ricevute, che spesso collocano i viaggi al sabato e domenica.
Nel budget regionale sono finiti anche 84 scontrini in uno stesso ristorante di Savona, cene a Mondovì, menù per bambini, pranzi a Pasqua, Epifania e Ferragosto, e una notte passata in un motel di Broni, in Provincia di Pavia.
Altro capitolo invece riguarda i regali di Natale, altra questione che aveva già pesato su altri partiti coinvolti nella stessa indagine: agende, libri, grappe e bottiglie di spumante sono state pagate dai cittadini.
Gli acquisti vanno dalle poche centinaia di euro fino ad oltre 10mila euro.
La linea fin qui adottata dalla Procura ha quasi sempre messo nel mirino i capigruppo titolari della rendicontazione nelle annualità in cui c’erano spese «anomale» (Rixi è stato uno di questi,enon va dimenticato che la Lega alterna con una certa regolarità l’incarico): l’ultimo, in ordine di tempo, era stato Antonino Miceli del Partito democratico, chiamato a rispondere di peculato poichè le uscite dal tesoretto dem alimentato con fondi pubblici non erano “tracciabili” singolarmente.
Ancora: nell’aprile di quest’anno già la Corte dei conti- branca contabile della magistratura – aveva stigmatizzato il comportamento della Lega Nord in materia di rimborsi.
Il Carroccio ha restituito buona parte dei denari dopo le prime contestazioni, ma potrebbe non essere sufficiente sul piano penale
Fino a questo momento sono 17 (di cui 14 fra consiglieri, o ex, regionali) le persone indagate nell’affaire spese pazze.
(da “il Secolo XIX“)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
MENO RISARCIMENTI E NORME CHE FAVORISCONO E COMPAGNIE
Il 20 febbraio arriveranno in Consiglio dei ministri un bel po’ di leggi e decreti.
Lo ha promesso martedì Matteo Renzi citando — tra gli altri — il ddl Concorrenza scritto da Federica Guidi. E qui c’è un problema.
A giudicare dalla bozza in possesso del Fatto Quotidiano, infatti, al ministero dello Sviluppo hanno svuotato i cassetti di vecchie norme già respinte dal Parlamento: ci si riferisce, in particolare, a quelle in materia di Rc Auto, che al solito sembrano uscite dalla penna di un funzionario dell’Ania, la Confindustria delle assicurazioni.
Diminuire i risarcimenti: l’ossessione di un decennio
Anche nel disegno di legge di Renzi c’è una norma che Ania tenta di far approvare almeno dall’ultimo governo Berlusconi: un taglio drastico sui risarcimenti per i macrodanni (cosette permanenti come la perdita di un arto o la morte).
Un breve riassunto: il Codice delle assicurazioni entrato in vigore nel 2006 delegava il governo a stilare tabelle nazionali con i valori del risarcimento entro 24 mesi (la delega scadeva a gennaio 2008).
Quelle per i microdanni (da 1 a 9 punti) arrivarono quasi subito, le altre (da 10 a 100 punti) finirono disperse: a delega già morta ci provò nell’agosto 2011 l’ex Cavaliere e all’inizio del 2012 Mario Monti con un apposito Dpr su tabelle elaborate dai tecnici del ministero dello Sviluppo.
Il motivo di questo improvviso risveglio è semplice: proprio nel 2011 la Cassazione aveva stabilito che le tabelle nazionali già esistono e sono quelle — compilate in maniera scientificamente impeccabile — dal Tribunale di Milano.
Solo che alle assicurazioni non piacciono: con quelle si paga troppo e infatti quelle del ministero tagliano i risarcimenti fino al 50%.
Ora il ddl Guidi-Renzi riprova laddove fallirono i padri e, pur di fare un favore alle assicurazioni, in tre righe tenta di resuscitare una delega al governo scaduta da sei anni.
Il colpo di frusta: quando una parola è di troppo
In principio fu Monti, ma ora Renzi supera e corregge il maestro: nessuno dovrà mai risarcire un “colpo di frustra”.
È andata così. Quando inizia la crisi le assicurazioni vanno in sofferenza, poi tornano agli utili con una cura semplice: aumento dei prezzi e abbattimento dei risarcimenti.
A quest’ultima parte ci ha pensato il governo tecnico, che a inizio 2012 stabilì che i danni di lieve entità vanno risarciti solo se in presenza di un “accertamento clinico strumentale obiettivo”.
Che significa? I medici legali delle compagnie non riconoscono mai i piccoli danni tipo il “colpo di frusta” e all’assicurato resta l’unica scelta di fare esami assai costosi per un risarcimento che potrebbe persino non coprirli.
Risultato: quel capitolo è passato dal costare alle compagnie 2,7 miliardi l’anno a poco più di uno.
E che facevano, nel frattempo, i costi per gli utenti? Ovviamente aumentavano.
La legge di Monti, però, lasciava ancora qualche spazio all’autonoma scelta del medico e qui arriva il ddl di Renzi: nessuno spazio alla constatazione “visiva” del danno.
O fai gli esami clinici o niente soldi.
Gli avanzi di Letta: quando i renziani erano contro
Altre norme presenti nel ddl Concorrenza vengono dritte dritte da un decreto del governo di Enrico Letta: all’epoca i renziani in Parlamento (assai meno di oggi) provvidero a far stralciare quelle norme, oggi il loro capo si appresta a ripresentarle.
L’impianto propagandistico è lo stesso: vi faremo risparmiare il 25%.
Poi magari non sarà proprio così, intanto le assicurazioni si prendono i loro vantaggi. Le compagnie — dice il testo — devono applicare “sconti significativi” a chi ad esempio fa montare la scatola nera sulla sua auto (peccato che i costi di installazione e funzionamento siano a carico del cliente).
Altro cavallo di battaglia dell’Ania presente nel nuovo testo è il cosiddetto “risarcimento in forma specifica” (si fa riparare la macchina da un carrozziere scelto dall’assicurazione): questo — oltre a far diventare i 15 mila carrozzieri italiani dei terzisti delle compagnie — lascia all’assicurazione la scelta sulle modalità di riparazione. Tradotto: tra due soluzioni tecniche, il carrozziere convenzionato sceglierà sempre quella meno costosa per i suoi datori di lavoro.
E c’è pure lo sconto se si accetta il divieto di cessione del diritto al risarcimento: quando cioè il carrozziere ripara la macchina e poi è lui a vedersela con la compagnia (anche qui il problema è la qualità tecnica delle riparazioni e la valutazione del costo del lavoro dell’artigiano).
Un mercato inefficiente, che verrà lasciato com’è
Dalla liberalizzazione di metà anni Novanta al 2012 i sinistri sono diminuiti del 40%, mentre i costi per l’utente — dice uno studio Adusbef — aumentavano del 245% (da 391 a 1.350 euro).
Risultato: il 10% del parco auto circolante non ha l’assicurazione. Secondo la stessa Ania, l’indice dei sinistri è calato dal 15% di vent’anni fa al 6,3% del 2013.
Com ’è possibile allora che le polizze siano sempre salite?
Le truffe c’entra poco.
Spiega l’Antitrust: “Il settore della Rc Auto in Italia è un mercato con debole tensione competitiva”, in cui “le inefficienze vengono trasferite sui premi, con le imprese più efficienti che preferiscono realizzare margini più elevati anzichè competere”.
E infatti, laddove in Francia una quarantina di compagnie si contendono i clienti, in Italia i primi tre gruppi — Unipol/Fon-sai, Allianz e Generali — si dividono oltre i 2/3 del mercato.
Di questo, ovviamente, il ddl Concorrenza non si occupa.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
XI JINPING ROMPE IL SILENZIO SUL SUO STIPENDIO E LO RITOCCA DEL 62%… MA IL POPOLO LO APPLAUDE
Se un leader politico occidentale si auto-aumentasse lo stipendio del 62%, è comprensibile che per
contenere la folla inferocita dovrebbe ricorrere all’esercito.
Se lo fa il presidente della Cina, invece, fa quasi tenerezza e la gente applaude.
Xi Jinping e i sei membri permanenti del Politburo, dopo dodici anni, hanno aggiornato la paga alla realtà della seconda economia mondiale.
Il compenso è passato dall’equivalente di mille euro al mese a 1.580.
Il leader più influente del pianeta guadagnerà così 19.207 euro all’anno, assai meno di quanto percepiscono mensilmente presidenti e primi ministri del G20.
Dettagli sulla retribuzione dei dirigenti comunisti rappresentano un’eccezione.
I media cinesi questa volta ricordano che nel 2007 l’ex presidente Hu Jintao guadagnava 274 euro al mese, arrivati a mille solo a fine mandato.
Il reddito del “nuovo Mao” corrisponde oggi a circa il doppio di quello medio di un residente a Pechino, al quadruplo dello stipendio di un operaio che fa gli straordinari nel Guangdong.
Nulla però in confronto alle indennità d’oro che in Occidente vengono riconosciute per legge anche ad assessori e sindaci di Comuni che non contano i residenti di un solo quartiere della capitale cinese.
I media di Stato sottolineano che il presidente Usa, Barack Obama, percepisce un’indennità annua pari a 345mila euro, oltre venti volte più alta di quella del collega cinese se sommata ai fondi per viaggi e rappresentanza.
Il premier giapponese Shinzo Abe guadagna ancora di più, circa 30mila euro al mese, mentre il presidente russo Vladimir Putin è accreditato ufficiosamente di quasi 17mila euro mensili.
Record imbattibile, quello del primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, che due anni fa si è ridotto lo stipendio annuo a 1,8 milioni di dollari.
Il proletario “compagno Xi”, nonostante il maxi-aumento, non può certo permettersi il lusso e gli eccessi che stordiscono il nuovo simbolo del capitalismo asiatico.
Una cena, in un ristorante alla moda di Pechino e Shanghai, costa già più del reddito mensile presidenziale.
La propaganda di Stato rompe così il silenzio sul potere solo per annunciare che salari più alti compenseranno milioni di funzionari pubblici, tenuti in cambio a rendere trasparenti i beni propri e dei famigliari.
La battaglia per la trasparenza dei patrimoni accumulati dai dirigenti rossi, spesso miliardari, negli ultimi anni è costata il carcere a decine di attivisti e di avvocati.
I tesori nascosti all’estero dai parenti dell’ex premier Wen Jiabao, ma pure da quelli dello stesso Xi Jinping, sono stati al centro di inchieste, censurate, dei media stranieri
Pubblicando i redditi “low cost” dei nuovi leader, il potere cinese punta ora a confermare l’appartenenza popolare dei dirigenti, a garantire compensi con cui sia possibile vivere onestamente e a rilanciare la guerra dei riformisti contro la corruzione che ha contagiato i falchi della sinistra neo-maoista.
Un burocrate comunista fino a ieri guadagnava quanto un operaio, o un contadino, ossia l’indispensabile per la sopravvivenza.
Difficile da giustificare il boom dei consumi e del lusso in metropoli con un costo della vita ormai pari a quello di Usa e Ue.
L’aumento degli stipendi pubblici, che restano doppi rispetto a quelli del settore privato, per la prima volta permetterà inoltre allo Stato il prelievo dei contributi per la pensione, primo passo verso la costruzione di un welfare cinese.
A Pechino lo slogan è «paghe più alte, furti più bassi».
Tutto da dimostrare: ancorchè vero, miracolo impossibile da esportare.
Giampaolo Visetti
(da “La Repubbica”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
SUCCESSO SICURO? PER GLI ECONOMISTI BAGIONI E DE NARDIS L’EFFETTO SULLA VITA REALE POTREBBE NON ARRIVARE
Funzionerà ? Dopo l’annuncio di Mario Draghi sul maxi-piano di acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, questa è la domanda obbligata.
La risposta giusta, ovviamente, non c’è.
Per averla bisognerà attendere almeno l’estate, quando il “bazooka” del presidente della Bce avrà iniziato già da qualche mese a inondare di liquidità i Paesi dell’Eurozona e si vedranno — o meno — i primi effetti sull’economia reale: discesa dei tassi di interesse, deprezzamento dell’euro (e conseguente aumento delle esportazioni), risalita dell’inflazione, crescita dei consumi.
Ma economisti e analisti, pur apprezzando le dimensioni del programma presentato da Draghi, hanno diversi dubbi sul fatto che il “motore” dell’area della moneta unica sia pronto a ripartire in quarta e che quindi il “quantitative easing” (allentamento quantitativo) in salsa europea possa avere lo stesso successo di quello messo in campo dalla Federal Reserve statunitense tra il 2009 e il 2014.
Ad alimentare il pessimismo è innanzitutto il fatto che alcuni dei canali di trasmissione della politica monetaria alla vita reale delle persone, delle aziende e degli Stati potrebbero rivelarsi “ostruiti”.
“In Europa, e in Italia in particolare, il sistema economico è molto “bancocentrico“: le imprese si finanziano soprattutto ricorrendo al credito bancario, mentre fanno molto meno ricorso all’emissione di azioni e obbligazioni rispetto a quanto avvenga negli Stati Uniti”, spiega Angelo Baglioni, docente di Economia all’università Cattolica.
“Di conseguenza il calo dei tassi sui bond comporterà per le nostre aziende meno vantaggi”. L’allentamento quantitativo ha tra gli effetti sperati anche una maggiore facilità ad ottenere prestiti, ma questo dipende in gran parte dalla volontà degli istituti di credito.
In più, secondo Baglioni, anche la cinghia di trasmissione che passa attraverso un aumento dei consumi privati e degli investimenti potrebbe rivelarsi “arrugginita”.
Perchè le famiglie europee tendono storicamente a risparmiare più di quelle americane. Di conseguenza, anche se per effetto dell’aumento del valore delle case e delle attività finanziarie si ritroveranno più ricche non è detto che inizino a comportarsi da cicale contribuendo a rimettere in moto l’economia.
Molto dipenderà dal miglioramento o meno delle loro aspettative sul futuro.
E dall’andamento del mercato del lavoro.
Pesa, poi, il ritardo con cui la decisione è stata presa: il lungo braccio di ferro con la Germania e con gli altri Paesi del Nord Europa, riluttanti all’idea che Francoforte si sobbarcasse il rischio di subire perdite in caso di default degli Stati meno “virtuosi”, ha fatto perdere mesi preziosi durante i quali l’inflazione è scesa sottozero.
Così come le aspettative sull’andamento futuro dei prezzi, che spesso risultano addirittura più importanti del loro livello attuale.
E, alla fine, Draghi ha dovuto accettare il compromesso di lasciare sul groppone delle banche centrali nazionali l’80% di quei rischi.
“Una concessione ai falchi“, l’ha definita Donato Masciandaro, ordinario di Economia politica all’università Bocconi.
Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ritiene che il presidente della Bce avrebbe preferito optare per la centralizzazione dei rischi: “La stessa linea espressa più volte fa dal governatore di Bankitalia Vincenzo Visco, secondo il quale scaricare i rischi sui singoli Paesi equivale a dare il via a una nuova frammentazione finanziaria dell’Eurozona”.
Il pericolo, dice De Nardis a ilfattoquotidiano.it, è che questa concessione a Berlino possa limitare l’efficacia dell’operazione: “Può essere che gli spread si riducano meno di quanto sperato, perchè i mercati leggeranno questa decisione come un’incrinatura nella politica monetaria comune”.
Tuttavia, il punto interrogativo vero secondo De Nardis è un altro: “Questo piano era indispensabile, ma non è detto che ora sia sufficiente. La situazione dell’Eurozona si è molto deteriorata e siamo in quella che si definisce “trappola di liquidità ”: tassi bassi che però non bastano per stimolare investimenti e consumi. Per ripartire servono, oltre alla politica monetaria, altre misure di sostegno alla crescita. A partire da politiche fiscali più espansive, che però i Paesi che avrebbero potuto — vedi la Germania — non hanno voluto fino adesso mettere in atto. Mentre altri non hanno potuto a causa dei vincoli europei. Da questo punto di vista le recenti linee guida della Commissione sulla flessibilità sono un piccolo passo avanti, ma è ancora troppo poco”.
Ciliegina — avvelenata — sulla torta, la forte avversione al rischio dei risparmiatori europei.
Restii a investire i risparmi in azioni o altri strumenti finanziari redditizi ma rischiosi.
E molto più propensi a comprare titoli di Stato, anche ora che non rendono quasi nulla. Una caratteristica che non contribuisce certo a far ripartire il mercato.
Chiara Brusini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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