Destra di Popolo.net

L’ALLERGIA DI RENZI ALLE INCHIESTE, RAFFICA DI TWEET CONTRO IACONA

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

UN SERVIZIO SULLA SCUOLA: IL MINISTERO NON GRADISCE LE CRITICHE

C’è stato un tempo in cui arrivava la telefonata in diretta.
Erano i Silvio Berlusconi, i Mauro Masi che, incapaci di contenere l’ira sul divano di casa, si intromettevano, puntualizzavano, sbraitavano.
Ma nell’era di Matteo Renzi anche l’incursione nel talk show ha cambiato mezzo. E domenica sera si è messo in piedi il primo tweet-bombing ministeriale contro la videoinchiesta sulla scuola trasmessa da Presa Diretta di Riccardo Iacona.
Stilettate da 140 caratteri contro chi ha osato mettere in discussione i programmi del governo su istruzione e edilizia scolastica.
La prima mossa, sia chiaro, l’aveva fatta lui, Matteo: due lunedì fa, guardando Piazzapulita, ha inaugurato la stagione del rosicamento via Twitter: “Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri – scriveva – basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia”.
Sull’argomento, qualche giorno dopo, si erano esercitati perfino gli inglesi del Guardian, immaginando che quel tweet potesse essere l’inizio della fine del pollaio politico in tv.
Il conduttore, Corrado Formigli, aveva invece interpretato il messaggio con canoni decisamente più italiani: l’evoluzione (in peggio) della telefonata insofferente.
“Trovo inopportuno che il presidente del Consiglio intervenga su come debba essere fatta l’informazione in Italia – disse Formigli al fattoquotidiano . it   – Mi pare uno sconfinamento. Dovrebbe stare a governare. Non è un utente qualsiasi che passa da Twitter e lascia il suo commento, è l’uomo più potente d’Italia”.
Contro Presa Diretta, Renzi non ha twittato.
Ma che gli prudessero le mani lo si intuisce dalla raffica di retweet (citazione di frasi scritte da altri utenti) compulsata mentre andavano in onda i servizi di Iacona.
Ne ha scelti 8, tutti provenienti da staff, sottosegretari e consulenti del ministero dell’Istruzione. Che nel frattempo, sui loro profili, si esercitavano nella demolizione della puntata in corso.
C’è il capo di gabinetto del ministro Stefania Giannini, Alessandro Fusacchia: “La cosa più importante che dovrà  fare #labuonascuola è insegnare ai ragazzi l’onestà  intellettuale. E il rifiuto degli slogan semplici”.
C’è il suo collega Francesco Luccisano, capo della segreteria tecnica: “Peccato che #Presadiretta non abbia monitorato i 2000 eventi autorganizzati in giro per il Paese”. E ancora, il sottosegretario Davide Faraone, renziano doc: “Ma uno che ne parla bene di questa riforma sulla scuola lo avrete intervistato? ”.
E pure la deputata Simona Malpezzi: “Spieghiamo a @Presa_Diretta come si legge la stabilità ? I miliardi di investimento sono tre. Il miliardo vale solo x i mesi da settembre a dicembre”.
Infine la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi: “Governo @matteorenzi assume 148.000 docenti precari. La più grande assunzione della storia. Iacona, chiamali tagli”.
Il suo collega senatore Andrea Marcucci va giù dritto: “Neanche uno, neanche per sbaglio, parla bene o con cognizione della riforma scuola”.
Ma il tweet bombing, almeno su Riccardo Iacona, non ha ottenuto l’effetto sperato. “Interessante nuova frontiera della comunicazione”, lo liquida.
Piuttosto, rivendica il giornalista, sono i numeri che contano. E le opinioni di chi, tra i banchi, ci vive e ci lavora.
“Abbiamo dimostrato che le scuole, senza il contributo dei genitori, non potrebbero nemmeno aprire il portone. Non bisogna spaventarsi dei problemi — dice Iacona al governo – così come non si possono rimpiazzare le risorse con le parole”.

Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LO STATO DELLA NOSTRA SCUOLA E IL SERVIZIO DI PRESA DIRETTA

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

I GOVERNI PENSINO A RENDERE LE SCUOLE SICURE, NON BELLE…. LE ECCELLENZE SONO GLI INSEGNANTI MALPAGATI

Se nella nostra scuola troviamo delle eccellenze, è per la buona volontà  dei docenti, dei presidi che sono stati capaci di inventarsi un nuovo modello educativo.
Dove, cioè, al centro ci sono i ragazzi, che diventano protagonisti nell’apprendimento, nel costruirsi il materiale su cui studiare, nell’inventarsi nuove forme di scolastica (le aulee, i banchi..).
Non c’entrano niente i progetti dei governi che si sono succeduti: dalle tre I di Berlusconi alla #buonascuola di Renzi.
Presa diretta domenica sera ha mostrato queste realtà .
A Labriola, il progetto Dada ha trasformato la scuola superiore come un college, dove gli studenti seguono dei percorsi formativi, spostandosi di aula in aula.
Collegamenti wifi, una app realizzata dagli studenti per l’ottimizzazione nella gestione delle aule.
Questo progetto è nato grazie ai contributi delle famiglie e a trasformato la scuola come una struttura di tutti.
Il preside Fattorini ha spiegato come sia proprio il movimento che attiva il cervello.
A Brindisi all’istituto Majorana sono arrivati alla maturità  i primi studenti del percorso “Book in progress”: qui i libri sono scritti dai professori assieme agli studenti, come fossero dispense universitarie.
Un libro costa 5 euro alle famiglie e viene stampato internamente: l’idea ha preso piede e altri istituti hanno abbracciato il progetto e messo in rete il materiale.
Gli studenti apprendono così in modo attivo, producendo loro stessi il materiale.
Non ci sono banchi ma le lezioni qui si fanno su tablet. La passione che gli insegnanti ci hanno messo è stata contagiosa: le iscrizioni al Majorana sono aumentate da 650 a 1350 alunni in pochi anni.
La pioniera della scuola digitale è però un’insegnante (non più giovane) di Latino: Dianora Bardi, dell’Istituto Lussana di Bergamo.
Il focus qui è il protagonismo dei ragazzi, sono loro a decidere come e con chi lavorare, in una sorta di autodeterminazione.
Renzi ha voluto la professoressa Bardi nel progetto “La buona scuola”: ma l’insegnante spiega come non siano sempre necessari i soldi pubblici per fare buona didattica, basta ottimizzare le risorse a disposizione.
Qui i ragazzi usano i loro stessi tablet o computer.
E se le risorse non ci sono? E se le scuole non sono sicure? A norma? Se i soffitti cadono a pezzi?
Il sottosegretario all’istruzione Reggi ha stimato in 12 miliardi i soldi necessari per mettere in sicurezza le nostre scuole. Il governo ne ha messi sul piatto 1 solo, diviso in tre aree di interventi.
Le scuole belle, le scuole sicure e le scuole nuove.
La maggior parte dei soldi sono finiti nella prima parte, per piccoli interventi di abbellimento.
Il problema è che i soldi sono stati distribuiti non valutando caso per caso, ma in base alle dimensioni dell’istituto.
Alcuni contributi sono finiti a scuole che non ne avevano bisogno, mentre altri sono stati penalizzati.
A Roma, alla scuola Carducci, all’istituto Duca D’Aosta (dove i bambini si rifiutano di andare in bagno). Qui i lavori dentro le aule li fanno i genitori.
Perchè i soldi non bastano e servirebbe un’anagrafe delle scuole: le persone del sito cittadinanzaattiva.it chiedono che almeno i soldi per il filone “scuole belle”siano dirottati su quello di scuole sicure.
Servirebbero più soldi, non si fanno le nozze coi fichi secchi …
Prima che succeda la tragedia (sulle teste dei ragazzi in aula) che, fino ad oggi, è solo stata sfiorata.
A Milano, a Sesto s Giovanni o a Napoli all’Umberto I.
Ma forse per un certa politica è meglio aspettare la tragedia, per fare i soliti lavori in emergenza, per dare appalti agli amici.
Insomma, ad oggi, la scuola cambia verso anche senza aspettare le slide di Renzi: ma fino a quando le famiglie potranno supplire alle carenze dello Stato?
Settimana prossima Presa diretta si occuperà  di Expo: la grande opera che segnerà  il cambiamento dei nostri destini, questo ci dicono.
Lo slogan doveva essere: “nutrire il pianeta”. Ad oggi, hanno solo nutrito le tasche dei manager, delle aziende che si sono spartiti in deroga ai regolamenti gli appalti pubblici.
La Corte dei Conti ha stabilito una perdita per Expo spa di 7,5 ml di euro e ancora dobbiamo iniziare. 46 società  sono state esclude dalle gare, dal prefetto, per irregolarità . 1600 ettari di terreno sono stati coperti dal cemento, per delle opere inutili come la TEM o la Brebemi.
Inutili. Dove sono i poveri in Expo? Che spazio hanno in Expo i contadini italiani? E la difesa del made in Italy?

(da “unoenessuno.blogspot.it”)

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I DODICI MESI DEL GRANDUCATO TOSCANO

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

UN ANNO FA RENZI RICEVEVA L’INCARICO DI FORMARE IL GOVERNO: QUALCHE LUCE, MOLTE OMBRE, MOLTISSIME CHIACCHIERE

“Non mi interessa prendere il posto di nessuno, voglio fare le cose che interessano agli italiani. #enricostaisereno”.
Era il 17 gennaio 2014 quando Matteo Renzi, ospite di Daria Bignardi, rassicurava l’allora premier Enrico Letta inventandosi un apposito hashtag.
Neanche un mese dopo, il 13 febbraio, Renzi proponeva alla Direzione Pd — che approvava — di sfiduciare #enricostaisereno.
Il giorno dopo Letta si dimetteva e il 17 febbraio il sindaco di Firenze e segretario democratico riceveva l’incarico di formare il nuovo governo: il 22 giurava al Quirinale e 24 ore dopo riceveva la fiducia delle due Camere.
Sono, insomma, dodici mesi di Renzi (e degli innumerevoli fiorentini che ha nominato su ogni poltrona disponibile) alla guida del Paese: quello che presentiamo è il bilancio di un anno di Granducato toscano a partire dai temi economici, quelli più sensibili per una nazione in recessione da tre anni filati.
Il filo conduttore sarà  il discorso programmatico con cui Matteo Renzi si presentò al paese.
A rileggerlo oggi, peraltro, mostra già  tutto il suo stile di governo: frasi che vorrebbero mimare vertigini kennediane non elevandosi mai dal livello Baci perugina (“è il tempo del coraggio”; “la fiducia non la sta chiedendo un governo, ma l’Italia”); grandi petizioni di principio sul cambiamento i cui contenuti vengono sempre rinviati a un secondo momento (“immaginiamo un percorso in cui la differenza tra sogno e obiettivo è una data”); qualche annuncio spot di grande impatto sul pubblico (più asili nido; i dirigenti pubblici siano a termine; vi spediremo la dichiarazione dei redditi precompilata).
A guardare l’elenco delle realizzazioni concrete, invece, si nota altro.
Il “cambio radicale delle politiche economiche” non c’è stato, ma — al di là  delle chiacchiere — si è invece accentuata l’adesione al modello di sviluppo proposto dalla “austera” commissione Ue: tagli di spesa pubblica, politiche che riducano la capacità  contrattuale dei lavoratori (Jobs Act) e sgravi fiscali per le grandi imprese (quelle che vivono di esportazioni).
È il modello della “svalutazione competitiva” che è la linea ufficiale dell’Italia da Mario Monti in poi.
Non sorprende, dunque, che i risultati alla fine siano gli stessi: il Pil è continuato a calare, i disoccupati sono rimasti tali.
SEMESTRE EUROPEO
Mezza vittoria con la Mogherini, ma niente flessibilità  sui cont
Diceva: ”Non possiamo immaginare che il semestre europeo sia semplicemente l’occasione per fare le nomine per le nuove istituzioni. Abbiamo bisogno di raccontare che cosa significhi l’Europa nel mondo che cambia”.
Era il 24 febbraio 2014, discorso di Matteo Renzi per chiedere la fiducia al Senato.
Da allora il semestre europeo si è aperto e si è chiuso. La nomina, quella che conta, c’è stata: Federica Mogherini è l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, la terza carica più alta in Europa di nomina governativa dopo presidenza della Commissione e del Consiglio (su quest’ultima poltrona ci sarebbe potuto finire Enrico Letta, ma Renzi non voleva).
E per il resto? Renzi ha impostato il semestre sulla richiesta di “flessibilità ”, cioè di un’applicazione più blanda dei parametri del rigore contabile ai Paesi che si impegnano a fare riforme costose.
Alla chiusura dei sei mesi di presidenza di turno dell’Italia (una funzione ormai puramente formale), il premier non ha potuto vantare grandi risultati.
Si è intestato il piano di Jean Claude Juncker, 21 miliardi veri che diventano 315 con la leva finanziaria, che però veniva annunciato dal presidente della Commissione già  pochi giorni dopo l’inizio della presidenza Italia che, dunque, non può attribuirsene il merito (ammesso che produca qualche risultato concreto).
Nel concreto: la Commissione europea ha approvato nuove “linee guida” per interpretare le regole contabili, ma Renzi non ha potuto esultare molto.
Non recepiscono le richieste principali dell’Italia, cioè scorporare dal calcolo del deficit le spese produttive (investimenti) ma si limitano a chiedere un aggiustamento minore del deficit strutturale, quello depurato dagli effetti della recessione: invece che 0,5 per cento del Pil, solo 0,25.
Ma l’Italia è comunque inadempiente, visto che al momento la sua correzione si ferma a 0,1.
COME VA L’ITALIA
Pil, disoccupati, debito pubblico: i numeri del fallimento più grande
Era iniziata così: “Dal 2008 al 2013, mentre qualcuno si divertiva, il Pil di questo Paese ha perso 9 punti percentuali. La disoccupazione giovanile è passata dal 21,3 al 41,6%. La disoccupazione è passata dal 6,7 al 12,6%. Non sono i numeri di una crisi, sono i numeri di un tracollo…”.
Così Matteo Renzi in Senato il 23 febbraio 2014. In aprile, a segnare il cambiamento di verso arrivato a risollevare il Belpaese, il Documento di economia e finanza (Def) firmato dal premier e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan metteva nero su bianco che il Pil sarebbe cresciuto dello 0,8% nel 2014.
A fine anno, però, ci si è accorti che in realtà  la ricchezza prodotta in Italia è diminuita ancora: in attesa del dato definitivo si stima che il Prodotto sia sceso di altri 0,4 punti. Anche il 2015, che secondo l’esecutivo del Granducato era l’anno in cui tutto ripartiva, se va bene sarà  solo quello in cui si arresta la caduta: +0,6% secondo il Tesoro e Bruxelles, +0,5% secondo Banca d’Italia (e questo al lordo dei soldi che la Bce comincerà  a immettere nell’economia a partire da marzo).
Pure la disoccupazione non sembra aver tratto giovamento dalla cura Renzi: a fine dicembre, ha detto l’Istat dieci giorni fa, era al 12,9% e quella giovanile al 42 (e così dovrebbe rimanere a fine anno secondo le stime).
Dati che sono già  un miglioramento rispetto a quelli di novembre, va detto, ma comunque peggiori di quelli che il premier definiva “i numeri di un tracollo”.
Chissà  come li chiama oggi. E chissà  come li chiamerà  domani.
Domani , infatti, è il momento più complicato per Matteo Renzi. Il pareggio di bilancio e il taglio del debito pubblico previsti dagli accordi europei sono solo rinviati e nel bilancio dello Stato ci sono, nascoste ma già  attive, le famigerate “clausole di salvaguardia”: 12,8 miliardi di nuove tasse nel 2016, 19,2 miliardi l’anno dopo che diventano 21,2 miliardi dal 2018.
JOBS ACT E DINTORNI
Era partito dall’enews, alla fine ha abolito lo Statuto dei lavoratori
In principio nelle dichiarazioni programmatiche era questo: “Partiremo con il Piano per il lavoro, che, modificando uno strumento universale a sostegno di chi perde il posto di lavoro, interverrà  attraverso nuove regole normative, anche profondamente innovative. Se non a creare nuove , problema delle garanzie dei nuovi assunti neanche si pone”.
Molto generico.
Poi si aggiungeva: “Intervenire in modo strutturale nella capacità  di attrarre investimenti in questo Paese”. Ancora più generico.
Alla fine, è diventata l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, l’allungamento dei termini per i contratti a termine, una riverniciata al sussidio di disoccupazione.
Eppure, l’8 gennaio 2014, prima di entrare a Palazzo Chigi, quando ancora le sue ambizioni sembravano limitate alla segreteria del Pd, Renzi inviava una delle sue Enews (la 381) in cui scriveva, tra le altre cose, le “regole” del Jobs Act: “Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero”.
E otto mesi sono già  passati.
“Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile”. Ma il decreto ancora non c’è.
“Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Fatto, ma abolendo le tutele.
“Assegno universale per chi perde il posto di lavoro con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro”. Fatto, ma in termini ancora insufficienti e soprattutto senza risorse aggiuntive.
“Obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico”. Nulla all’orizzonte.
“Legge sulla rappresentatività  sindacale”, come sopra. Mai fidarsi delle Enews.
DISSESTO IDROGEOLOGICO
Già  operativo 1 miliardo, saranno 7 in sette anni
Magari non di corsa, come sosteneva Renzi, ma sul dissesto idrogeologico le cose si sono mosse: secondo Erasmo D’Angelis, l’uomo che guida l’apposita struttura di missione a palazzo Chigi, è già  “operativo” circa 1 miliardo di euro di fondi che servono a finanziare le prime 700 opere cantierabili, pari al 10% dei 7mila interventi necessari per mettere in sicurezza il territorio (19 miliardi il costo complessivo).
Si tratta di fondi già  stanziati dai governi precedenti, che però non erano mai stati spesi: finalmente si è cominciato a lavorare e la buona notizia può in parte scusare certi eccessi propagandistici del premier (tipo l’invito di palazzo Chigi ai responsabili dei cantieri di farsi un selfie con gli operai e inviarlo al governo).
Il piano dell’esecutivo comunque, inserito in uno dei collegati alla legge di Stabilità , prevede investimenti sul tema per 7 miliardi nei prossimi 7 anni a partire dalla fase preliminare: “Abbiamo ancora quasi 6.000-6.500 opere da progettare.
Per questo c’è un ‘Fondo progetti’ ad hoc: 200 milioni per sbloccare una situazione bloccata da anni”, ha spiegato D’Angelis.
Una piccola inversione di tendenza, che comunque non sana alcune spiacevoli “continuità ” del governo Renzi rispetto ai governi precedenti: tra il 2013 e il 2014 i governi hanno dovuto emanare 27 volte lo “stato d’emergenza” per eccezionali eventi atmosferici in quasi tutte le regioni italiane.
A dispetto della legge, però, dopo l’emergenza non sono mai arrivati i fondi per rimettere in sicurezza i territori e ripagare i danni.
ADDIO PROVINCE?
Enti aboliti in parte, le elezioni del tutto
Dal 1 gennaio scorso le province non esistono più, cioè quasi. Esistono ancora, ma i consiglieri e il presidente non sono più eletti dai cittadini, ma dai consiglieri comunali della zona.
Sono enti di secondo livello, così si dice. È l’innovazione più rilevante della cosiddetta “riforma Delrio”, dal nome dell’ex ministro di Letta, oggi sottosegretario a palazzo Chigi. Sulle competenze che queste nuove province non elettive dovranno avere — e relativo personale — si procede al buio e lo stesso discorso vale per le dieci città  metropolitane. Ancora peggio va con la questione risorse: azzerato già  da Monti il fondo di riequilibrio, ora Renzi impone alle province nuovi “tagli” per un miliardo quest’anno e tre a regime dal 2017.
In realtà  l’espressione è impropria, visto che le province hanno tributi propri per dieci miliardi e da quest’anno ridaranno allo Stato centrale un miliardo (che diventeranno appunto tre a regime).
Ovviamente quello di cui si occupavano le province — dalle strade alle scuole ai trasporti — andrà  ancora pagato, ma non si sa con quali soldi.
Poi c’è il nodo dei ventimila dipendenti (dando per scontato che i duemila precari delle province italiane siano già  disoccupati): il governo ha congelato la situazione per due anni e promette che, laddove l’ente provincia non avesse più molto da fare, il personale sarà  comunque ricollocato. In realtà  con l’introduzione della “mobilità ” anche per il pubblico impiego, il rischio di licenziamento non è così piccolo.
Infine c’è il tema dei debiti: accollarli alle città  metropolitane, per dire, significa che gli enti voluti da Delrio in qualche caso nascono tecnicamente già  falliti.
SPENDING REVIEW
I tagli sono sgradevoli, Cottarelli licenziato
Nel chiedere la fiducia al Parlamento, poco meno di un anno fa, Matteo Renzi prometteva un taglio del cuneo fiscale coperto “attraverso misure serie e irreversibili, legate alla revisione della spesa, che porterà  nel corso dei primi mesi del primo semestre del 2014 a vedere dei risultati immediati e concreti”.
Il risultato più concreto è stato il licenziamento di Carlo Cottarelli, il commissario alla revisione della spesa arrivato durante il governo Letta.
Mai preso in considerazione, privo anche di un ufficio a Palazzo Chigi, Cottarelli lascia a settembre, ma era ai margini da sempre.
Si dimette senza polemiche perchè Renzi lo designa rappresentante italiano nel consiglio del Fondo monetario internazionale, l’istituzione dove Cottarelli ha lavorato per anni. Nonostante gli appelli di alcuni collaboratori del commissario, come l’economista Riccardo Puglisi, il governo si è sempre rifiutato di divulgare i dossier preparati da Cottarelli sugli sprechi nella Pubblica amministrazione.
Dei 32 miliardi di possibili risparmi previsti dal commissario non si saprà  più nulla e neppure del suo progetto per rendere più efficace la Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione.
In compenso quando il premier deve trovare le coperture per la sua legge di Stabilità  ricorre al metodo opposto alla revisione della spesa, cioè i tagli lineari. Invece di un esame minuzioso delle pieghe del bilancio, stabilisce che gli enti locali devono trovare 6,2 miliardi di euro.
O riducono le spese, o aumentano le tasse, problemi loro, non di Palazzo Chigi.
LE IMPRESE RIDONO
Debiti P.A. (quasi) pagati e tanti sgravi per i grand
Sui debiti della P.A. la promessa di Renzi è stata all’ingrosso mantenuta: rispetto agli stanziamenti del governo Letta (56 miliardi complessivi), quelli effettivamente messi a disposizione al 30 ottobre sono 40,1 e quelli già  pagati 32,5 miliardi.
Le richieste totali dagli enti debitori, però, ad oggi sono arrivate a circa 41 miliardi di debiti certificati, segno — dice il Tesoro — che lo stock accumulatosi fino al 2012 si sta esaurendo.
A questi fondi vanno aggiunti i 10 miliardi messi a disposizione da Cassa depositi e prestiti per l’operazione di cessione dei crediti vantati dalle imprese.
Il settore più in ritardo, secondo stime informali, è quello sanitario, che è pure quello in cui ci sono più “fatture” contestate (è difficile, insomma, farsi certificare il credito).
Le imprese, comunque, specialmente quelle di grandi dimensioni, non possono lamentarsi del governo Renzi: al netto del Jobs Act, che pure è uguale alle proposte di Confindustria, gli imprenditori incassano il taglio dell’Irap e la detassazione delle assunzioni. Il taglio dell’Imposta regionale agisce sulla componente lavoro: all’ingrosso si tratta di uno sgravio di circa 5 miliardi che, per come è strutturato, premia soprattutto le imprese più grandi, quelle con molti dipendenti a tempo indeterminato.
Per la detassazione triennale delle nuove assunzioni nel 2015, infine, la legge di Stabilità  ha stanziato 5 miliardi in tutto, ma quasi 2 arrivano dall’abolizione di altre detrazioni: lo sgravio massimo è 8.060 euro a lavoratore e dunque la platea è di circa 620mila nuove assunzioni (non un milione come dice Renzi). I fondi, in questo modo, dovrebbero finire nei primi tre mesi dell’anno.
EVASORI VENITE
Diceva “repressione durissima”, poi s’è inventato la sanatoria per chi froda il Fisc
Il fisco non deve “essere il nemico”, deve assumere “i connotati di una sorta di consulenza al cittadino”.
Mica sempre però: “Salvo poi quando accade che qualcuno davvero commette reati o comunque è passibile di sanzioni amministrative, perchè allora la repressione dev’essere durissima”.
Renzi il 23 febbraio 2014 voleva la repressione durissima per chi commetteva reati fiscali e anche solo per chi non aveva semplicemente dichiarato il giusto all’Agenzia delle Entrate.
Il 24 dicembre, invece, ha firmato un decreto attuativo della delega fiscale con un articolo — il 19 bis — infilato d’imperio nonostante la contrarietà  del Tesoro che realizzava una sorta di sanatoria per i reati di evasione e persino di frode fiscale realizzati al di sotto della soglia del 3% del fatturato o del reddito imponibile.
È stato chiamato “Salva-Silvio” — nel senso che avrebbe cancellato a posteriori la condanna per frode di Berlusconi, ma piace assai alle banche e soprattutto — come ha scritto Il Fatto Quotidiano — ai vertici del colosso farmaceutico Menarini, la famiglia Aleotti, fiorentini con ottimi rapporti con Matteo Renzi, sotto processo per un colossale danno al Servizio sanitario nazionale e relativa frode fiscale.
Pure nella legge sul rientro dei capitali all’estero, benedetto dal governo, c’è una sorta di mezzo condono per chi ha accumulato fondi neri (anche in Italia, alla faccia del “rientro”).
E d’altra parte — al netto di come finirà  col falso in bilancio, che era stato riproposto nell’inutile formula berlusconiana per compiacere Confindustria — pure il nuovo, pubblicizzatissimo reato di auto-riciclaggio è pensato per rimanere sostanzialmente inapplicato. Insomma, la lotta all’evasione non sembra davvero una priorità  del governo.
NOMINE E NUOVI POTERI
Rottamati i boiardi, avanza il giglio magico di finanzieri e imprenditori amic
Lo aveva annunciato anche in una intervista al Fatto, prima di prendere il potere ed è stato di parola: rottamati tutti i boiardi delle partecipate pubbliche, via Paolo Scaroni dall’Eni, Fulvio Conti dall’Enel, l’eterno Massimo Sarmi dalle Poste.
Il rinnovamento è tutto nella continuità : i numeri due di Eni ed Enel, Claudio Descalzi e Francesco Starace vengono promossi, Mauro Moretti lascia le Ferrovie al suo braccio destro Michele Elia e passa a Finmeccanica, il potentissimo ex capo dei servizi segreti Gianni De Gennaro resta alla presidenza di Finmeccanica. Renzi considera le aziende controllate dallo Stato — che comanda ma nelle quotate ha circa il 30 per cento — come parte della politica industriale dell’esecutivo e arriva ad attaccare in Parlamento giornali e giornalisti che sollevano il caso dell’indagine per corruzione internazionale a carico di Descalzi.
Anche nei ministeri Renzi emargina i burocrati più potenti, come l’ex segretario generale di Palazzo Chigi Roberto Garofoli che passa al Tesoro.
Nei cda delle partecipate entrano amici e finanziatori del premier (Fabrizio Landi, Alberto Bianchi, ecc.) e a Palazzo Chigi nasce una specie di governo ombra.
Molto più fidato di quello ufficiale, con l’ex manager Andrea Guerra, economisti come Roberto Perotti e Marco Simoni o Carlotta de Franceschi, bocconiana che viene dal mondo delle banche d’affari.
Resta poco chiaro il ruolo di Marco Carrai, amico del premier senza cariche ufficiali ma che, secondo racconti sempre più frequenti in questi mesi, ha un notevole potere di influenza sulle aziende nell’orbita governativa.
BENEDETTI 80 EURO
Soldi ai dipendenti, ma non ai veri pover
“Darò 80 euro al mese ai redditi medio bassi”. Su questa promessa il premier s’è giocato tutto (e ci ha pure vinto le Europee) e alla fine l’ha mantenuta: il bonus Renzi è e sarà  nella busta paga di chi ha un reddito da lavoro tra otto e 24 mila euro l’anno (l’effetto, in realtà , si sente fino a 26 mila).
Era stato inizialmente finanziato per il solo 2014, ma con la legge di Stabilità  il governo ha trovato i 9 miliardi l’anno circa che servivano a renderlo strutturale.
Al momento, però, l’effetto sui consumi è stato assai contenuto per non dire nullo: la domanda delle famiglie, infatti, anche nel 2014 è risultata in calo, anche se meno rispetto agli anni precedenti (anche precipitando, d’altronde, prima o poi la caduta si interrompe, in genere contro il selciato).
La promessa è stata comunque mantenuta, anche se è rimasta lettera morta quella di estendere il bonus fiscale a pensionati e partite Iva con reddito fino a 24 mila euro e pure agli incapienti (chi guadagna meno di ottomila euro l’anno).
Alla fine ha vinto il Tesoro, che diceva che i soldi non c’erano: Renzi, però, s’è preso la sua soddisfazione dando 80 euro al mese a chi farà  un figlio nel 2015 (costa molto meno). I dipendenti dello Stato, invece, hanno avuto una pessima notizia: il governo dell’ex sindaco di Firenze — nonostante avesse promesso di non farlo — ha confermato per il quinto anno consecutivo il blocco degli stipendi del pubblico impiego.
Lo scippo per il solo 2015 vale due miliardi e mezzo in tutto: nel quinquennio, su uno stipendio mediano da circa 24 mila euro l’anno, significa una perdita secca di retribuzione da oltre 3 mila euro l’anno (nei 5 anni, invece, si superano gli 11 mila euro totali, cui vanno aggiunti gli effetti sulla pensione calcolata col retributivo).
Insomma per gli statali gli 80 euro sono stati un gioco a somma zero.
Anche il resto della platea, comunque, dovrebbe farsi due conti: i nuovi pesanti tagli di spesa comporteranno la riduzione di alcuni servizi (che andranno quindi acquistati sul mercato) e probabili aumenti della tassazione locale.

Canavò Feltri e Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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VERGOGNA EUROPEA: LA DENUNCIA DEL SINDACO DI LAMPEDUSA

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

“SIAMO TORNATI A PRIMA DI MARE NOSTRUM, I 366 MORTI DEL 3 OTTOBRE 2003 E LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO NON SONO SERVITI A NULLA”… LE RESPONSABILITA’ DEL GOVERNO ITALIANO

Ci avevano presentato come un successo il coinvolgimento degli altri paesi europei nella nuova operazione Triton, minimizzando il vincolo imposto alle navi militari: limitare il pattugliamento all’interno delle acque territoriali.
Sottovoce lasciavano intendere che non sarebbe cambiato nulla, anzi, che tale arretramento del raggio d’azione avrebbe disincentivato i trafficanti e i profughi loro ostaggi.
Con un bel risparmio di 9 milioni al mese, ovvero 108 milioni l’anno, considerati un onere eccessivo sul bilancio dello Stato.
Menzogne, sotterfugi.
La verità  si è imposta in queste notti invernali di mare a forza 7, quando la rinuncia a una presenza costante della Marina Militare in acque internazionali ha ritardato l’intervento delle motovedette della Guardia Costiera, peraltro encomiabili per l’impegno profuso tra le onde di otto metri che hanno prima infradiciato e poi congelato decine di poveracci, fino a ucciderli per ipotermia
Inequivocabili risuonano le parole di Pietro Bartolo, direttore sanitario di Lampedusa: «Non è questo il sistema giusto per salvare vite umane. Probabilmente con Mare Nostrum non avremmo avuto questi morti». Le motovedette non sono attrezzate a prestare soccorsi immediati, a differenza delle navi della Marina non hanno medici a bordo, faticano a coinvolgere i mercantili di passaggio.
Anche le nude cifre sono inequivocabili.
Smentita la pretesa di scoraggiare i viaggi dall’Africa mostrandoci meno accoglienti.
Gli sbarchi dacchè Frontex ha preso il posto di Mare Nostrum sono aumentati: furono 2171 nel gennaio 2014; sono stati 3528 nel gennaio di quest’anno.
I morti registrati fino al 9 febbraio dell’anno scorso furono 12; i morti già  contati alla stessa data del 2015 sono più di 50.
Considerateli il prezzo di una ritirata dalle acque internazionali e chiedetevi se possiamo accettare che l’annegamento, il soffocamento, il congelamento di persone ci riguardi meno quando avviene a 100 miglia anzichè a 12 miglia da Lampedusa.
Sarà  bene precisare, a questo punto, che la decisione Ue di accontentarsi del presidio dei confini europei – ammesso che sia sensata e moralmente accettabile – di per sè non costituiva un impedimento alla libera iniziativa sovrana dello Stato italiano.
In altre parole, l’Europa gretta e egoista non vietava affatto al nostro governo di proseguire l’azione intrapresa con Mare Nostrum.
Tanto è vero che la nostra Marina Militare ha fatto pressioni sulle autorità  politiche per proseguirla, ricevendo in cambio accuse di insubordinazione corredate di insinuazioni sui vantaggi economici che gliene derivavano.
Insomma, l’Europa ci ha fornito un alibi per rinunciare a un’opera di soccorso umanitario della quale pure avevamo menato gran vanto.
E che il governo ha pensato di poter interrompere alla chetichella, fingendo che nulla fosse cambiato.
Da questo punto di vista, i morti di freddo nel Canale di Sicilia non rappresentano solo una ferita alla coscienza nazionale di un paese civile. Segnalano anche un deficit di politica estera che offusca il nostro ruolo di potenza mediterranea.
Stiamo cedendo spazio al monopolio di mafie transazionali che insieme alla tratta dei migranti gestiscono anche il commercio illegale di armi e materie prime, avvantaggiando il radicamento jihadista sulla sponda sud del nostro mare.
L’esito più immediato di questo ripiegamento potrebbe essere la chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, ultimo avamposto occidentale in Libia, dove aumentano i rischi anche per il nostro rifornimento energetico.
Ricordiamo Enrico Letta e Josè Barroso inginocchiati davanti a centinaia di bare nell’hangar di Lampedusa, meno di due anni fa.
La sensazione è che ora ci troviamo di nuovo in ginocchio, ma voltati dall’altra parte come se questa tragedia non ci riguardasse più.
Magari perchè così ha voluto il ministro Alfano. Eppure ci vorrebbe poco per ripristinare Mare Nostrum, salvando vite umane e insieme l’onore della nazione.

Gad Lerner
(da “La Repubblica”)

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“COMPRATO IL SILENZIO SULLE NOTTI DI ARCORE”

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

LE MOTIVAZIONI DELLA CONDANNA NEL RUBY BIS: “PROVE UNIVOCHE SUL GIRO DI PROSTITUZIONE”

Lo «scandalo-Ruby» torna ad incombere su Silvio Berlusconi.
Ieri la Corte d’appello di Milano ha depositato in 127 pagine le motivazioni delle condanne, con uno sconto di pena, per Emilio Fede (4 anni e 10 mesi), Lele Mora (poco più di 6 anni) e l’ex consigliere regionale di Forza Italia Nicole Minetti (3 anni). Per la quarta volta una sentenza – compresa quella che a sorpresa aveva assolto in appello lo stesso Berlusconi, con le successive clamorose dimissioni del giudice Enrico Tranfa – dice chiaro e tondo che molte invitate alle pornonotti di Arcore hanno giurato e raccontato il falso in tribunale.
Una terza inchiesta, il Ruby-ter, è in corso. Per i giudici è «inequivoco e incontestato» anche il pagamento di Ruby: e cioè che la ragazza «ricevesse soldi da Berlusconi, prima in corrispettivo delle prestazioni ottenute, poi per comperare il suo silenzio».
PRESTAZIONI RETRIBUITE
È ormai passato molto tempo dallo scandalo, diventato pubblico nell’ottobre del 2010, sui rapporti tra Berlusconi e Karima El Mahoroug, detta Ruby, allora diciassettenne, definita anche da questa corte «una che a Milano si prostituiva».
Bisogna ricordare che il fronte degli imputati nel processo d’appello s’è rotto.
Lele Mora, ex agente dei vip, ha infatti ammesso «in più occasioni» di aver violato la «normativa in tema di prostituzione (…) precisando che la sua disponibilità  a contattare e a condurre ad Arcore giovani prostitute derivava dall’esigenza di dover restare persona gradita al premier».
Gli altri continuano a proclamarsi innocenti? «L’intento di Fede – scrive la corte presieduta da Arturo Soprano – era quello di condurre presso il Presidente ragazze sempre nuove e belle, nella volontà  di creare le condizioni favorevoli perchè le stesse si concedessero, chi più chi meno».
Una volta che le ragazze entravano in un «ambiente ammiccante », si sentivano proporre «aiuti o lavori». E «non sussisterebbe nessun problema di rilevanza penale, se Berlusconi fosse stato solo un generoso e disinteressato magnate pronto ad aiutare le giovani in difficoltà ».
Invece l’aiuto del miliardario e politico «era finalizzato ad ottenere in cambio prestazioni sessuali».
TARIFFARIO
Esiste un tariffario del bunga bunga: Berlusconi «mi ha abbassato di mille euro, cavolo»; «dai, che tirchieria»; «deve solo sganciare », si sente dire tra le ragazze, in numerose telefonate intercettate.
I giudici scrivono che «elementi di prova assolutamente compatti e univoci» confermano il «carattere remunerativo delle prestazioni offerte dalle ospiti a Berlusconi».
E che è provato e stra-provato l’affannarsi di Fede, Mora e Minetti per favorire quello che il pm Antonio Sangermano definì «il sistema prostitutivo di Arcore».
Molte invitate alle notti di sesso – attenzione a questo passaggio – «lavoravano a Mediaset, direttamente con Fede»: «Con questo non si vuol dire – precisa la Corte – che chi lavorasse a Mediaset automaticamente si prostituiva per Berlusconi; ma che chi, lavorando a Mediaset, partecipava anche alle serate, era favorito nei contatti» grazie al direttore del Tg4.
SOLDI A UNA GIORNALISTA
A scandalo scoppiato, avvennero alcuni episodi che – lo si saprà  alla fine di questo mese – possono trascinare Berlusconi sul banco degli imputati.
I giudici li segnalano. Uno riguarda la riunione che si tenne ad Arcore il 15 gennaio 2011, alla presenza del tandem legale Ghedini-Longo.
Erano presenti numerose invitate ai «party selvaggi» (definizione dell’ambasciata americana) dell’allora premier.
E quell’ «incontro non può essere qualificato come atto d’investigazione privata », afferma la corte. Poco dopo, una quarantina di ragazze cominciarono a ricevere dall’entourage di Berlusconi uno stipendio mensile, di almeno 2mila e 500 euro. «Sono state danneggiate, non lavorano più», è stata la spiegazione.
Eppure c’è «una ragazza, Silvia Trevaini, che ha ricevuto – sottolinea la corte – la somma mensile, pur non essendo mai stata indicata come partecipe alle serate, nè avendo mai perso il lavoro a Mediaset», dove è assunta come giornalista.
Qual è la logica per pagare le testimoni?
INTERROGATORIO SEGRETO
Su un solo avvocato i giudici puntano con severità  il dito, addebitandogli «la configurabilità  del reato di rivelazione di segreti inerenti un procedimento penale ».
Si chiama Luca Giuliante, è lui che tra il 6 e il 7 ottobre 2010 interroga Ruby. L’interrogatorio – scrivono in sentenza –serve «ad assumere informazioni su quanto la ragazza aveva detto in sede d’interrogatorio ai pm, e cioè in aperta violazione ai divieti imposti».
Lo fa, stando ai giudici, per «consentire al reale interessato all’attività  investigativa, Silvio Berlusconi, di valutare come impostare la propria attività  difensiva».
In quei giorni, gli habituè di Arcore sanno di essere (parola loro) «sputtanati» e Ruby, a suo dire, viene rassicurata da Berlusconi, che può «proteggerla », e pagarla.
Una ricostruzione chiara, quella offerta dai giudici, che «risulta del tutto opinabile» all’avvocato Federico Cecconi, attuale difensore di Berlusconi: «In particolar modo laddove ricostruisce in termini di illiceità  gli aiuti economici offerti dal dottor Berlusconi, non c’è nulla di illecito».
Lo ribadisce in previsione del Ruby Ter, e non solo: l’assoluzione di Berlusconi in appello è stata raggiunta dal durissimo ricorso della procura generale, che riteneva provata tanto la prostituzione minorile sia la concussione (la telefonata in questura per allontanare velocemente Ruby dagli investigatori).
La Cassazione, in estate, dovrebbe dire se sarà  celebrato un nuovo processo Ruby-Silvio.

Piero Colaprico
(da “il Fatto Quotidiano”)

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NAZIONE INFETTA, POLITICA INETTA

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

CORRUZIONE, MAFIA ED EVASIONE FISCALE CI COSTANO 400 MILIARDI L’ANNO, UN QUINTO DEL DEBITO PUBBLICO NAZIONALE, CINQUE VOLTE GLI INTERESSI CHE PAGHIAMO SUL DEBITO

Quando il ministro greco Varoufakis dice che “l’Italia rischia la bancarotta”, i nostri politici ne fanno subito una questione di patriottismo e di finanza pubblica.
Ma come, “il nostro debito è soldo e sostenibile” (Padoan).
E poi mica siamo la Grecia, noi.
In realtà , a parte il nostro debito che continua a crescere imperterrito, l’Italia rischia la bancarotta anche per altri motivi. Che non sono squisitamente finanziari, ma hanno conseguenze devastanti sui conti pubblici: la corruzione, le mafie e l’infedeltà  fiscale, che rapinano ogni anno agli italiani circa 400 miliardi (un quinto del debito pubblico, il quintuplo degli interessi).
Mettendo in fila le notizie di un solo giorno, quello di ieri, viene da rabbrividire.
La lista Falciani riguarda 100 mila clienti — fra cui ben 7500 italiani — dell’Hsbc Private Bank di Ginevra con un tesoro di miliardi di dollari sottratti al fisco dei rispettivi paesi.
Un piccolo campione dell’evasione fiscale, scoperto grazie a un funzionario che ha violato e svelato gli archivi segreti.
Ma il dato va moltiplicato per mille o più: l’Agenzia delle Entrate calcola in 10-12 milioni i contribuenti italiani totalmente o parzialmente infedeli.
Ci sono, certo, i piccoli imprenditori che evadono per necessità . Ma non contiamo frottole: la stragrande maggioranza sono riccastri travestiti da poveracci e dichiarano meno dei loro dipendenti.
E in Italia non rischiano praticamente nulla, se non la parcella dell’avvocato, a causa di quel tacito patto che da decenni tiene legati governi e politici d’ogni colore al partitone dell’evasione, all’insegna del più ignobile voto di scambio.
La seconda notizia è l’indagine per mafia su Antonello Montante, uno dei simboli dell’antimafia confindustriale in Sicilia: le accuse dei pentiti vanno verificate dai pm sul piano penale; ma frequentazioni poco commendevoli già  ne sono saltate fuori, almeno sul piano etico.
Intanto il consigliere comunale Giuseppe Faraone, passato dai socialisti alla lista dell’antimafioso Rosario Crocetta alla Lega Nord (filiale palermitana), è finito dentro per estorsione mafiosa.
In Calabria il neogovernatore Pd Mario Oliverio non trova di meglio che presentare una giunta con quattro assessori indagati (uno per ‘ndrangheta) più l’ex ministra Lanzetta, che s’è subito dimessa perchè si sentiva fuori posto: era l’unica non inquisita.
A Milano, a parte le continue retate su tangenti e infiltrazioni mafiose, 8 appalti Expo su 10 sopra i 40 mila euro risultano sospetti per l’Anticorruzione di Cantone.
In Veneto, scandalo Mose a parte, il governatore leghista Luca Zaia nomina all’Anticorruzione regionale un dirigente arrestato per turbativa d’asta e un altro per peculato e malversazione.
Altro che “Capitale corrotta, nazione infetta”, come l’Espresso titolò nel 1955 la leggendaria inchiesta sul sacco di Roma.
Oggi l’infezione è dappertutto, la nazione è marcia e avrebbe bisogno di una classe dirigente nuova non per età  anagrafica o politica, ma per cervello e cultura, capace di impugnare la ramazza e varare subito un decreto draconiano per riportare un minimo di legalità  e decenza.
Come quello appena proposto dalla commissione Gratteri-Davigo.
Invece Renzi ancora si balocca col condono fiscale fino al 3% (che poi corrisponde all’11% di nero legalizzato) e con l’eterno annuncio di un “Daspo per i corrotti” che non arriva mai.
E a destra l’altro Matteo, il felpato Salvini,   non osa neppure chiedere i danni all’ex tesoriere-predone Belsito, se no magari quello parla.
Ieri una delegazione di parlamentari 5Stelle ha incontrato a Palermo il pm Nino Di Matteo: avrebbero dovuto esserci i rappresentanti di tutti i partiti e del governo, con loro.
Finchè chi governa e chi vuole governare non avranno le carte in regola per sbaraccare la trattativa Stato-mafia/evasione/corruzione, la bancarotta continueremo a rischiarla ogni giorno.
E magari, se ci impegniamo un altro po’, centreremo anche quell’obiettivo.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)

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“PAPANDREOU RICATTATO PER I CONTI DELLA MADRE”: COSÃŒ ARRIVÃ’ LA TROIKA IN GRECIA?

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

FALCIANI NEL SUO LIBRO: “LA MADRE DEL PREMIER GRECO “AVEVA 500 MILIONI DI EURO” IN SVIZZERA… “NEL 2011 SARKOZY POTEVA FARE PRESSIONI IN NOME DELLA TROIKA”

I sessanta uomini d’oro di Swissleaks.
Tra le centomila persone con i conti segreti presso la Hsbc svizzera, ce ne sono una manciata che ”contano” più degli altri, perchè fili conduttori di intrecci tra banche, manager e politica.
Tra questi, secondo il libro di Hervè Falciani, la ”gola profonda” che ha sottratto dalla banca i files segreti sui 100mila conti utilizzati, tra le altre cose, per evadere il Fisco o finanziare traffici illeciti, ci sarebbe quello della madre dell’ex premier greco George Papandreou.
Il Corriere della Sera riporta un passaggio del libro di Falciani (“La cassaforte degli evasori”), secondo cui la madre dell’ex primo ministro aveva un conto da 500 milioni presso la banca svizzera.
Scrive il Corsera:
Il fatto è che la lista degli “uomini d’oro” della Hsbc – in possesso di alcuni Paesi già  da alcuni anni – sarebbe stata usata, secondo l’ex impiegato Falciani per imporre politiche di austerity ad altri Paesi.
Questo, secondo lui, almeno il caso della Grecia. Falciani ricorda Papandreou e parla di “pressione e ricatto”.
Rivelazioni destinate a deflagrare a poche ore dall’Eurogruppo che domani deciderà  il destino del Paese guidato da Alexis Tsipras.
“Nel 2011 la guida delle negoziazioni con la Troika sul salvataggio della Grecia fu affidata a Sarkozy che aveva quella lista e, conoscendone i nomi, poteva fare pressioni su Papandreou”, scrive Falciani.
Ancora: “Come era avvenuto negli Stati Uniti, la lista della Hsbc fu usata come arma di ricatto e merce di scambio. In Grecia l’elenco scomparve… In Grecia, come altrove, non è mai stata avviata formalmente alcuna indagine”.
In un’intervista al Sole 24 Ore, l’ex impiegato della Hsbc assicura che “non è finita qui. Abbiamo le prove di nuovi scandali. Altre banche saranno coinvolte”.
Non solo: Falciani conferma la sua vicinanza al partito anti-austerity spagnolo Podemos: “Ho una riunione di lavoro con loro attraverso Skype perchè sono in Francia. In Spagna c’è un’esperienza politica che sta nascendo con Podemos”.
E, annuncia, “sto cercando di avviare una collaborazione anche con Syriza in Grecia. Con loro abbiamo la possibilità  di cambiare le cose. Le iniziative vanno pensate su scala europea”.

(da “Huffingtonpost”)

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“HO ESAGERATO”: LE SCUSE DI GILETTI, IL POPULISTA DELLE DOMENICHE IN TV

Febbraio 10th, 2015 Riccardo Fucile

I TRIBUNI CATODICI CHE ATTACCANO SOLO I POLITICI IN PENSIONE

Ci mancava solo l’arruffapopolo della domenica, per completare il catalogo dei tribuni catodici.
Adesso l’abbiamo trovato: è Massimo Giletti, il bel tenebroso dei giorni di festa, protagonista di una metamorfosi da antologia.
Solo l’altro ieri conduceva «Beato tra le donne», annunciava «Il lotto alle otto» e ci augurava «Buon Natale con Frate Indovino ».
Ma adesso è un altro uomo, un altro conduttore. È Il tribuno della plebe che duella a suon di insulti con Mario Capanna e getta a terra il libro dell’ospite.
Dopo avergli scandito che quel libro, «sa cosa le dico, lo leggerò in un certo posto!».
Giletti non è un volto nuovo – rimbalza da una rete all’altra da più di vent’anni – ma fino a qualche tempo fa apparteneva alla nutrita categoria dei personaggi che riescono ad attraversare il video senza lasciare traccia.
Poi, improvvisamente, la trasformazione. Che avviene la domenica pomeriggio su RaiUno, in un programma da lui stesso inventato: “L’arena”. È qui, che dopo aver provato a rastrellare audience con il delitto di Avetrana e il video porno di Belen Rodriguez, lui ha scoperto la sua vera vocazione: diventare un teletribuno.
E così ha rubato a Beppe Grillo la lista dei privilegi della Kasta e s’è lanciato in una coraggiosa operazione di sfondamento di porte aperte, solleticando all’ora del caffè la già  sensibilissima indignazione dell’italiano medio: contro i falsi invalidi, contro i comunali assenteisti, contro i forestali del Sud.
E contro i politici.
Ma non quelli in carica (meglio evitare: sono troppo potenti). Quelli in pensione.
È proprio nel nome di questa coraggiosa battaglia, che domenica il bel tenebroso Giletti ha sfidato l’ex capopopolo sessantottino Mario Capanna, chiamandolo a spiegare perchè non vuole rinunciare nemmeno in parte al vitalizio di 5000 euro che riceve dallo Stato come ex parlamentare. E quando Capanna – difendendo la sua impopolarissima condizione – lo ha accusato di far “rincoglionire” i telespettatori, Giletti ha indossato la toga del tribuno del popolo.
L’ha accusato di essere un ladro («Voi rubate i soldi a chi è onesto»).
Ha chiamato in causa i minatori («che sono pieni di silicosi mentre voi portate a casa cinquemila euro»).
E ci ha rivelato – credendoci – che lui lavora «per la gente come Isabella, che si alzava alle quattro per andare a lavorare ed è morta d’infarto».
Cosa non si farebbe, al giorno d’oggi, per un punto di share.

Sebastiano Messina
(da “La Repubblica”)

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