I DODICI MESI DEL GRANDUCATO TOSCANO
UN ANNO FA RENZI RICEVEVA L’INCARICO DI FORMARE IL GOVERNO: QUALCHE LUCE, MOLTE OMBRE, MOLTISSIME CHIACCHIERE
“Non mi interessa prendere il posto di nessuno, voglio fare le cose che interessano agli italiani. #enricostaisereno”.
Era il 17 gennaio 2014 quando Matteo Renzi, ospite di Daria Bignardi, rassicurava l’allora premier Enrico Letta inventandosi un apposito hashtag.
Neanche un mese dopo, il 13 febbraio, Renzi proponeva alla Direzione Pd — che approvava — di sfiduciare #enricostaisereno.
Il giorno dopo Letta si dimetteva e il 17 febbraio il sindaco di Firenze e segretario democratico riceveva l’incarico di formare il nuovo governo: il 22 giurava al Quirinale e 24 ore dopo riceveva la fiducia delle due Camere.
Sono, insomma, dodici mesi di Renzi (e degli innumerevoli fiorentini che ha nominato su ogni poltrona disponibile) alla guida del Paese: quello che presentiamo è il bilancio di un anno di Granducato toscano a partire dai temi economici, quelli più sensibili per una nazione in recessione da tre anni filati.
Il filo conduttore sarà il discorso programmatico con cui Matteo Renzi si presentò al paese.
A rileggerlo oggi, peraltro, mostra già tutto il suo stile di governo: frasi che vorrebbero mimare vertigini kennediane non elevandosi mai dal livello Baci perugina (“è il tempo del coraggio”; “la fiducia non la sta chiedendo un governo, ma l’Italia”); grandi petizioni di principio sul cambiamento i cui contenuti vengono sempre rinviati a un secondo momento (“immaginiamo un percorso in cui la differenza tra sogno e obiettivo è una data”); qualche annuncio spot di grande impatto sul pubblico (più asili nido; i dirigenti pubblici siano a termine; vi spediremo la dichiarazione dei redditi precompilata).
A guardare l’elenco delle realizzazioni concrete, invece, si nota altro.
Il “cambio radicale delle politiche economiche” non c’è stato, ma — al di là delle chiacchiere — si è invece accentuata l’adesione al modello di sviluppo proposto dalla “austera” commissione Ue: tagli di spesa pubblica, politiche che riducano la capacità contrattuale dei lavoratori (Jobs Act) e sgravi fiscali per le grandi imprese (quelle che vivono di esportazioni).
È il modello della “svalutazione competitiva” che è la linea ufficiale dell’Italia da Mario Monti in poi.
Non sorprende, dunque, che i risultati alla fine siano gli stessi: il Pil è continuato a calare, i disoccupati sono rimasti tali.
SEMESTRE EUROPEO
Mezza vittoria con la Mogherini, ma niente flessibilità sui cont
Diceva: ”Non possiamo immaginare che il semestre europeo sia semplicemente l’occasione per fare le nomine per le nuove istituzioni. Abbiamo bisogno di raccontare che cosa significhi l’Europa nel mondo che cambia”.
Era il 24 febbraio 2014, discorso di Matteo Renzi per chiedere la fiducia al Senato.
Da allora il semestre europeo si è aperto e si è chiuso. La nomina, quella che conta, c’è stata: Federica Mogherini è l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, la terza carica più alta in Europa di nomina governativa dopo presidenza della Commissione e del Consiglio (su quest’ultima poltrona ci sarebbe potuto finire Enrico Letta, ma Renzi non voleva).
E per il resto? Renzi ha impostato il semestre sulla richiesta di “flessibilità ”, cioè di un’applicazione più blanda dei parametri del rigore contabile ai Paesi che si impegnano a fare riforme costose.
Alla chiusura dei sei mesi di presidenza di turno dell’Italia (una funzione ormai puramente formale), il premier non ha potuto vantare grandi risultati.
Si è intestato il piano di Jean Claude Juncker, 21 miliardi veri che diventano 315 con la leva finanziaria, che però veniva annunciato dal presidente della Commissione già pochi giorni dopo l’inizio della presidenza Italia che, dunque, non può attribuirsene il merito (ammesso che produca qualche risultato concreto).
Nel concreto: la Commissione europea ha approvato nuove “linee guida” per interpretare le regole contabili, ma Renzi non ha potuto esultare molto.
Non recepiscono le richieste principali dell’Italia, cioè scorporare dal calcolo del deficit le spese produttive (investimenti) ma si limitano a chiedere un aggiustamento minore del deficit strutturale, quello depurato dagli effetti della recessione: invece che 0,5 per cento del Pil, solo 0,25.
Ma l’Italia è comunque inadempiente, visto che al momento la sua correzione si ferma a 0,1.
COME VA L’ITALIA
Pil, disoccupati, debito pubblico: i numeri del fallimento più grande
Era iniziata così: “Dal 2008 al 2013, mentre qualcuno si divertiva, il Pil di questo Paese ha perso 9 punti percentuali. La disoccupazione giovanile è passata dal 21,3 al 41,6%. La disoccupazione è passata dal 6,7 al 12,6%. Non sono i numeri di una crisi, sono i numeri di un tracollo…”.
Così Matteo Renzi in Senato il 23 febbraio 2014. In aprile, a segnare il cambiamento di verso arrivato a risollevare il Belpaese, il Documento di economia e finanza (Def) firmato dal premier e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan metteva nero su bianco che il Pil sarebbe cresciuto dello 0,8% nel 2014.
A fine anno, però, ci si è accorti che in realtà la ricchezza prodotta in Italia è diminuita ancora: in attesa del dato definitivo si stima che il Prodotto sia sceso di altri 0,4 punti. Anche il 2015, che secondo l’esecutivo del Granducato era l’anno in cui tutto ripartiva, se va bene sarà solo quello in cui si arresta la caduta: +0,6% secondo il Tesoro e Bruxelles, +0,5% secondo Banca d’Italia (e questo al lordo dei soldi che la Bce comincerà a immettere nell’economia a partire da marzo).
Pure la disoccupazione non sembra aver tratto giovamento dalla cura Renzi: a fine dicembre, ha detto l’Istat dieci giorni fa, era al 12,9% e quella giovanile al 42 (e così dovrebbe rimanere a fine anno secondo le stime).
Dati che sono già un miglioramento rispetto a quelli di novembre, va detto, ma comunque peggiori di quelli che il premier definiva “i numeri di un tracollo”.
Chissà come li chiama oggi. E chissà come li chiamerà domani.
Domani , infatti, è il momento più complicato per Matteo Renzi. Il pareggio di bilancio e il taglio del debito pubblico previsti dagli accordi europei sono solo rinviati e nel bilancio dello Stato ci sono, nascoste ma già attive, le famigerate “clausole di salvaguardia”: 12,8 miliardi di nuove tasse nel 2016, 19,2 miliardi l’anno dopo che diventano 21,2 miliardi dal 2018.
JOBS ACT E DINTORNI
Era partito dall’enews, alla fine ha abolito lo Statuto dei lavoratori
In principio nelle dichiarazioni programmatiche era questo: “Partiremo con il Piano per il lavoro, che, modificando uno strumento universale a sostegno di chi perde il posto di lavoro, interverrà attraverso nuove regole normative, anche profondamente innovative. Se non a creare nuove , problema delle garanzie dei nuovi assunti neanche si pone”.
Molto generico.
Poi si aggiungeva: “Intervenire in modo strutturale nella capacità di attrarre investimenti in questo Paese”. Ancora più generico.
Alla fine, è diventata l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, l’allungamento dei termini per i contratti a termine, una riverniciata al sussidio di disoccupazione.
Eppure, l’8 gennaio 2014, prima di entrare a Palazzo Chigi, quando ancora le sue ambizioni sembravano limitate alla segreteria del Pd, Renzi inviava una delle sue Enews (la 381) in cui scriveva, tra le altre cose, le “regole” del Jobs Act: “Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero”.
E otto mesi sono già passati.
“Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile”. Ma il decreto ancora non c’è.
“Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Fatto, ma abolendo le tutele.
“Assegno universale per chi perde il posto di lavoro con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro”. Fatto, ma in termini ancora insufficienti e soprattutto senza risorse aggiuntive.
“Obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico”. Nulla all’orizzonte.
“Legge sulla rappresentatività sindacale”, come sopra. Mai fidarsi delle Enews.
DISSESTO IDROGEOLOGICO
Già operativo 1 miliardo, saranno 7 in sette anni
Magari non di corsa, come sosteneva Renzi, ma sul dissesto idrogeologico le cose si sono mosse: secondo Erasmo D’Angelis, l’uomo che guida l’apposita struttura di missione a palazzo Chigi, è già “operativo” circa 1 miliardo di euro di fondi che servono a finanziare le prime 700 opere cantierabili, pari al 10% dei 7mila interventi necessari per mettere in sicurezza il territorio (19 miliardi il costo complessivo).
Si tratta di fondi già stanziati dai governi precedenti, che però non erano mai stati spesi: finalmente si è cominciato a lavorare e la buona notizia può in parte scusare certi eccessi propagandistici del premier (tipo l’invito di palazzo Chigi ai responsabili dei cantieri di farsi un selfie con gli operai e inviarlo al governo).
Il piano dell’esecutivo comunque, inserito in uno dei collegati alla legge di Stabilità , prevede investimenti sul tema per 7 miliardi nei prossimi 7 anni a partire dalla fase preliminare: “Abbiamo ancora quasi 6.000-6.500 opere da progettare.
Per questo c’è un ‘Fondo progetti’ ad hoc: 200 milioni per sbloccare una situazione bloccata da anni”, ha spiegato D’Angelis.
Una piccola inversione di tendenza, che comunque non sana alcune spiacevoli “continuità ” del governo Renzi rispetto ai governi precedenti: tra il 2013 e il 2014 i governi hanno dovuto emanare 27 volte lo “stato d’emergenza” per eccezionali eventi atmosferici in quasi tutte le regioni italiane.
A dispetto della legge, però, dopo l’emergenza non sono mai arrivati i fondi per rimettere in sicurezza i territori e ripagare i danni.
ADDIO PROVINCE?
Enti aboliti in parte, le elezioni del tutto
Dal 1 gennaio scorso le province non esistono più, cioè quasi. Esistono ancora, ma i consiglieri e il presidente non sono più eletti dai cittadini, ma dai consiglieri comunali della zona.
Sono enti di secondo livello, così si dice. È l’innovazione più rilevante della cosiddetta “riforma Delrio”, dal nome dell’ex ministro di Letta, oggi sottosegretario a palazzo Chigi. Sulle competenze che queste nuove province non elettive dovranno avere — e relativo personale — si procede al buio e lo stesso discorso vale per le dieci città metropolitane. Ancora peggio va con la questione risorse: azzerato già da Monti il fondo di riequilibrio, ora Renzi impone alle province nuovi “tagli” per un miliardo quest’anno e tre a regime dal 2017.
In realtà l’espressione è impropria, visto che le province hanno tributi propri per dieci miliardi e da quest’anno ridaranno allo Stato centrale un miliardo (che diventeranno appunto tre a regime).
Ovviamente quello di cui si occupavano le province — dalle strade alle scuole ai trasporti — andrà ancora pagato, ma non si sa con quali soldi.
Poi c’è il nodo dei ventimila dipendenti (dando per scontato che i duemila precari delle province italiane siano già disoccupati): il governo ha congelato la situazione per due anni e promette che, laddove l’ente provincia non avesse più molto da fare, il personale sarà comunque ricollocato. In realtà con l’introduzione della “mobilità ” anche per il pubblico impiego, il rischio di licenziamento non è così piccolo.
Infine c’è il tema dei debiti: accollarli alle città metropolitane, per dire, significa che gli enti voluti da Delrio in qualche caso nascono tecnicamente già falliti.
SPENDING REVIEW
I tagli sono sgradevoli, Cottarelli licenziato
Nel chiedere la fiducia al Parlamento, poco meno di un anno fa, Matteo Renzi prometteva un taglio del cuneo fiscale coperto “attraverso misure serie e irreversibili, legate alla revisione della spesa, che porterà nel corso dei primi mesi del primo semestre del 2014 a vedere dei risultati immediati e concreti”.
Il risultato più concreto è stato il licenziamento di Carlo Cottarelli, il commissario alla revisione della spesa arrivato durante il governo Letta.
Mai preso in considerazione, privo anche di un ufficio a Palazzo Chigi, Cottarelli lascia a settembre, ma era ai margini da sempre.
Si dimette senza polemiche perchè Renzi lo designa rappresentante italiano nel consiglio del Fondo monetario internazionale, l’istituzione dove Cottarelli ha lavorato per anni. Nonostante gli appelli di alcuni collaboratori del commissario, come l’economista Riccardo Puglisi, il governo si è sempre rifiutato di divulgare i dossier preparati da Cottarelli sugli sprechi nella Pubblica amministrazione.
Dei 32 miliardi di possibili risparmi previsti dal commissario non si saprà più nulla e neppure del suo progetto per rendere più efficace la Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione.
In compenso quando il premier deve trovare le coperture per la sua legge di Stabilità ricorre al metodo opposto alla revisione della spesa, cioè i tagli lineari. Invece di un esame minuzioso delle pieghe del bilancio, stabilisce che gli enti locali devono trovare 6,2 miliardi di euro.
O riducono le spese, o aumentano le tasse, problemi loro, non di Palazzo Chigi.
LE IMPRESE RIDONO
Debiti P.A. (quasi) pagati e tanti sgravi per i grand
Sui debiti della P.A. la promessa di Renzi è stata all’ingrosso mantenuta: rispetto agli stanziamenti del governo Letta (56 miliardi complessivi), quelli effettivamente messi a disposizione al 30 ottobre sono 40,1 e quelli già pagati 32,5 miliardi.
Le richieste totali dagli enti debitori, però, ad oggi sono arrivate a circa 41 miliardi di debiti certificati, segno — dice il Tesoro — che lo stock accumulatosi fino al 2012 si sta esaurendo.
A questi fondi vanno aggiunti i 10 miliardi messi a disposizione da Cassa depositi e prestiti per l’operazione di cessione dei crediti vantati dalle imprese.
Il settore più in ritardo, secondo stime informali, è quello sanitario, che è pure quello in cui ci sono più “fatture” contestate (è difficile, insomma, farsi certificare il credito).
Le imprese, comunque, specialmente quelle di grandi dimensioni, non possono lamentarsi del governo Renzi: al netto del Jobs Act, che pure è uguale alle proposte di Confindustria, gli imprenditori incassano il taglio dell’Irap e la detassazione delle assunzioni. Il taglio dell’Imposta regionale agisce sulla componente lavoro: all’ingrosso si tratta di uno sgravio di circa 5 miliardi che, per come è strutturato, premia soprattutto le imprese più grandi, quelle con molti dipendenti a tempo indeterminato.
Per la detassazione triennale delle nuove assunzioni nel 2015, infine, la legge di Stabilità ha stanziato 5 miliardi in tutto, ma quasi 2 arrivano dall’abolizione di altre detrazioni: lo sgravio massimo è 8.060 euro a lavoratore e dunque la platea è di circa 620mila nuove assunzioni (non un milione come dice Renzi). I fondi, in questo modo, dovrebbero finire nei primi tre mesi dell’anno.
EVASORI VENITE
Diceva “repressione durissima”, poi s’è inventato la sanatoria per chi froda il Fisc
Il fisco non deve “essere il nemico”, deve assumere “i connotati di una sorta di consulenza al cittadino”.
Mica sempre però: “Salvo poi quando accade che qualcuno davvero commette reati o comunque è passibile di sanzioni amministrative, perchè allora la repressione dev’essere durissima”.
Renzi il 23 febbraio 2014 voleva la repressione durissima per chi commetteva reati fiscali e anche solo per chi non aveva semplicemente dichiarato il giusto all’Agenzia delle Entrate.
Il 24 dicembre, invece, ha firmato un decreto attuativo della delega fiscale con un articolo — il 19 bis — infilato d’imperio nonostante la contrarietà del Tesoro che realizzava una sorta di sanatoria per i reati di evasione e persino di frode fiscale realizzati al di sotto della soglia del 3% del fatturato o del reddito imponibile.
È stato chiamato “Salva-Silvio” — nel senso che avrebbe cancellato a posteriori la condanna per frode di Berlusconi, ma piace assai alle banche e soprattutto — come ha scritto Il Fatto Quotidiano — ai vertici del colosso farmaceutico Menarini, la famiglia Aleotti, fiorentini con ottimi rapporti con Matteo Renzi, sotto processo per un colossale danno al Servizio sanitario nazionale e relativa frode fiscale.
Pure nella legge sul rientro dei capitali all’estero, benedetto dal governo, c’è una sorta di mezzo condono per chi ha accumulato fondi neri (anche in Italia, alla faccia del “rientro”).
E d’altra parte — al netto di come finirà col falso in bilancio, che era stato riproposto nell’inutile formula berlusconiana per compiacere Confindustria — pure il nuovo, pubblicizzatissimo reato di auto-riciclaggio è pensato per rimanere sostanzialmente inapplicato. Insomma, la lotta all’evasione non sembra davvero una priorità del governo.
NOMINE E NUOVI POTERI
Rottamati i boiardi, avanza il giglio magico di finanzieri e imprenditori amic
Lo aveva annunciato anche in una intervista al Fatto, prima di prendere il potere ed è stato di parola: rottamati tutti i boiardi delle partecipate pubbliche, via Paolo Scaroni dall’Eni, Fulvio Conti dall’Enel, l’eterno Massimo Sarmi dalle Poste.
Il rinnovamento è tutto nella continuità : i numeri due di Eni ed Enel, Claudio Descalzi e Francesco Starace vengono promossi, Mauro Moretti lascia le Ferrovie al suo braccio destro Michele Elia e passa a Finmeccanica, il potentissimo ex capo dei servizi segreti Gianni De Gennaro resta alla presidenza di Finmeccanica. Renzi considera le aziende controllate dallo Stato — che comanda ma nelle quotate ha circa il 30 per cento — come parte della politica industriale dell’esecutivo e arriva ad attaccare in Parlamento giornali e giornalisti che sollevano il caso dell’indagine per corruzione internazionale a carico di Descalzi.
Anche nei ministeri Renzi emargina i burocrati più potenti, come l’ex segretario generale di Palazzo Chigi Roberto Garofoli che passa al Tesoro.
Nei cda delle partecipate entrano amici e finanziatori del premier (Fabrizio Landi, Alberto Bianchi, ecc.) e a Palazzo Chigi nasce una specie di governo ombra.
Molto più fidato di quello ufficiale, con l’ex manager Andrea Guerra, economisti come Roberto Perotti e Marco Simoni o Carlotta de Franceschi, bocconiana che viene dal mondo delle banche d’affari.
Resta poco chiaro il ruolo di Marco Carrai, amico del premier senza cariche ufficiali ma che, secondo racconti sempre più frequenti in questi mesi, ha un notevole potere di influenza sulle aziende nell’orbita governativa.
BENEDETTI 80 EURO
Soldi ai dipendenti, ma non ai veri pover
“Darò 80 euro al mese ai redditi medio bassi”. Su questa promessa il premier s’è giocato tutto (e ci ha pure vinto le Europee) e alla fine l’ha mantenuta: il bonus Renzi è e sarà nella busta paga di chi ha un reddito da lavoro tra otto e 24 mila euro l’anno (l’effetto, in realtà , si sente fino a 26 mila).
Era stato inizialmente finanziato per il solo 2014, ma con la legge di Stabilità il governo ha trovato i 9 miliardi l’anno circa che servivano a renderlo strutturale.
Al momento, però, l’effetto sui consumi è stato assai contenuto per non dire nullo: la domanda delle famiglie, infatti, anche nel 2014 è risultata in calo, anche se meno rispetto agli anni precedenti (anche precipitando, d’altronde, prima o poi la caduta si interrompe, in genere contro il selciato).
La promessa è stata comunque mantenuta, anche se è rimasta lettera morta quella di estendere il bonus fiscale a pensionati e partite Iva con reddito fino a 24 mila euro e pure agli incapienti (chi guadagna meno di ottomila euro l’anno).
Alla fine ha vinto il Tesoro, che diceva che i soldi non c’erano: Renzi, però, s’è preso la sua soddisfazione dando 80 euro al mese a chi farà un figlio nel 2015 (costa molto meno). I dipendenti dello Stato, invece, hanno avuto una pessima notizia: il governo dell’ex sindaco di Firenze — nonostante avesse promesso di non farlo — ha confermato per il quinto anno consecutivo il blocco degli stipendi del pubblico impiego.
Lo scippo per il solo 2015 vale due miliardi e mezzo in tutto: nel quinquennio, su uno stipendio mediano da circa 24 mila euro l’anno, significa una perdita secca di retribuzione da oltre 3 mila euro l’anno (nei 5 anni, invece, si superano gli 11 mila euro totali, cui vanno aggiunti gli effetti sulla pensione calcolata col retributivo).
Insomma per gli statali gli 80 euro sono stati un gioco a somma zero.
Anche il resto della platea, comunque, dovrebbe farsi due conti: i nuovi pesanti tagli di spesa comporteranno la riduzione di alcuni servizi (che andranno quindi acquistati sul mercato) e probabili aumenti della tassazione locale.
Canavò Feltri e Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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