Luglio 9th, 2015 Riccardo Fucile
A PARTE CHE IL RUOLO NON ESISTE SE NON NELLA MEGALOMANIA DEL PRESIDENTE DELLA REGIONE, PERCHE’ SCEGLIERE UNO CHE INVITAVA MATACENA SOSTENENDO CHE NON SAPEVA CHE AVESSE GIA’ SULLE SPALLE UNA CONDANNA A 5 ANNI PER ASSOCIAZIONE MAFIOSA?
Giovanni Toti pare abbia bisogno di un “consigliere politico”: come Berlusconi ha nominato tale l’ex direttore di Studio Aperto, ora Toti, a sua volta, vuol fare altrettanto.
Secondo quando riporta (non smentito) il Secolo XIX il nome che circola e quello di Antonio Morabito, ex ambasciatore d’Italia nel principato di Monaco, già coinvolto nella vicenda sui rapporti tra l’ex ministro Claudio Scajola e l’imprenditore Amedeo Matacena: «Voci ne girano tante- commenta – ma non posso dire niente. Vedremo…»
L’ex diplomatico era finito sotto i riflettori per una foto – pubblicata dal settimanale Oggi – in cui compariva, a un ricevimento all’ambasciata di Monaco, accanto a Scajola, Matacena e la moglie Chiara Rizzo, residente nel Principato.
La foto fu scattata il 2 giugno 2011: allora Matacena aveva già sulle spalle una condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.
Condanna poi confermata in Cassazione: 5 anni.
«Non sono mai stato indagato in quell’inchiesta – precisa – e ho già chiarito la mia posizione»., sostiene l’ex ambasciatore.
A suo tempo però l’on Albano, membro della Commissione Antimafia – aveva scoperto che il nostro rappresentante presso la corte dei Grimaldi alla Festa della Repubblica aveva invitato a una festa in Ambasciata Amedeo Matacena, ex deputato sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, accompagnato dall’ex ministro Claudio Scajola.
Nelle intercettazioni dell’indagine che ha coinvolto Scajola, Chiara Rizzo si rivolge all’ambasciatore per ottenere un aiuto che lo stesso Morabito ha definito assolutamente legittimo.
Ma Albano dice: “In seguito alle telefonate della signora Rizzo l’ambasciatore sollecitava altri uffici appartenenti alla struttura del Ministero degli Affari Esteri, affinchè si ponessero in azione per far incontrare lo stesso Matacena con la moglie, malgrado fosse ben noto che era ormai era considerato a tutti gli effetti, un latitante”.
Di che consigli politici possa aver bisogno Toti dall’ex ambasciatore non è chiaro: che voglia prepararsi già alla fuga dalla Liguria?
(da “il Secolo XIX”)
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Luglio 9th, 2015 Riccardo Fucile
DEI 100.000 PROMESSI 52.000 NON VEDRANNO UN EURO… IN COMPENSO AVREMO UN PRESIDE MANAGER DEL NULLA… E IN AUTUNNO FARA’ MOLTO CALDO
Nel caldo torrido della Roma di luglio i deputati sciamano dall’ingresso principale di Montecitorio.
Hanno appena trasformato “la buona scuola” in legge.
Ad accoglierli, al di là delle balaustre, una musica che potrebbe essere dei Modena City Ramblers, e un gruppo di insegnanti che fischia, e urla, e inveisce: “Ma ve la siete letta la legge o avevate troppa fretta di partire per il weekend?”.
È solo un preludio di quello che succederà ad ottobre.
Perchè uno strano incrocio tra scelte ponderate e alchimie parlamentari ha permesso l’approvazione della riforma quando anche gli ultimi maturandi avevano sostenuto l’orale. Ma quando i cancelli si riapriranno, la musica sarà diversa.
Dalle slide di Palazzo Chigi ad oggi la strada è stata accidentata. E ha percorso parallelamente la strada di tutto l’anno scolastico appena trascorso.
I 12 punti presentati lo scorso settembre avevano scatenato proteste e dissenso. Una protesta che si è allargata a macchia d’olio negli ultimi mesi, e che aveva portato Matteo Renzi ad annunciare uno stop e un momento di riflessione con una grande assemblea pubblica.
I tempi e le ragioni della politica hanno prevalso su quelle dell’ascolto, come dicono i critici. O, a dar retta ai sostenitori, si rischiava di bucare l’inizio dell’anno e dover rimandare tutto al 2016-2017.
Fatto sta che il governo ha accelerato, e chiuso la partita ben prima della pausa estiva, anche grazie ad un contestatissimo voto di fiducia posto al Senato.
Da settembre a oggi di sostanziale è cambiato che dei 100mila precari che dovevano essere assunti solo 48mila avranno l’agognato posto di lavoro.
Una circostanza, tra l’altro, dovuta in gran parte al fisiologico turnover, il saldo tra chi esce e chi entra nel mondo del lavoro (in questo caso nei posti di ruolo).
Gli altri 52mila dovranno aspettare. Quanto, non si sa.
Arriverà certo la nomina “giuridica”, ma sul reale percepimento dello stipendio consequenziale all’entrata in classe la partita rimane aperta.
Molto sarà in mano ai presidi. Perchè, sia pure aggiustato e limato, il caposaldo della riforma rimane l’autonomia scolastica, consegnata in larga parte all’autorità dei dirigenti scolastici.
Un eccessivo accentramento di poteri che non ha convinto nemmeno una fetta del Pd.
Al dirigente scolastico saranno assegnati compiti di direzione, gestione, organizzazione e coordinamento, oltre che di responsabilità nella gestione delle risorse, finanziarie e strumentali, e dei risultati del servizio, nonchè della valorizzazione delle risorse umane.
Insomma, la gestione di tutta la comunità scolastica. Dall’anno prossimo, inoltre, avrà la responsabilità di proporre gli incarichi ai docenti di ruolo assegnati all’ambito territoriale di riferimento.
Una mattinata vissuta alla Camera in un clima surreale.
Solo 277 i sì, con i vertici del Partito democratico che non hanno fatto lavoro di “cammellaggio” dei peones, sicuri di incassare il via libera.
Eppure i quasi 40 voti sotto la maggioranza assoluta spingono i pompieri a gettare acqua sul fuoco prima che divampi l’incendio. Interviene perfino il ministro Stefania Giannini: “Numeri dovuti alle assenze più che al dissenso”.
Dissenso che però c’è stato. Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo non hanno partecipato al voto. Pallottoliere alla mano, altri 37 colleghi hanno disertato il voto come scelta politica, tra cui l’ex capogruppo Roberto Speranza.
Il Movimento 5 stelle annuncia appelli al presidente della Repubblica, la Rete degli studenti iniziative a partire dal primo giorno di scuola.
Se per il Palazzo il caldo di luglio è quello dell’afa romana, a settembre a scottare sarà la protesta.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 9th, 2015 Riccardo Fucile
IN AMERICA CALA DI DUE PUNTI, IN EUROPA CRESCE SOLO AL NORD… E NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO NON CREA BENESSERE
La classe media globale è più piccola e più povera di quanto pensavano gli economisti.
Lo mostra un nuovo studio realizzato dall’istituto Pew Research Center e pubblicato sul Financial Times.
Dalla ricerca emerge il quadro di una prosperità trincerata nelle economie degli Stati Uniti e dell’Europa, e di un mondo molto più diviso rispetto a come era stato descritto in studi precedenti.
Definire il significato di “classe media” — fa notare il FT — è sempre stata un’impresa difficile e fonte di grandi dibattiti tra gli economisti. Le ultime stime avevano quantificato il volume della classe media mondiale a circa due miliardi di persone. Una stima troppo generosa, sentenzia lo studio del Pew Research Center, secondo cui — anche prendendo la definizione più ampia di “classe media” e considerando chi vive con da 10 a 100 dollari al giorno — soltanto 1,7 miliardi di persone possono essere considerate classe media alla fine del primo decennio di questo secolo.
“La classe media globale è più piccola di quel che pensiamo, è meno benestante di ciò che pensiamo, ed è più concentrata dal punto di vista regionale di quanto pensiamo”, ha spiegato al FT Rakesh Kochhar, autore principale dello studio.
A livello globale, nel 2011 (l’ultimo anno di cui sono disponibili tutti i dati) il 71% della popolazione mondiale è ancora classificato come “povero” o “basso reddito”.
Malgrado i grandi cambiamenti registrati in Cina e in altre parti dell’Asia, ci sono stati solo progressi incrementali in ampie parti del mondo in via di sviluppo.
Solo il 16% della popolazione mondiale vive con redditi superiori a ciò che negli Stati Uniti viene considerata soglia di povertà (nel 2011, 15,77 dollari al giorno).
La stragrande maggioranza dei nuclei familiari più benestanti (coloro che vivono con oltre 50 dollari al mese) è concentrata in Nord America e in Europa.
Nel 2011 circa l’87% della popolazione benestante mondiale (redditi alti) viveva in queste due regioni, una percentuale poco inferiore rispetto al 91% registrato nel 2001.
Malgrado la sproporzione rispetto al resto del mondo, anche negli Usa e in Europa (soprattutto nell’area mediterranea) la classe medio-alta ha arrancato nell’ultimo decennio.
In Nord America i redditi alti sono scesi dal 58 al 56% nel 2011, mentre gli avanzamenti registrati in Europa sono concentrati in Paesi come Germania, Danimarca, Norvegia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Islanda e Finlandia.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 9th, 2015 Riccardo Fucile
AL CENTRO DELLA DISCUSSIONE 984 SOTTOSCRIZIONI RITENUTE NON VALIDE… CHIAMPARINO FURIBONDO CON IL PD
Il Piemonte è in bilico. I consiglieri regionali si sentono come all’ultimo giorno di scuola. 
Tra oggi, 9 luglio, e domani i giudici del Tar potrebbero annullare le elezioni del 2014 che portarono Sergio Chiamparino alla guida della Regione.
Lui ha affermato che si dimetterà se lo stallo dovesse continuare, ma intanto porta avanti le attività della giunta regionale e nelle retrovie prepara la sua ricandidatura.
Da più parti invece arrivano inviti a lasciare: glielo chiede il suo predecessore Roberto Cota, l’ex governatore leghista che ha dovuto abbandonare la legislatura con un anno di anticipo per le sentenze della giustizia amministrativa, e glielo chiedono anche gli eletti del Movimento 5 Stelle.
Nelle scorse settimane i magistrati del Tar hanno ricevuto dalla procura di Torino copie dei moduli con le firme a sostegno delle liste elettorali pro-Chiamparino: la lista regionale Chiamparino Presidente, la lista provinciale del Pd e quella Chiamparino per il Piemonte.
Quelle copie sono state messe a disposizione dei legali e così a fine giugno l’avvocato Alberto Caretta, che ha curato il ricorso dell’ex consigliere provinciale leghista Patrizia Borgarello, ha depositato una memoria in cui si dimostrerebbe la presenza di molte più firme false di quelle ipotizzate un anno fa, quando è cominciata questa vicenda giudiziaria.
Sarebbero circa 984 le sottoscrizioni non valide a sostegno del “listino del presidente” e, una volta eliminate, ne rimarrebbero circa 1.300 valide, un numero inferiore alle 1.750 necessarie.
Quindi — secondo i ricorrenti — non ci sarebbero abbastanza firme buone per presentare le candidature del listino principale e così cadrebbero i presupposti per la correttezza dell’elezione.
Per il professore Vittorio Barosio, che difende Chiamparino, non è così: se ci sono delle firme false sono troppo poche per consentire un annullamento dell’elezione.
Nell’udienza di oggi i giudici, presieduti da Lanfranco Balucani, possono entrare nel merito della questione.
Potrebbero farlo in modo relativamente rapido con la “prova di resistenza”: copie dei moduli alla mano, i magistrati potrebbero conteggiare le firme, eliminare quelle false, quantificare quelle valide e vedere se le liste pro Chiamparino restano valide o no. Potrebbero quindi annullare l’elezione spingendo verso nuove elezioni; annullare alcune liste non più valide e di conseguenza adeguare il numero dei consiglieri eletti oppure respingere il ricorso.
In alternativa potrebbero anche rinviare la decisione a un’altra udienza in attesa che un altro procedimento — civile o penale — stabilisca l’autenticità delle firme.
Proprio dal punto di vista penale prosegue l’inchiesta della procura di Torino (pm Patrizia Caputo e Stefano Demontis) che, dopo aver ricevuto al perizia grafologica, indaga su 13 persone, quasi tutti eletti locali o componenti della segreteria del Partito democratico.
I pm vogliono capire chi ha falsificato le firme e le autentiche e presto potrebbero partire nuovi avvisi di garanzia, mentre alcuni indagati potrebbero essere prosciolti.
Al momento la colpa sembra essere tutta interna al Pd, capace di mettersi in difficoltà con le proprie mani, motivo per cui Chiamparino — si apprende dal suo staff — è arrabbiato e deluso proprio dal suo partito.
Il governatore ha annunciato che se l’incertezza dovesse continuare lui si dimetterà per andare a nuove elezioni, mentre se il voto dovesse essere annullato dai giudici “ripensare alla ricandidatura sarebbe più difficile”, sostengono nello staff.
Secondo Cota “la vicenda delle firme per il Pd e per Chiamparino è politicamente insostenibile”, motivo per cui chiede al suo successore di dare subito le dimissioni.
Per il M5s il presidente non è “senza macchia”, nel pasticcio delle firme avrebbe le stesse responsabilità del segretario regionale Pd Davide Gariglio e di quello provinciale Fabrizio Morri e lui non poteva non sapere cosa stava accadendo, motivo per cui “si deve dimettere e non ripresentarsi più”
Andrea Giambartolomei
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 9th, 2015 Riccardo Fucile
RESTA SOLO LA CHIESA A MUOVERSI CONTRO CHI LUCRA, IL PD SI E’ DIMENTICATO
La borsa o la democrazia. Il debito o il voto popolare.
Lo sfondo politico del duello fra Grecia e Bruxelles si ripropone in piccolo fra rubinetti e acquedotti d’Italia.
Diversissime la scala e le conseguenze, certo, ma non dissimile il dilemma: conta più il bilancio o la partecipazione democratica?
È meglio un comune che rispetta la volontà di un referendum aggravandosi però di debiti o un comune che taglia le spese privatizzando i servizi?
È possibile che le amministrazioni locali siano capaci di gestire la cosa pubblica in modo efficiente, o bisogna arrendersi a pensare che tutte le municipalizzate siano solo carrozzoni di sprechi da chiudere al più presto?
Aut aut dalle conseguenze concrete.
Reggio Emilia, la Campania, e le posizioni del governo segnano il quarto anniversario del Referendum sull’acqua sancendo un’ennesima sconfitta per i ventisei milioni di elettori che espressero la loro opinione nel 2011.
Perchè se è vero che i municipi non sono stati costretti a privatizzare, è altrettanto vero che le ultime manovre del consiglio dei ministri premiano i sindaci che fanno cassa dismettendo le società partecipate a favore di agglomerati quotati in borsa.
Si apre così la nuova fase delle battaglie idriche. In cui più delle scelte politiche valgono le “ragioni di bilancio”. Scavalcando anche le convinzioni più assodate.
LA FONTE DI REGGI
L’anniversario del referendum è imploso davanti alle porte della rossa Reggio Emilia.
La città dell’attuale ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio era stata fra le prime ad abbracciare la causa referendaria, seguendo l’onda dei 250mila abitanti della provincia che avevano detto sì alla consultazione del 2011.
Scaduto il contratto con l’affidataria Iren due anni fa, il Comune si era preso una “pausa di riflessione”: fino ad oggi ha prorogato il servizio alla multiutility commissionando studi e ricerche per capire se fosse possibile ri-pubblicizzare il servizio idrico, come voleva il voto popolare.
La risposta degli esperti è stata unanime: sì.
Lo stesso attuale sindaco, Luca Vecchi, in campagna elettorale si era sbilanciato a favore dell’acqua “bene comune”.
Ma ora la giunta si appresta a voltare le spalle alla prospettiva.
«Per noi Reggio Emilia era un modello: negli ultimi anni abbiamo partecipato a consultazioni democratiche, dibattiti, piani economici seri e condivisi», racconta Paolo del Forum nazionale per l’acqua pubblica: «Avevamo la certezza che saremmo andati verso la fine della gestione privata: la fattibilità era stata confermata da più consulenti. Adesso, invece, buttano via tutto questo».
L’ipotesi “ri-pubblicizzazione” infatti sarebbe ormai tramontata nonostante le proteste dei referendari . La scelta definitiva arriverà solo a settembre, e il dibattito consiliare è in corso, ma la giunta vorrebbe piuttosto una gara fra soggetti di mercato o al massimo una società a capitale misto.
«La nostra è una semplice valutazione di concretezza e, credo, di buona amministrazione», risponde Francesco Notari, assessore al bilancio di Reggio Emilia: «Non penso che i cittadini preferiscano una nuova municipalizzata piena di debiti e dal futuro incerto, piuttosto che il servizio che c’è attualmente, e che funziona bene, a costi standard».
I debiti a cui si riferisce l’assessore sono quelli di cui il Comune dovrebbe farsi carico per “comprare” da Iren gli investimenti già effettuati e non ancora ammortizzati nelle bollette.
La stima è di 190 milioni di euro ancora da saldare, a cui andrebbero tolti però 88 milioni di crediti che la stessa città vanta nei confronti della s.p.a.
Insomma, Reggio Emilia dovrebbe sganciare subito 102 milioni di euro a Iren, chiedendo un prestito alle banche o alla Cassa Depositi e Prestiti.
«È vero, le banche si erano dette disponibili. Ed è vero, il servizio idrico è una certezza: a parte i casi di insolvenza o eventuali emergenze, produce un reddito assicurato e costante», ammette l’assessore: «Ma ciò non toglie che ci prenderemmo il peso di milioni di debiti. Senza per questo garantire un servizio migliore».
I PASSI INDIETRO
Per il Forum nazionale è un ritornello questo che si sente anche nel resto d’Italia, dal Lazio a Vicenza: considerazioni economiche scavalcano la “pur forse magari” volontà di cambiare lo status quo a favore della titolarità pubblica della gestione dell’acqua, com’era nello spirito del referendum. Il #cambioverso, dicono gli attivisti, arriva direttamente dal governo, che con una serie di interventi, dalla Legge di Stabilità allo Sblocca Italia, fino alla riforma Madia ancora in discussione, si sarebbe espresso esplicitamente a favore delle grandi multiutility.
Un esempio? I proventi che i sindaci riescono a incassare vendendo quote pubbliche di partecipate a favore dei privati, sono esenti dalla spending review. Sono soldi freschi, da spendere.
«Queste posizioni hanno bloccato le ri-pubblicizzazioni anche là dove erano state avviate, come a Vicenza», continua Paolo: «Siamo di fronte a una massima italiana: cambiare tutto, per non cambiare niente». I referendari non si fermano però, e proseguono la moral suasion verso gli amministratori, citando come caso simbolo sempre Napoli, che ha effettivamente rimesso in mano comunale la gestione dell’acqua.
Una posizione su cui è piovuto da poco anche il sostegno del cardinale Crescenzio Sepe, che in una lettera pastorale dedicata al tema della sete e ispirata dall’Enciclica di Papa Francesco sottolinea alcuni aspetti specifici della questione.
«La corsa ad accaparrarsi le fonti idriche potabili caratterizzerà probabilmente gli scenari delle battaglie del domani», scrive l’arcivescovo di Napoli: «Già oggi molti vorrebbero privatizzarla, scorgendovi un potente fattore di speculazione economica. In questo senso, la trasformazione dell’acqua — da dono per tutti a merce — è uno dei principali motivi di ingiustizia».
CHIAROSCURI CAMPANI
Se il capoluogo brilla però, al quarto anniversario del referendum, non è così per il resto della Campania.
In particolare, per l’area del Sarnese-Vesuviano, dove il servizio idrico è gestito da Gori, una controllata di Acea.
A tutti i residenti della zona, infatti, la Gori aveva inviato centinaia di bollette per recuperare 120 milioni di euro che le sarebbero dovuti essere riconosciuti – a posteriori – in base alle nuove tariffe standard nazionali.
A firmare il via libera alla riscossione era stato l’allora presidente dell’Ente d’ambito, Carlo Sarro, ancora adesso, dopo diverse proroghe, commissario della stessa istituzione (che non è stata sciolta come chiede la legge).
Contro le riscossioni di Gori si sono scatenati però i ricorsi dei residenti ai tribunali amministrativi ed è stata avviato pure un “procedimento sanzionatorio” dall’Autorità garante per l’energia (le indagini sono ancora in corso).
Nel frattempo anche Sarro rischia di scivolare dopo anni di indiscusso potere sugli acquedotti vesuviani: su segnalazione di un deputato del Movimento 5 Stelle, Luigi Gallo, si è mossa infatti l’Autorità anti-corruzione di Raffaele Cantone, che ha stabilità l’incompatibilità fra il ruolo di senatore (Forza Italia) e quello di presidente dell’ente pubblico.
Da cui ora dovrà essere rimosso.
Francesca Sironi
(da “L’Espresso“)
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Luglio 9th, 2015 Riccardo Fucile
LE BANCHE VERSO LA RIORGANIZZAZIONE, AUMENTO DELLE ALIQUOTE IVA
Un piano da 12 miliardi di euro di riforme, da completare nei prossimi due anni: sono le proposte
di Alexis Tsipras che i creditori internazionali dovranno valutare e approvare, per permettere ad Atene di accedere al terzo piano di salvataggio dallo scoppio della crisi.
Secondo quanto riporta il quotidiano ellenico Kathimerini, nel documento che deve arrivare sul tavolo di Bruxelles entro la mezzanotte di oggi ci sono più riforme di quelle pronosticate alla viglia, ma anche un dipinto tragico dell’attuale congiuntura greca: a fronte di una crescita preventivata dello 0,5% – quest’anno – il Pil dovrebbe contrarsi del 3%, a causa delle incertezze e turbolenze degli ultimi tempi.
C’è quindi bisogno di intervenire e le bozze che circolano parlano di misure incisive, mentre si studia la riorganizzazione del sistema bancario, colpito in alcuni casi a morte dalla crisi degli ultimi giorni.
Il piano di riforma per i creditori.
Dopo le aperture lanciate ieri da Tsipras, con il coinvolgimento della riforma delle pensioni, il report citato dal quotidiano ellenico mette nero su bianco che “le misure da 8 miliardi di dollari che la Grecia ha presentato per il 2015 e 2016 devono essere elevate a 12 miliardi”.
Secondo un altro giornale, Naftemporiki, ci sarebbe anche il dettaglio di alcuni interventi previsti: la tassazione per le aziende salirebbe dal 26 al 28%, l’Iva sui beni di lusso dal 10 al 13% (insieme all’aliquota del 23% per gli alimenti, i ristoranti, i trasporti e alcuni servizi sanitari); quella sugli alberghi dal 6,5 al 13%.
Nel disegno, le isole continuerebbero a beneficiare degli sgravi fiscali che per i creditori sarebbero invece da rimuovere.
Gli stessi quotidiani ammettono che questi pacchetti probabilmente incontrerebbeo l’opposizione dell’ala radicale di Syriza, ma Tsipras ha incassato il sostegno della stragrande maggioranza dell’arco parlamentare perchè porti a casa un accordo.
Banche da rifare.
Mentre si studiano le proposte per i creditori, il mondo finanziario si prepara alla ristrutturazione del sistema del credito, che dovrà procedere di pari passo con il salvataggio del Paese.
Come già alcuni analisti facevano notare, e ora confermano fonti europee a Reuters, alcune grandi banche dovranno fondersi tra loro per sopravvivere alla crisi: delle quattro (National Bank of Greece, Eurobank, Piraeus e Alpha Bank) grandi istituzioni ne potrebbero rimanere due.
Sarebbe una misura alla quale si opporrebbe una fiera resistenza in quel di Atene, la per i funzionari Ue “il modello di Cipro potrebbe essere da seguire”: quindi forte intervento nel sistema finanziario in vista, se si considera che a Nicosia delle due banche presenti ne restò una.
Proprio il sistema finanziario è stato nel cuore della crisi greca, con gli istituti in costante cerca di liquidità (garantita solo dalla Bce, che ora ha congelato i rubinetti) e la fuga dei depositi che ha assottigliato il cuscinetto di contante disponibile, nonostante la chiusura forzata degli sportelli e il limite ai prelievi fissato in 60 euro al giorno.
Solo un anno fa, ricorda l’agenzia anglosassone, le banche sembavano esser entrate in una nuova era: avevano rafforzato il capitale e guadagnato di nuovo l’accesso al mercato per finanziarsi.
Ma la crisi di liquidità ha gettato tutto alle ortiche e ogni ristrutturazione ora deve passare per forza di cose da una ricapitalizzazione del sistema, visto che la nuova crescita del credito di cattiva qualità e l’esposizione a un debito pubblico di nuovo a rischio hanno peggiorato sensibilmente i bilanci.
Ora, un’ondata di fusioni sembra improcrastinabile, anche se potrebbe portare malcontento visto che con ogni probabilità significherebbe anche tagli del personale.
(da “La Repubblica“)
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