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IL PM ANTIMAFIA SVIZZERO: “SENZA ITALIANI QUI CHIUDIAMO, I FRONTALIERI SONO INDISPENSABILI”

Settembre 26th, 2016 Riccardo Fucile

BERNASCONI: “REFERENDUM RIDICOLO, SENZA 62.000 LAVORATORI ITALIANI LE IMPRESE TICINESI CHIUDEREBBERO DALLA SERA ALLA MATTINA”… “LA LEGA SI E’ INVENTATA LA PAURA DA SCARICARE SU UN NEMICO IMMAGINARIO”

“Dietro il risultato di questo referendum c’è sicuramente la mancanza di conoscenza delle regole basilari dell’ economia: senza italiani, qui chiudiamo. I frontalieri sono indispensabili”.
Lo dice al Corriere della Sera l’ ex pm antimafia svizzero Paolo Bernasconi commentando l’ esito del referendum in nel Cantone Ticino.
“È in atto uno scollamento tra ciò che fanno i partiti e quello che accade nel mondo dell’ economia”, sottolinea Bernasconi.
“Le imprese ticinesi chiamano ogni giorno dall’ Italia 62 mila lavoratori, senza i quali il sistema manifatturiero, la sanità , il commercio chiuderebbero dalla sera alla mattina. E questi cosa fanno? Votano per rimandarli indietro. La realtà  è che i frontalieri sono indispensabili alla nostra economia”.
“Il Parlamento ha scelto la via della trattativa, degli accordi con l’ Unione Europea, ed è quella corretta. Qui invece prevalgono gli slogan, la faciloneria, l’ illusione che possano esistere soluzioni immediate a problemi complessi”.
“Si tratta di una questione strettamente politica, di un gioco di potere. L’ Udc, la Lega dei Ticinesi stanno tentando di scalzare le èlite economiche rappresentate dai partiti storici e allora devono inventarsi qualcosa. Che cosa? La paura, la paura da scaricare su un nemico a portata di mano. E a questo scopo sono venuti buoni i lavoratori italiani”.
Per Bernasconi comunque la consultazione di ieri non avrà  conseguenze concrete. “Non si riuscirà  ad attuare la norma prima di tutto perchè è incostituzionale”, sottolinea, “introduce delle disparità  tra cittadini e fa prevalere un criterio come la residenza sul merito e le capacità , condizionando la libertà  di scelta delle imprese. Ma soprattutto sarà  la realtà  a imporsi. Sono in contatto con numerosi ceo di società  grandi e piccole, che vivono di export. E sapete cosa mi dicono tutti? Che in Svizzera non c’è abbastanza manodopera, che abbiamo bisogno di lavoratori provenienti dall’ estero”

(da “Huffingtonpost”)

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QUANDO A CRESCERE E’ IL LAVORO DEGLI IMMIGRATI

Settembre 26th, 2016 Riccardo Fucile

PERCHE’ LA CRISI NON E’ UGUALE PER TUTTI

Che negli anni della crisi l’industria abbia perso il 20-25% della sua capacità  produttiva è noto. Che il Pil si sia contratto di circa il 10% è noto. Che gli occupati totali siano diminuiti di oltre 1 milione di unità  è noto.
Meno noto è il fatto che esista un segmento della società  italiana che, negli anni della crisi, si è rafforzato sistematicamente, senza mai perdere un colpo.
Anzi, per essere precisi, questo segmento della società  italiana è in costante espansione dal momento in cui esistono statistiche che lo rilevano con precisione, ossia dal 2004.
Di chi si tratta? Si tratta degli occupati immigrati.
Nel secondo semestre 2008, ossia esattamente 8 anni fa, gli stranieri occupati in Italia erano circa 1 milione e 600 mila
A otto anni esatti di distanza, nel secondo semestre del 2016 (ultimo dato disponibile) sono diventati 2 milioni e 400 mila, ossia il 50% in più
Mentre gli stranieri conquistavano inesorabilmente posti di lavoro, a un ritmo di 100 mila l’anno, gli italiani ne perdevano più di un milione.
Nella fase acuta della crisi, ossia dal 2008 al 2013, i posti di lavoro occupati da italiani si sono ridotti di circa 1 milione e 800 mila unità , salvo risalire in parte la china nel corso degli ultimi due anni.
A oggi il bilancio complessivo 2008-2016 si riassume in due cifre: stranieri, 800 mila posti in più; italiani 1 milione e 200 mila posti in meno.
Queste cifre spiegano molte cose, ad esempio, perchè l’opinione pubblica sia così poco convinta dall’ottimismo ufficiale.
La ragione è che l’opinione pubblica resta costituita soprattutto da italiani (gli stranieri sono meno del 10%), e gli italiani hanno subito una mazzata che le cifre dell’occupazione globale, inflazionate dall’avanzata degli immigrati, non sono in grado di rilevare: se guardiamo alle cifre totali, mancano “solo” 400 mila posti di lavoro per tornare al 2008, ma se guardiamo alle cifre dei soli italiani di posti di lavoro ne mancano più di 1 milione e 200 mila.
Ecco perchè il morale del paese è basso, e le consuete parole di conforto e incitamento sortiscono ben pochi effetti
Ma se il crollo occupazionale degli italiani spiega alcune cose, non è così chiaro come mai gli stranieri abbiano addirittura rafforzato le loro posizioni sul mercato del lavoro.
A me pare che di tali ragioni ve ne siano almeno tre.
La prima è banale: negli ultimi anni il peso degli stranieri nella popolazione si è accresciuto notevolmente, e questo mero fatto non può che aumentare le probabilità  che un posto vacante sia occupato da uno straniero piuttosto che da un italiano.
La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri).
La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere.
Anche se molto si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà  è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro.
In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sè stessi, opinione che scuola e università  si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.
Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero).
E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose.
Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finchè trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni.
Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto — scuola e università  — senza valutarne le conseguenze.
In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata.
Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà  e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto.

Luca Ricolfi
(da “il Sole24ore”)

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LA SQUADRA DI CALCIO SALVATA DAI MIGRANTI

Settembre 26th, 2016 Riccardo Fucile

LA POLISPORTIVA TADASUNI SI ISCRIVE AL CAMPIONATO GRAZIE A SEI RAGAZZI SCAPPATI DALLA GUERRA

L’allenatore è duro con tutti, ma da Saja pretende di più: «Tu sei il più forte, sei il nostro bomber, devi imparare a tirare bene in porta. Finchè non fai rete, tutti noi continuiamo ad allenarci. E se oggi non segni almeno una volta ti toccherà  pagare una multa di cinque euro».
Saja tira cinque o sei volte e alla fine batte il portiere. Esultano tutti: sì, perchè oggi l’allenamento è finito in anticipo, ma soprattutto perchè qui il gol più importante l’ha fatto l’intera squadra.
La prima partita di seconda categoria si disputa la settimana prossima, ma il campionato dell’integrazione l’ha già  vinto Tadasuni, un piccolo paese della Sardegna centrale dove i migranti tengono in vita la storica squadra di calcio.
In rosa ci sono soltanto quattro giovani del posto, gli altri arrivano dai paesi vicini e in sei da molto più lontano. Quattro dal Gambia, uno dalla Guinea e uno dal Ghana. Hanno più o meno tutti la stessa storia: la fuga dalla povertà  e dalla guerra, il sogno di una nuova vita in Europa, la traversata nel deserto e l’avventura in mezzo al mare a bordo di un barchino.
Modou Camara dice di avere 18 anni, è il più promettente tra i nuovi calciatori di Tadasuni ed è sbarcato in Italia solo tre mesi fa: direttamente in Sardegna, da una nave approdata a Cagliari.
Alieu Sanneh è un attaccante, ha 24 anni e pure lui ha lasciato tutta la famiglia in Gambia: «Giocare in questa squadra mi sembra un sogno, quello che sta succedendo qui è tutto bellissimo. Io non voglio più andar via dalla Sardegna, non mi interessa andare in Germania o Francia, vorrei costruire con voi il mio futuro».
I sei calciatori che ancora non parlano bene l’italiano vivono in un campeggio trasformato in centro di accoglienza, una struttura ben organizzata che si trova nelle campagne di Norbello, a una decina di chilometri da Tadasuni.
«Io li ho conosciuti proprio nel campeggio, dove ogni tanto vado a dare una mano ai volontari — racconta l’allenatore Lello Medde — Nella struttura non c’è un campo e i ragazzi giocano a calcio accontentandosi di una porta fatta di pietre. Io ne ho scelti sei e sono sicuro che tra loro ci sia almeno un talento. Ancora non conoscono la tecnica, ma sono i più forti, quelli più carichi. La lingua, per ora, è l’unico problema, ma i ragazzi hanno già  studiato un linguaggio convenzionale, tutto fatto di gesti, così anche gli avversari non ci capiscono».
Da trentacinque anni a questa parte la Polisportiva Tadasuni non ha saltato un campionato. Ma adesso bisogna fare i conti con lo spopolamento. I giovani vanno lontano per studiare e cercare lavoro e nei piccoli centri del Barigadu molte case si stanno svuotando.
Alla periferia di Tadasuni, dietro una collina tutta verde, c’è un bel campo sportivo, spogliatoi puliti e ordinati e persino una tribuna coperta dalla quale si vede il lago Omodeo.
Il calcio è una passione condivisa, ma il presidente della polisportiva Savino Miscali si è trovato ad affrontare un problema inedito: mettere insieme i giovani necessari per formare la squadra.
E così anche il sindaco Mauro Porcu, l’assessore ai lavori pubblici Pierpaolo Oppo e un consigliere comunale scenderanno in campo ogni domenica.
«I sei ragazzi africani ci aiutano a portare avanti la nostra passione per lo sport — dice il presidente Miscali —. Noi siamo ben felici di accoglierli, sia perchè la squadra potrà  avere un futuro anche grazie a loro e sia perchè l’integrazione è uno dei valori più importanti dello sport. Certo, non possiamo dar loro neanche un centesimo, ma assicuriamo scarpe, abbigliamento e tantissimi sorrisi».

Nicola Pinna
(da “la Stampa”)

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IL SURPLUS COMMERCIALE TEDESCO E L’EQUILIBRIO DELL’EURO

Settembre 26th, 2016 Riccardo Fucile

SUPERA I 300 MILIARDI DI EURO L’ANNO: PER ALCUNI E’ UNA VIRTU’, PER ALTRI UNA PROVA DI COLPEVOLEZZA

La tecnica migliore per complicare un problema economico è sempre farne un totem politico. Dopo il debito greco, l’ultimo caso del genere sta diventando il surplus delle partite correnti della Germania che ormai supera i 300 miliardi di euro l’anno e vale quasi il 9% del reddito nazionale.
Per alcuni è la misura di una virtù, per altri una prova di colpevolezza
Ha più senso vedere di che si tratta in concreto.
Ogni anno, la Germania registra un attivo crescente nei suoi scambi di beni o servizi e interessi o dividendi con il resto del mondo.
Ormai è così vasto, in proporzione all’economia, da superare quelli di produttori di petrolio come la Norvegia; la differenza è che la Germania non estrae niente dal sottosuolo, ma produce beni per i quali il resto del mondo è disposto a pagare circa mille miliardi di euro l’anno.
Si tratta di una somma così grande che le imprese, lo Stato e i cittadini tedeschi non riescono a trasformarla in consumi e investimenti produttivi. Preferiscono la liquidità , dunque il risparmio inerte continua ad accumularsi
Al resto del mondo questa parsimonia sembra incomprensibile, perchè anche in Germania le ragioni per spendere non mancherebbero.
Dal 2008 gli investimenti sono calati di quasi cento miliardi l’anno, fino a quote ormai degne dell’Italia.
Dal 2010 l’incidenza della spesa delle famiglie in proporzione al reddito nazionale è precipitata di cinque punti. E il governo dovrebbe rinnovare migliaia di strade o ponti e finanziare lo smantellamento di 17 centrali nucleari, eppure non lo fa pur di conservare un (lieve) avanzo di bilancio
La Germania dipende così tanto dall’export che i suoi interessi finiranno per allinearsi di fatto a quelli dei suoi grandi Paesi-clienti come la Cina o la Russia, anzichè al resto d’Europa.
È qui che la discussione diventa politica.
Il premier Matteo Renzi vede in quel surplus l’origine della stagnazione della zona euro, perchè la prima economia dell’area approfitta della disponibilità  a spendere del resto del mondo, ma la intrappola e non la rimette in circolo.
La cancelliera Angela Merkel, gli risponde che di questo surplus i tedeschi sono «anche un po’ orgogliosi», perchè vi vedono un simbolo della loro efficienza.
Forse, più semplicemente, la Germania è incapace di gestirlo perchè quello che oggi sembra a tutti un clichè nazionale è invece un vero e proprio inedito.
Avanzi (e disavanzi) tedeschi con il resto del mondo erano stati relativamente più limitati per decenni, prima che la bilancia delle partite correnti iniziasse a esplodere dal 2003 fino ai livelli parossistici di oggi
Questi sono squilibri recenti e la loro spiegazione è tanto semplice quanto parlarne nella buona società  europea è tabù: il tasso di cambio è completamente sbagliato.
È come se il prezzo di tutta la competenza e la laboriosità  dei tedeschi fosse tenuto artificialmente troppo basso e dunque essi non riuscissero a star dietro alla domanda per i loro stessi prodotti.
L’Fmi stima che la Germania dovrebbe operare con una moneta di almeno il 15% più forte (Italia e la Francia invece del 10% più debole), ma anche persino sembra una visione caritatevole.
Probabilmente lo squilibrio è anche più profondo. L’economia tedesca sviluppava enormi surplus anche negli anni scorsi quando l’euro era del 20% più forte, dunque è probabile il suo tasso di cambio di equilibrio sia davvero parecchio sopra a dov’è oggi
Stime simili (in senso inverso) valgono per l’Italia o per la Francia, ma la soluzione non può essere la rottura dell’euro come alcuni propongono. I suoi costi sarebbero colossali per i singoli Paesi e per il progetto europeo, che resta un successo vitale degli ultimi 60 anni.
Questa vicenda dimostra semmai quanto fosse irrealistico uno dei presupposti intellettuali della moneta unica.
Molti dei suoi architetti pensavano che sarebbe bastato fissare un vincolo macroeconomico – il tasso di cambio – perchè i Paesi da esso accomunati attenuassero loro differenze.
È stata una tragica sottovalutazione di come le strutture sociali, gli interessi di categoria e secoli di cultura non si lasciano rimodellare in pochi anni da una sola variabile macroeconomica.
Nel tessuto delle comunità  nazionali, milioni di soggetti preferiscono rischiare lo strangolamento del sistema europeo e del proprio Paese piuttosto di concedere anche solo un po’ terreno. In Germania, come in Italia
Perciò è così pericoloso che i leader dei grandi Paesi dell’area continuino a governare le proprie economie come se fossero avulse dall’equilibrio generale dell’euro. Anche qui in Germania, come in Italia.
Il loro comportamento ricorda la guerra di dazi degli anni 30: allora ogni governo cercava di reagire alle difficoltà  proteggendo i propri produttori, senza capire che così collettivamente tutti insieme distruggevano l’economia globale e i propri stessi Paesi
C’è da capire questi politici, perchè le loro responsabilità  sono europee ma il loro mercato del consenso resta nazionale. Vincono o perdono in casa propria.
Ora Merkel sta cercando di stimare a che tipo di vittoria andrebbe incontro, prima di decidere se ripresentarsi alle elezioni tra un anno: dopo tre mandati, non vuole diventare un’anatra zoppa.
Ma passata la stagione delle urne in Italia, Francia e Germania, fra un anno potrebbe aprirsi lo spazio per una fase di governo collettivo più illuminato per l’area euro. Potrebbe essere l’ultima.

Federico Fubini
(da “il Corriere della Sera“)

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