Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
ULTIMA NOTTE DI RIFLESSIONE PER MATTARELLA… RENZI ACCELERA ANCORA: LUNEDI DIREZIONE PD, POI AVANTI CON IL CONGRESSO
Chiudere le stalle prima che i buoi scappino.
E’ il mantra che, al termine di un’altra giornata convulsa di trattative sul nuovo governo, porta Matteo Renzi a convocare la direzione nazionale del Pd per lunedì alle 12.
Obiettivo: ottenere l’ok del partito sul nome di Paolo Gentiloni per Palazzo Chigi. Renzi spera che domattina Mattarella convochi Gentiloni per affidargli l’incarico di governo in vista di una possibile fiducia mercoledì, ma dal Colle non gli danno certezza.
Anzi, dal Quirinale lasciano trapelare che l’ipotesi reincarico, prima scelta del presidente, non è tramontata del tutto.
La delegazione del Pd infatti non ha indicato nomi a Mattarella, nelle consultazioni del pomeriggio. Si è rimessa nelle mani del capo dello Stato e non ha nemmeno specificato che un Renzi bis non esiste.
Ecco quindi che alla vigilia della scelta, Mattarella aspetta che Renzi sciolga i nodi. Insomma che sia lui a chiarigli che il reincarico è ipotesi politicamente morta. Finora Renzi non l’ha fatto. Anzi, una parte dei suoi fedelissimi – quella che fa capo a Luca Lotti – non si è ancora rassegnata al fatto che Renzi lasci Palazzo Chigi.
E questo, insieme all’incertezza sul voto anticipato a primavera, induce Renzi a lasciare aperta una piccola finestra, anzi una piccola fessura, sull’ipotesi del reincarico. Tra stanotte e domani dovrà sciogliere il nodo con Mattarella.
Che a quel punto potrebbe quindi procedere ad assegnare l’incarico al nome indicato da Renzi: Gentiloni.
Per Renzi è quasi un rompicapo. Vuole la certezza del voto in primavera, ma nessuno può metterla per iscritto.
E il fidatissimo Gentiloni è la sua migliore garanzia finora. Nella sua testa la fessura del reincarico l’ha chiusa da un pezzo. Tanto da convocare la direzione del Pd lunedì. Ancora una volta una fuga in avanti. Obiettivo: mettere in sicurezza le intese prima che gli altri abbiano il tempo di organizzarsi.
Dall’inizio di questa crisi Renzi ha giocato sul tempo: accelerare laddove gli altri non sono pronti. E’ l’unica arma che ha a disposizione. E finora gli sta tornando utile.
Su Gentiloni premier ha avuto l’ok della sua maggioranza nel partito, dai renzianissimi naturalmente, ai Giovani Turchi e Areadem di Dario Franceschini.
Ma a sera non è chiuso l’accordo sui ministeri. Renzi punta a cambiare il meno possibile.
Dovrebbero uscire Giannini e forse anche Poletti. Confermati tutti gli altri, a parte gli Esteri da riempire se Gentiloni diventa premier. Caso a parte: Maria Elena Boschi. Renzi la ha detto di scegliere se restare o meno. Lei propenderebbe per la seconda ipotesi: lasciare e fare la deputata semplice.
Per Renzi questo governo dovrebbe durare tre mesi e poi alle urne.
Non avrebbe senso dargli maggiore peso, non avrebbe senso farne nascere uno completamente nuovo e magari con l’ingresso di pezzi da novanta del Pd. Tipo Piero Fassino.
L’ex sindaco di Torino, appena sconfitto dal M5s alle scorse comunali, ex ambasciatore dell’Ue in Birmania e co-fondatore di Areadem è la scelta di Franceschini per gli Esteri, casella da riempire se Gentiloni diventa premier.
Renzi però non ne è convinto. Vorrebbe una successione interna: Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina dall’aprile scorso. Vorrebbe che questo governo sia il più leggero possibile per andare al voto in primavera.
Mattarella invece non ha in mente lo stesso timing. Anzi: la sua prima scelta era il reincarico a Renzi. Ipotesi messa da parte, perchè il segretario del Pd lascia trapelare di non essere disponibile.
E ci sta che in queste ore il capo dello Stato sia una sfinge con il Pd. Non ha gradito le fughe di notizie sul nuovo governo prima che lui finisse le sue consultazioni. Nè le consultazioni di Renzi a Palazzo Chigi e non alla sede del Pd: in fondo Renzi ora è un premier dimissionario e segretario del Pd. Il Nazareno sarebbe la sede più consona per ricevere gli interlocutori Dem.
Ad ogni modo, nella sua breve comunicazione al termine delle consultazioni, il presidente ha parlato dell’urgenza di avere un governo al più presto.
E questo alimenta le speranze della maggioranza dei renziani che domattina sia chiamato al Colle Gentiloni, senza ulteriori perdite di tempo, ora che tutte le opposizioni si sono chiamate fuori ed è caduta la proposta iniziale del Pd di governo di tutti o voto.
E’ caduto il governo di tutti e anche il voto. Ma Renzi ora gioca a tenere in caldo l’opzione voto in primavera. Intanto per Palazzo Chigi ha scelto un successore fidatissimo. Il resto sarà battaglia, anche nel Pd: tra chi vuole tornare alle urne e sciogliere le camere in primavera (Renzi e i suoi) e chi non ha questa urgenza e arriverebbe anche a scadenza naturale nel 2018, se necessario (il resto del Pd, appoggiato da Mattarella).
Intanto lunedì, quando ancora tutto è in corsa, quando Gentiloni sarà impegnato nelle trattative sulla squadra di governo — così si immagina Renzi – il segretario chiamerà la direzione nazionale a dire sì.
Al Nazareno la proposta sarà rivista e corretta alla luce degli ultimi sviluppi: non più governo di tutti o voto ma governo con la maggioranza attuale.
E’ la seconda convocazione della direzione in questa crisi di governo. Del resto Renzi aveva chiesto una convocazione permanente per gli aggiornamenti necessari.
Ma a differenza di mercoledì scorso, domani la relazione del segretario sarà seguita dal dibattito. Il Pd comincerà ad analizzare la sconfitta, la minoranza potrà dire la sua anche sul nuovo governo. Ma con un esecutivo ancora da formare e la crisi di Mps che segna il passo dell’emergenza, sarà difficile che la direzione di domani si trasformi già in una resa dei conti.
Ed è questa l’altra scommessa di Renzi. Poi da domenica 18 lancerà il percorso del congresso, in assemblea nazionale.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
MATTARELLA: “PRESTO UN GOVERNO CON FUNZIONI PIENE”
La crisi di governo finirà “in tempi brevi“, ma Mattarella se la dovrà risolvere da solo. Il Pd,
infatti, va al Quirinale, per l’ultima consultazione di una maratona di 26 colloqui al Colle, e non indica nessuna rosa di nomi tra i quali scegliere il futuro capo del governo.
E infatti Luigi Zanda, che guida la delegazione dei democratici, appena uscito dall’ufficio del capo dello Stato dice che il Pd “assicura al capo dello Stato tutto il sostegno alla soluzione della crisi che riterrà più opportuna”.
In sostanza: presidente, faccia lei.
Una scelta, quella della delegazione dei democratici, che ha suscitato “stupore e sorpresa” del presidente della Repubblica, così come riferiscono fonti al Fatto Quotidiano.
Così, infatti, da una parte Mattarella si ritrova costretto, da garante, a prendersi la responsabilità di indicare un nome per un governo non di unità nazionale, ma politico. E dall’altra fa emergere il comportamento contraddittorio del Pd, visto che oggi il presidente dimissionario e segretario del partito ha incontrato a Palazzo Chigi 7 ministri (alcuni dei quali a più riprese) e per due ore la delegazione che poi è stata ricevuta, come ultima, dal presidente della Repubblica.
Di quella delegazione, peraltro, facevano parte i capigruppo, il vicesegretario Lorenzo Guerini e il presidente del partito, Matteo Orfini.
Eppure i quattro — che rappresentavano la maggioranza dei parlamentari di Camera e Senato — sono riusciti a presentarsi da Mattarella senza un solo nome, nemmeno quello di Paolo Gentiloni che da giorni rimbalza sulle pagine dei giornali.
Da un lato questa scelta può essere letta come un gesto di rispetto istituzionale, ma dall’altra non si può non notare una volontà politica che risale ai vertici del Partito Democratico.
“Sarà il presidente della Repubblica a decidere il nuovo presidente del Consiglio — ha ribadito Zanda a La7 — Noi abbiamo illustrato la linea emersa dalla direzione del Pd e preso atto del l’impossibilità di portarla avanti per la contrarietà delle opposizioni”. Sembra trasparire la volontà che Renzi aveva espresso nel suo discorso subito la sconfitta elettorale del referendum, domenica sera.
Cioè far rimbalzare la palla della responsabilità nel campo del “fronte del No”, ovvero delle opposizioni.
La direzione del Pd aveva detto: o responsabilità nazionale o voto.
Ma il voto è impossibile perchè non c’è legge elettorale. E la responsabilità nazionale non esiste perchè la posizione di Cinquestelle, Lega e Sinistra Italiana è nota a tutti, mentre Forza Italia ha ufficializzato oggi, per bocca di Silvio Berlusconi, che non parteciperà a un “riallargamento” della maggioranza.
La strada tracciata da Mattarella, comunque, ha contorni ben definiti. Il nuovo governo, dice, “nella pienezza delle funzioni“, perchè ci sono “di fronte a noi adempimenti, impegni, scadenze che vanno affrontati e rispettati“.
Quindi non si può pensare nè di tenere in vita un governo dimissionario, una specie di zombie, nè di sciogliere le Camere e andare subito alle elezioni perchè è “indispensabile” mettere mano alla legge elettorale per una “armonizzazione” dei sistemi di Camera e Senato.
In questo caso il messaggio (sul “governo con pieni poteri” e sulla legge elettorale “indispensabile”) è diretto in particolare verso il M5s e la Lega Nord che avevano chiesto elezioni subito, ad ogni costo.
Mattarella, stando a quanto emerso finora, ha un ventaglio di 3-4 opzioni in mano e molti elementi portano verso l’incarico al ministro degli Esteri uscente, Paolo Gentiloni.
Sullo sfondo peraltro c’è la serie di “consultazioni parallele” dello stesso presidente del Consiglio, inteso come quello uscente. Renzi durante la giornata ha visto più volte Franceschini, ma anche Orlando, Padoan, Calenda, Martina, Boschi e perfino Alfano. Per due ore ha conversato con i quattro della delegazione del Pd.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
IL TECNICO FU ASSASSINATO IN LIBIA NOVE MESI FA… LA DOMANDA PER LA PENSIONE DOVUTA PER LEGGE AI PARENTI DELLE VITTIME DEL TERRORISMO E’ STATA RESPINTA PER CARENZA DI DOCUMENTAZIONE
C’è una sola domanda possibile, dopo aver appreso la storia di Rosalba Castro, vedova di Salvatore Failla, il tecnico italiano assassinato in Libia nove mesi fa.
Che Stato è quello che permette al gorgo della burocrazia di inghiottire pure i parenti delle vittime del terrorismo?
Rosalba Castro è una donna siciliana di gran carattere, che non ha paura di esprimere opinioni scomode.
Lo ha fatto a più riprese accusando le autorità italiane di opacità nella triste vicenda, e può a ragione dire di sentirsi abbandonata.
Un mese fa l’Inps gli ha respinto la domanda per accedere alla pensione garantita per legge ai familiari delle vittime del terrorismo presentata quasi sei mesi prima.
Il motivo: il morto c’è e questo non si può negare, ma la documentazione è carente. Manca un certificato della prefettura di Siracusa, e un’autocertificazione non è accettabile. A scanso di equivoci il direttore dell’Inps di Lentini, Salvatore Garofalo, precisa che è possibile fare ricorso entro 90 giorni.
Anche online: evviva la modernità .
Non resta allora che insistere per avere quel benedetto certificato attestante la condizione di «familiare superstite di vittima del terrorismo».
Ma il documento non arriva. Il perchè lo comunica la medesima prefettura di Siracusa a Rosalba Castro il 6 dicembre: il rilascio è subordinato al decreto ministeriale di concessione della pensione.
E siccome «il procedimento amministrativo è ancora in corso di svolgimento», ecco che «questo ufficio non può al momento rilasciare l’attestazione richiesta». Ricapitoliamo: prima deve arrivare la pensione, e solo dopo è possibile avere il documento che serve per ottenerla.
Sembra il Comma 22 del film di Mike Nichols: «Chi è pazzo può essere esentato dalle missioni, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo».
Peccato che questo non sia un film.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
L’IDEOLOGO CINQUESTELLE CHE HA ROTTO CON GRILLO E SI E’ AVVICINATO ALLA LEGA: “CON IL PROPORZIONALE IL M5S AVRA’ BISOGNO DI ALLEATI, CON LA LEGA HA MOLTI PUNTI IN COMUNE”
«Larghe intese Lega-Cinquestelle? Non è fantascienza. Ma si vedrà solo dopo le elezioni, perchè
l’unica cosa che interessa al Movimento è misurare le forze».
In qualche senso, Paolo Becchi ha anticipato la tendenza: il professore genovese di filosofia del diritto, un tempo considerato “ideologo” del Movimento cinque stelle, negli ultimi mesi ha rotto con Beppe Grillo e si è avvicinato a Lega e Fratelli d’Italia (ha partecipato alla manifestazione di Salvini a Firenze per il “no” al referendum).
Professore, Salvini e Grillo potrebbero mai essere alleati?
«I punti di contatto sarebbero molteplici: l’opposizione all’euro e all’Unione, la sintonia con la Russia, il rifiuto dell’immigrazione, la retorica anti-sistema. Oggi sembra fantasia, perchè il Movimento è un partito in cui la linea cambia a seconda dell’opportunismo del giorno. L’unica cosa che interessa a Grillo oggi è misurare le forze, votare e andare da soli. Ma dopo, ad esempio se si votasse con il proporzionale e Di Maio fosse incaricato di trovare una maggioranza per poter governare, comincerebbe proprio dalla Lega. Quanto a Salvini, lui ha già provato a dialogare, ma si è beccato in risposta solo dei vaffanculo».
Forse è proprio per evitare alleanze che il M5S vuole votare con l’Italicum?
«Ci dimentichiamo che per Grillo sino a ieri era una legge fascista? È puro opportunismo. Come il referendum sull’Euro: hanno raccolto le firme, ora lo portano avanti o no? L’unica cosa inaccettabile, dopo il grande segnale del referendum, sarebbe un altro governo Pd formato da gente eletta con una legge incostituzionale. Per questo sulla legge elettorale io farei l’opposto: si porti il Consultellum anche alla Camera ».
Così sarebbero quasi certe le «grandi coalizioni» dopo le elezioni.
«E allora? Quando l’Italia funzionava c’erano sempre le grandi coalizioni intorno alla Dc. Erano meglio i governi balneari di quelli dei tecnici. L’idea del “partito unico” al comando è una cosa degli ultimi anni».
(da “la Repubblica”)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
DATI EUROSTAT: LA PAGA MEDIA ORARIA E’ DI 12,5 EURO CONTRO I 14,9 DELLA FRANCIA
Se la ripresa non decolla la colpa è anche degli stipendi che in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale. P
eggio fanno solo Spagna e Portogallo che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto.
A mettere i numeri nero su bianco è Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, che in un recente report ha fatto il punto sulle retribuzione del Vecchio continente.
La paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro: all’interno dell’Unione europea la media si attesa a 13,2 euro l’ora, ma il dato è condizionato dai bassi salari dei Paesi dell’est entrati nella Ue dopo il 2004.
Basti pensare, per esempio, che in Bulgaria il salario orario si ferma a 1,7 euro e in Romania arriva a 2 euro: in entrambi i Paesi, però, il potere d’acquisto è più alto.
Insomma l’Italia resta il fanalino di coda del Vecchio continente condannata a guardare da lontana la ricca Germania, i paesi scandinavi e persino la vicina Francia dove gli stipendi medi arrivano a 14,9 euro.
E’ quindi solo una magra consolazione il fatto che lungo la Penisola gli stipendi bassi non siano così tanti rispetto alla media.
Sempre secondo Eurostat i lavoratori italiani a basso reddito sono “solo” il 9,4%: si tratta dei dipendenti con un salario orario inferiore ai due terzi della paga oraria.
La percentuale italiana è la più bassa della zona euro dopo Francia (8,8%), Finlandia (5,3%) e Belgio (3,8%), mentre la media continentale è al 17,2%.
Il semplice dato può anche sembrare positivo lasciando intendere che in Italia non ci siano troppe disuguaglianze sul fronte degli stipendi.
Il problema, tuttavia, c’è ed è evidente: la soglia del basso reddito lungo la Penisola è inferiore a tutte le altre economie comparabili: siamo a 8,3 euro all’ora in Italia, 10 euro in Francia, 10,5 euro in Germania, 13,4 in Irlanda, 9,9 nel Regno Unito, 10,7 in Olanda e 17 in Danimarca.
Si scende a 6,6 euro in Spagna, poi è bassissima in Bulgaria (1,1) euro, Romania (1,4 euro), Portogallo (3,4), Slovacchia (2,9), Lettonia e Lituania (2,2), ma sono tutti Paesi che vantano un più alto potere d’acquisto.
A livello assoluto, invece, rimangono pronfonde differenze: il 21,1% delle donne è a basso reddito, contro il 13,5% degli uomini.
Inoltre, quasi un uno su tre (30,1%) degli under-30 rientra nella categoria, mentre tra 30 e 59 anni vi ricadono solo quattordici dipendenti su cento.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
L’ESSERSI ESPOSTO A FAVORE DEL NO INSIEME A SALVINI HA OTTENUTO IL RISULTATO OPPOSTO: DUE SUOI ELETTORI SU TRE GLI HANNO VOLTATO LE SPALLE
Fino alle elezioni Politiche del 2013 si è spesso sostenuto che il sistema politico italiano fosse un sistema stabile, caratterizzato da un’assenza di mutamenti nei rapporti di forza fra i partiti e da un elevato tasso di fedeltà all’appartenenza politica. Da quel momento in poi, come se avessero premuto insieme i tasti Ctrl+Alt+Canc, gli elettori hanno iniziato a essere sempre più mobili, a perdere persino quella “fedeltà leggera” che il sociologo Paolo Natale aveva riscontrato agli inizi del terzo millennio.
Si è passati, poi, alle Europee del 2014 e alle Regionali del 2015, appuntamenti elettorali a forte carica emotiva, gravati dagli scontri interni al Partito Democratico, alle tensioni mai sopite della crisi economica e alle altalenanti ondate di protesta contro la classe politica.
Ed è arrivato il referendum del 4 dicembre.
I risultati li abbiamo analizzati da mille punti di vista. Meno chiari, invece, erano i flussi di voto.
Ci chiedevamo, infatti, come avessero votato gli elettori del Pd, quelli di Forza Italia, del Movimento 5 Stelle o quale posizione avessero preso gli astenuti.
Mettendo a confronto i risultati per sezione della tornata referendaria con quelli delle Regionali del 2015 (per prossimità temporale e per “intensità ” dello scontro) possiamo rilevare alcune informazioni.
Se osserviamo i dati appare chiaro come esista una divisione netta tra chi, nel 2015 ha votato per Alice Salvatore (quindi M5S) e chi ha votato per Toti (Forza Italia, Fdi e Lega) o per la Paita (Pd)
Nello specifico, l’87,4% degli elettori pentastellati è andato a votare e ha preferito il No (mentre il restante 12,6% si è orientato verso il non voto).
Gli elettori di Paita hanno preferito il Sì nel 77,6% dei casi (dato in linea con quello nazionale)
La sopresa viene dal 63,7% di elettori di Toti che hanno votato Sì, considerando quando Toti e Salvini si siano spesi , in apparizioni anche congiunte, per il No anche in Liguria.
Il che dimostra lo scarso appeal del governatore ligure in un territorio dove fa solo disastri, riuscendo a portare a votare per il Si tre volte la percentuale nazionale di “dissidenti” dalle indicazioni dei vertici del centrodestra.
Il Gabibbo bianco ha colpito ancora.
(da “il Secolo XIX”)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
CONGRESSO SUBITO E CONVOCA L’ASSEMBLEA NAZIONALE
“Chiusa la partita-governo, partirà l’operazione-partito». Matteo Renzi lo va ripetendo
nonostante le ore convulse a Palazzo Chigi. In un Pd lacerato e confuso, sotto schiaffo per le divisioni tra il Sì e il No sul referendum costituzionale, è saltato il gioco delle parti: non è la sinistra dem a fare pressing per una resa dei conti nel congresso anticipato, ma è lo stesso Renzi a giocare in contropiede.
E convoca l’Assemblea dei mille, il “parlamento” del partito, tra una settimana, il 18 dicembre.
Lì Renzi si presenterà con una proposta per il congresso subito, a marzo-aprile.
Si dichiarerà stabilmente in sella per traghettare il Pd a congresso
Del resto il rimescolamento tra i democratici è totale.
Decisivo per Renzi è il rapporto con Dario Franceschini, il ministro dei Beni culturali con cui i rapporti sono diventati tesi negli ultimi mesi, e che resta tuttavia l’azionista di maggioranza del cosiddetto PdR, il Pd di Renzi.
Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, un tempo lettiano («Ma le vecchie correnti non esistono più») fa partire il tam tam sul congresso senza porre tempo di mezzo: «Ce lo chiedono gli iscritti, i militanti, il congresso va fatto e subito: è l’unica chance in un Pd lacerato».
Boccia si definisce un «apolide» che insieme agli altri «apolidi dem», cioè democratici senza corrente, è in cerca di un candidato per le primarie prossime
Tutti a caccia dello sfidante di Renzi.
Per gli “apolidi” come Boccia, in pole position c’è Michele Emiliano, governatore della Puglia, che al referendum ha votato No, ma non ha fatto campagna elettorale contro il Pd renziano: un candidato segretario gradito alla sinistra e che sfonda anche a destra.
«I cavalli da corsa si schiereranno quando il congresso sarà fissato», è l’altra riflessione di Boccia. Emiliano ieri dichiara: «Se vuole gestire la transizione verso il congresso, Renzi dovrebbe dimettersi da segretario».
Poi precisa che l’importante è avviare il congresso, se «Renzi vuole guidare la transizione fino al prossimo congresso lo fa, se no ci sono i due vice segretari, non cambia niente»
Roberto Speranza, leader della sinistra bersaniana che si è impegnata per il No, è il candidato in pectore più quotato della sinistra dem.
Non è ancora una candidatura ufficiale. Continua a non confermare: «Certo congresso presto, perchè è urgente parlare del partito. Ma noi siamo concentrati sull’iniziativa del 17 dicembre a Roma».
Argomento: «Un nuovo Pd per ricostruire il centrosinistra. E restiamo a questo».
Il 19, poi, manifestazione dell’altra sinistra dem, quella di Gianni Cuperlo, reduce dal Sì al referendum, a Bologna: ci saranno il sindaco Virginio Merola, Andrea De Maria, Sandra Zampa e Giuliano Pisapia, l’ex sindaco di Milano che si propone di federare la sinistra.
Tempo di riposizionamenti. Ma anche gara tra “renziani” e “renzisti” – definizioni coniate da Arturo Parisi, il padre con Prodi dell’Ulivo – per distinguere tra i “ragionevoli” Graziano Delrio, Matteo Richetti (renziani) e gli “ultrà ” Luca Lotti e Francesco Bonifazi.
A sorpresa una critica nei confronti di Renzi la fa Vincenzo De Luca, il governatore della Campania che ha sollevato un putiferio per l’invito agli amministratori dem di fare di tutto, «anche offrire una frittura», pur di convincere al Sì.
Dichiara ora, De Luca: «Un apprezzamento va a Agnese Renzi, è meglio del marito, senza che Renzi se la prenda: su di lui hanno pesato certi atteggiamenti di esuberanza e strafottenza giovanili».
Nelle grandi manovre verso il congresso in molti sondano lo spazio di una candidatura. Andrea Orlando è tentato, ma molti nella sua corrente, quella dei “turchi”, gli consigliano di trovare un accordo con Renzi.
Giovanna Casadio
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 10th, 2016 Riccardo Fucile
E’ ARRIVATO TERZO ALLE PRIMARIE DI ROMA, FIGURA IDEALE PER NON FARE OMBRA ALL’EX PREMIER CHE PUNTA ALLA RICONQUISTA ELETTORALE DI PALAZZO CHIGI
Caligola nominò senatore il suo cavallo per denigrare l’istituzione. Più modestamente, Matteo Renzi sceglie invece Paolo Gentiloni, il quale l’ultima volta che si è candidato a qualcosa è arrivato addirittura terzo alle primarie di Roma, battuto da Ignazio Marino e David Sassoli, come suo successore a Palazzo Chigi.
E così ieri, dopo aver digerito la sconfitta più dura (quella al torneo di Playstation del giorno prima), Renzi, che aveva mollato tutto durante le consultazioni, è tornato per ricordare a tutti cos’è cos’è che fa andare la filanda.
E così la soluzione alla crisi politica pare ormai ristretta a due possibilità : un reincarico a Renzi o l’approdo di Gentiloni a Palazzo Chigi, con Pier Carlo Padoan e Graziano Delrio come carte di riserva.
Di certo così le elezioni si allontanano, com’era prevedibile, visto che un governo in carica e nei suoi pieni poteri con la missione di fare la legge elettorale oltre che di sbrigare gli affari interni più scottanti (il Monte dei Paschi di Siena) e gli appuntamenti internazionali. Gentiloni non verrà ovviamente sostenuto dagli altri partiti, anche se Renzi aveva detto che avrebbe accettato un nuovo governo invece delle urne se non fosse stato appoggiato dalle altre forze politiche.
Anche questa era una balla e lo si capiva sin dall’inizio ma è diventato certo con la scelta di mandare a Palazzo Chigi un suo fedelissimo (Gentiloni) ma non troppo bravo (Delrio) visto che altrimenti avrebbe rischiato di essere oscurato.
La soluzione fa non felice ma felicissimo Luca Lotti insieme al Giglio Magico, che adesso ha una grossa chance di rimanere alla presidenza del Consiglio come sottosegretario, non smantellando nemmeno lo staff che ha portato il governo Renzi ai trionfi elettorali di questi ultimi due anni.
Garanzia di qualità . Last but not least, la soluzione permetterebbe anche di “preservare gli equilibri delicati e strategici delle partecipate di Stato, da Eni a a Finmeccanica, sino ad Enel: per moltissime aziende i vertici scadono in primavera, in questo modo potrebbero essere riconfermati o cambiati con una supervisione dell’ex premier”, come ricorda oggi il Corriere della Sera.
Ieri a Otto e 1/2 Paolo Mieli metteva in guardia Renzi dal pericolo di ascoltare i consigli di chi aveva molto da perdere (ovvero, tutto il potere guadagnato con una nomina) dall’ipotesi di fare finta di nulla. E proprio Francesco Verderami sul Corriere ci racconta che il Talleyrand di Renzi alla fine ha mandato giù il boccone amaro di Gentiloni nonostante la sua idea fosse quella di lasciare tutto com’è, con Renzi a Palazzo Chigi per tre mesi e le elezioni subito
Lotti è stato l’uomo del «me la vedo io», «aggiusto io», e soprattutto del «con Matteo ci parlo io».
In un sistema di check and balance si è occupato dei servizi nonostante quel ruolo sia di Minniti, si è interessato di infrastrutture nonostante lì ci sia Delrio, ha disbrigato nel partito nonostante lì ci sia Guerini, e si è occupato di banche perchè ritiene che lì non ci sia nessuno.
Se resterà a Palazzo Chigi senza Renzi, è perchè di Renzi rappresenta l’essenza.
Il leader, che voleva occuparsi di tutto, non riuscendoci si era fatto trino: a Lotti aveva affidato la gestione degli affari di governo, alla Boschi il ruolo di ambasciatrice del governo. Ruolo che lascerà , perchè le riforme non ci sono più. E non c’è più neanche il governo.
All’indomani del voto referendario, mentre Lotti spingeva per «ripartire dal 40%», lei aveva chiaramente capito ciò che Casini le avrebbe ribadito: «Cara Maria Elena, dovete scegliere quale boccone amaro mandar giù. Riprendervi l’incarico o indicare a Mattarella il nome di un altro presidente del Consiglio. Tre mesi lì, come niente fosse, Matteo non può restarci».
Mille giorni e cento passi dopo, Lotti si è rassegnato all’idea che Renzi doveva scegliere il danno minore: lasciare Palazzo Chigi a Gentiloni, con la consapevolezza che si aprirà una fase difficile nel partito. Perchè sarà pur vero che nel Pd ci sono molti politici e nessun leader, ma sono proprio la loro capacità di manovra e la vischiosità del correntismo il maggior pericolo per il segretario che da lunedì non sarà più premier.
Il governo Gentiloni dovrà però rinunciare, probabilmente senza troppo dolore, a molte delle punte di diamante (si fa per dire) dell’esecutivo Renzi. Maria Elena Boschi è già fuori ed è inutile sottolinearne i motivi.
Stessa sorte per Stefania Giannini e Giuliano Poletti oltre che per Beatrice Lorenzin. Tommaso Ciriaco su Repubblica segnala che invece resteranno in sella i capicorrente dem Dario Franceschini ed Andrea Orlando, al pari di ministri di peso come Angelino Alfano agli Interni e Pier Carlo Padoan all’Economia.
«Al posto di Poletti, il nuovo premier potrebbe promuovere Teresa Bellanova, già viceministro allo Sviluppo con un passato da giovane sindacalista dei braccianti pugliesi. Un segnale politico, dopo la frattura referendaria con il Sud e il mondo del lavoro», segnala ancora Repubblica.
Il governo Gentiloni dovrà risolvere la grana MPS e tutti i dossier più scottanti lasciati sul tavolo da Renzi.
Intanto il segretario convocherà il congresso del partito e si riprenderà (si fa per dire, visto che non l’ha mai persa) la leadership. Il voto, a giugno o giù di lì, costituirà la sua chance di vincere e riprendersi “tutto quello che sente suo” (semicit.).
Intanto da aprile la BCE rallenterà il Quantitative Easing e gli effetti si faranno sentire. Ma questo sarà un problema del nuovo governo.
Alessandro D’Amato
da “La Repubblica”)
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