Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
POCA LIBERTA’ DI SCELTA PER L’ELETTORE E RESTANO LE PLURICANDIDATURE
Lo chiamano ancora Rosatellum, ma è la terza — forse quarta — versione della riforma elettorale proposta dal Pd. Ora resta solo da scoprire se invano o con qualche speranza. L’ultimo Rosatellum — che da oggi inizia il suo percorso in commissione a Montecitorio — pochi giorni fa era stato chiamato Mattarellum rovesciato per farlo capire meglio (figurarsi se volevano farlo capire un po’ meno), ma in realtà è pensato sulla base del Fianum.
Il Fianum era il disegno di legge che in teoria doveva essere approvato a una velocità superiore all’abbattimento del muro del suono perchè fingevano di essere tutti d’accordo (dal Pd al M5s fino alla Lega) e in pratica invece venne fatto fuori a giugno al primo giorno di votazioni, dopo una manciata di voti segreti, sul sistema elettorale altoatesino, improvvisamente diventato alfa e omega della vita civica del Paese.
Poichè l’anagrafe dei nomignoli dati ai sistemi elettorali neanche nati (Rosatellum, Fianum, Mattarellum rovesciato) aggiunge confusione al caos primordiale che già contraddistingue temi così popolari come la riforma elettorale, è forse utile ricominciare da zero.
Per esempio: quello in discussione viene chiamato Rosatellum, ma è l’ennesima opzione che porta questo nome che deriva da quello di Ettore Rosato, capogruppo del Partito democratico alla Camera.
Il Rosatellum 3 il ritorno ricorda il Mattarellum perchè è un sistema misto maggioritario-proporzionale, ma le percentuali con cui si compone il Parlamento sono ribaltate: per quasi due terzi (64 per cento dei seggi) si userà il proporzionale, per il restante numero di seggi (36 per cento) il maggioritario.
Il Mattarellum funzionava al contrario, come qualcuno forse ricorda: tre quarti delle Camere derivavano dai collegi uninominali (cioè quelli dove chi arriva primo, diventa parlamentare), mentre gli altri deputati e senatori venivano eletti con il proporzionale anche per tutelare la rappresentanza dei partiti più piccoli.
Insieme alle coalizioni, è questo l’unico punto di novità della proposta del Pd è identica a quella bocciata a giugno dalla Camera.
Tutto gira intorno al Trentino-Alto Adige
Perchè quella proporzione, 64-36? Perchè per fare presto bisogna ripartire dall’emendamento che ha soppresso l’accordo Pd-M5s, a giugno.
Era firmato dai deputati di Forza Italia e M5s Micaela Biancofiore e Riccardo Fraccaro, la prima bolzanina, il secondo trentino.
Dice che per il Trentino-Alto Adige vale lo stesso sistema di tutto il resto d’Italia. Con lo scrutinio segreto, passa con le vele spiegate tipo la Vespucci: non solo con i voti dei Cinquestelle, ma anche con diversi franchi tiratori e con numerose assenze nel Pd.
Con quella mossa il Trentino-Alto Adige ha 6 seggi con collegi uninominali e altri 5 con il proporzionale.
Per cristallizzare questo schema in modo da non far ripartire l’iter parlamentare daccapo e proseguire con la calendarizzazione già decisa per il ddl precedente, il Partito Democratico ha cucito in sostanza il nuovo sistema addosso al risultato dell’emendamento Biancofiore-Fraccaro.
Un secondo effetto virtuoso — secondo la visione del Pd — è che verrebbero ripristinati i collegi uninominali in Trentino Alto Adige, una fissa dell’Svp nel Tirolo del Sud e del Patt in Trentino, storici alleati del centrosinistra.
Quindi, per concludere, 231 seggi saranno uninominali maggioritari (chi vince nel collegio, prende il posto) e gli altri 399 proporzionali (12 dei quali nelle circoscrizioni estere).
Tutto questo si gioca naturalmente sul numero dei collegi perchè per portarsi dentro l’accordo Forza Italia servono le liste bloccate e la Corte Costituzionale, bocciando il Porcellum, ha detto che le liste quando sono bloccate devono essere brevi.
Quindi serviranno collegi grandi più o meno come il territorio di una provincia e quindi potrebbero tornare utili i 100 collegi disegnati per l’Italicum, pace all’anima sua.
Un’altra opzione potrebbero essere collegi uninominali con distribuzione proporzionale, come accadeva per il Senato fino al 1992.
Brevi o non brevi, resta il concetto dei “nominati” dalle segreterie, sia pure riconoscibili come vuole la Consulta.
Tanto più che resistono in modo valoroso le pluricandidature: ci si potrà presentare in tre listini proporzionali diversi, quindi se un candidato è bocciato qui, potrebbe passare là , specie se davanti ha un leader di partito che fa da traino.
Lo potrà fare anche un candidato di collegio che così potrà contare su 4 possibili tentativi di essere eletto.
Sono garantite come sempre le quote di genere. In ogni coalizione nessuno dei due generi può superare la quota del 60 per cento nei collegi uninominali a livello nazionale e lo steso vale per i listini proporzionali.
Le coalizioni così così e la soglia del 3 per cent
La soglia di sbarramento è al 3 per cento e quindi sono sul filo partiti come Mdp, Sinistra Italiana, Alternativa Popolare anche se trovassero posto in una coalizione.
Sono previste le coalizioni (cosa che fa imbestialire il M5s) ma dovranno superare la soglia del 10 per cento per accedere al riparto dei seggi.
Ma non sono coalizioni autentiche: sembrano piuttosto cartelli elettorali.
Il motivo è questo: non c’è un simbolo unico per la coalizione al quale è collegato il candidato del collegio. In realtà ogni simbolo di partito ha il suo candidato al collegio, il cui nome quindi si ripeterà sulla scheda al fianco di ogni partito che lo sostiene.
Niente disgiunto, resta il voto “incatenato”
Non esiste voto disgiunto, cosa che invece accadeva con il Mattarellum. All’epoca le schede erano due, a questo giro — ancora una volta — si sceglie la scheda unica.
Il nome del candidato nel collegio sarà affiancato dai simboli dei partiti che lo sostengono.
Barrando sul simbolo del partito il voto andrà al candidato del collegio e al partito per la parte proporzionale. Il massimo della libertà dell’elettore sarà barrare solo il candidato del collegio.
Perchè per il resto non ci saranno preferenze: scegliendo il simbolo, l’elettore sarà costretto a prendersi tutto il listino dei nomi, a partire dal capolista.
(da “NextQuotidiano“)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
IL COMUNE DOVRA’ RESTITUIRE 1,5 MILIONI DI EURO CHE AVREBBE POTUTO SPENDERE PER RISTRUTTURARE GLI ASILO NIDO… DIVERSI MUNICIPI NON HANNO PRESENTATO LA RENDICONTAZIONE ENTRO I TERMINI DI LEGGE
Il Comune di Roma dovrà restituire 1.553.200,00 milioni di euro alla Regione Lazio perchè diversi
municipi della Capitale non hanno presentato entro i termini di legge le rendicontazioni di spesa.
La scadenza per la presentazione dei rendiconti relativi ai finanziamenti erogati per la costruzione, ristrutturazione, adeguamento di immobili pubblici al servizio di asilo nido era fissata al 30 giugno 2017.
Gli uffici di sei municipi capitolini però non hanno consegnato la documentazione in tempo e quindi la Regione Lazio — tramite una determinazione del 24 agosto 2017 — chiede indietro i finanziamenti erogati al Comune.
Entro il 31 dicembre 2017 il Comune amministrato dal MoVimento 5 Stelle dovrà provvedere alla restituzione delle somme indicate nella determina.
Si tratta di soldi che avrebbero potuto essere utilizzati per ristrutturare l’edilizia scolastica o costruire nuovi asili.
Alcuni Municipi però hanno deciso di non sfruttare i finanziamenti e quindi parte delle somme (quelle non liquidate) è caduta in perenzione amministrativa.
Per le altre invece la Regione si vede costretta al recupero degli importi già versati a causa del mancato rispetto del termine del 30 giugno per l’invio della rendicontazione finale di spesa.
Dei quasi 2,8 milioni di euro che la Regione aveva assegnato al Comune di Roma una parte infatti non è stata spesa, soldi che ora il Comune ha perduto e che non potrà utilizzare solo perchè i Municipi non sono stati in grado di completare il lavoro di rendicontazione.
A farne le spese saranno “sei municipi per un totale di sette nidi, in Via Mazzacurati, in via XXI Aprile, in via A.N. Bellingeri, Maresciallo Giardino, Via di Boccea, Piazza Cinecittà , Istituto Santa Maria in Aquiro”.
L’opposizione definisce l’intera vicenda “un mix incredibile di sciatteria, approssimazione e inadeguatezza del M5S che finiscono per ricadere sulla testa dei cittadini, peggiorandone i servizi e la qualità della vita”.
Gli uffici comunali (e municipali) erano quindi perfettamente a conoscenza della necessità di rispettare i termini di legge per usufruire dei finanziamenti. Semplicemente qualcuno ha deciso che non erano più necessari.
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
ULTIMI TENTATIVI DI COMPROMESSO: “LUIGI SIA SOLO IL COORDINATORE DEI GRUPPI PARLAMENTARI”
Dice Luigi Di Maio, all’apparenza sereno: «Sicuramente quello che sta accadendo in questi giorni è utilizzare ogni piccola dichiarazione per enfatizzare delle divisioni. Ma nel M5S non possono esistere divisioni perchè il programma è unico per tutti i candidati. Tutti quanti ci rifacciamo alle 5 stelle e intorno a un’idea, a un programma col quale vogliamo andare al governo del Paese. Poi gli iscritti decideranno chi sarà il portavoce».
Non può che dire questo Di Maio: da candidato premier non può che ricucire, rattoppare, mettere insieme ciò che forse non vuole più stare insieme.
Se uno come Roberto Fico rifiuta persino di incontrare Beppe Grillo, tanta è la delusione per quello che gli sta passando sotto gli occhi, vuol dire che i margini di mediazione si sono assottigliati quasi allo zero.
E di fronte a questo scenario altri addii e future scissioni potrebbero essere un epilogo molto probabile.
La festa di Rimini sarà un test, anche scenografico, importante. Il voto sui candidati premier è stato anticipato per paura di altri attacchi hacker alla piattaforma Rousseau e per archiviare in fretta queste primarie pasticciate.
Il vincitore salirà sul palco sabato. Sette illustri sconosciuti contro il predestinato Di Maio che, stando al comunicato di Grillo sul blog, sarà in corsa per la premiership ma diventerà anche il capo politico per i prossimi cinque anni, cioè fino alla scelta del prossimo candidato per Palazzo Chigi.
Significa che secondo lo statuto avrà l’ultima parola su molte questioni: sceglierà i probiviri, il comitato disciplinare d’appello, firmerà le sanzioni, le sospensioni e le espulsioni, deciderà le votazioni e potrebbe anche metter becco sulle liste elettorali e a seconda della legge con cui si andrà al voto decidere con quale metodo selezionare i candidati per Camera e Senato.
Insomma, come confermano ai vertici del M5S, «avrà un potere enorme».
Una prospettiva inaccettabile per Fico che ancora insiste nell’idealizzare un Movimento costruito dal basso, non verticistico, dove l’assemblea collettiva è sovrana e il capo politico resta Grillo, garante esterno di regole a tutela della diversità del M5S.
Di fatto i grillini sono spaccati in tre.
Un gruppo minoritario, i cosiddetti ortodossi, con in testa Fico, vuole che tutto rimanga com’è.
Un altro, composto da chi si è accodato alla scia dell’ascesa di Di Maio, sostenuto dallo staff della Casaleggio Associati, è ovviamente favorevole alla svolta radicale.
Il terzo è formato dalla maggior parte dei parlamentari, più realisti sul fatto che ormai il ruolo di leader di Di Maio si sia strutturato. Ma chiedono un compromesso: capo politico di tutto il Movimento resti Grillo, mentre Di Maio faccia il capo del coordinamento dei gruppi parlamentari, sia che diventi premier sia che il M5S rimanga all’opposizione nella prossima legislatura, «così non si dirà che siamo eterodiretti da Milano e da Genova».
In queste ore c’è una trattativa in corso per ottenere che ci sia questa precisazione.
Sta a Grillo però decidere. E fonti del M5S confermano che sarebbe irremovibile.
Vuole tornare ai suoi spettacoli e per farlo deve liberarsi delle grane politiche e giudiziarie che, di ricorso in ricorso, lo stanno ossessionando, ben più delle richieste di Fico.
Il presidente della Vigilanza Rai, asserragliato nella strategia del «no comment», potrebbe tornare a parlare da Rimini, in un comizio improvvisato tra gli attivisti.
E da quello che dirà si capirà quanto Di Maio si potrà godere la serenità da candidato premier.
Perchè se i malumori non saranno rientrati, la campagna elettorale verrà minata già a partire dal giorno dopo la sua incoronazione.
Alcuni parlamentari promettono che non si ricandideranno, altri fanno intuire che, una volta rieletti, senza la tagliola del secondo e ultimo mandato, si sentiranno più liberi di dire e fare quello che vogliono.
Soprattutto se il capo sarà Di Maio, entrato in Parlamento come uno qualsiasi di loro.
(da “La Stampa”)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
IL SITO PER VOTARE DI MAIO PER LUNGHI TRATTI IRRAGIUNGIBILE, FORTE MALUMORE IN RETE
“Due ore e mezza per arrivare alla schermata ‘grazie per aver votato’. Per fortuna che c’era solo da
scegliere il candidato premier…”, l’attivista M5s Biagio Salvati si sfoga così quando a metà pomeriggio, dopo aver tentato a lungo, riesce finalmente a votare sulla piattaforma Rousseau che dalle dieci di questa mattina consente, tra mille difficoltà , di scegliere chi sarà il candidato pentastellato alla presidenza del Consiglio nonchè il nuovo capo politico del Movimento.
Ma l’utente Salvati è solo uno dei tanti a far notare che qualcosa alla vigilia di Italia 5Stelle, dunque a ridosso della proclamazione scontata di Luigi Di Maio, non sta funzionando. Il sistema Rousseau cade insomma nel giorno più importante per la democrazia diretta pentastellata.
I vertici si dicono tranquilli, anzi provano a ribaltare quanto sta succedendo: “Abbiamo tantissimi votanti”. Danilo Toninelli aggiunge: “Mi farebbe piacere se votassero 100mila persone”.
E poi, in via ufficiale, in mattinata il blog di Beppe Grillo avverte che “le prestazioni del Sistema operativo Rousseau sono condizionate dall’alta affluenza in contemporanea che si sta registrando”.
Con il passare delle ore le cose non vanno meglio.
Tempestato di commenti di chi vorrebbe votare ma non ci riesce, il Movimento è costretto a far slittare la chiusura del voto dalle 19 alle 23.
I ritardi sono enormi, il malfunzionamento è evidente proprio quando, nello spazio della Fi2era di Rimini, vengono montati i gazebo del villaggio Rousseau dove i parlamentari per tre giorni si alterneranno per raccontare come funziona la democrazia dal basso e cosa fino a questo momento gli attivisti hanno scelto attraverso il sistema che oggi non decolla.
La preoccupazione nelle stanze grilline in realtà cresce, dal momento che nel giorno clou si apre una nuova falla in quello che sarebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del Movimento tra l’altro già colpito da attacchi hacker.
“Avranno di che discutere al Villaggio Rousseau”, dice provocatoriamente un altro utente anche perchè gran parte della kermesse che avrà inizio venerdì a Rimini è proprio incentrata sulle potenzialità della piattaforma nata per consentire la democrazia diretta. Ciò provoca ancora più timore. Visti i tempi così stretti sarebbe complicato — spiegano fonti pentastellate — ripetere la votazione mettendo a punto il sistema Rousseau.
E c’è infatti chi sospetta ci sia lo zampino degli hacker come accaduto ad agosto: “Impossibile accedere a Rousseau per votare. Hacker in agguato?”, scrive Rino Lagomarino.
A raccontare “l’odissea” del voto su Rousseau torna il blogger e debunker (cioè uno smaschera-bufale) David Puente sempre su twitter. Il suo primo tentativo di voto è a mezzogiorno: “Rousseau è lentissimo, fatica enorme per accedere al voto”.
La prima risposta di Rousseau è ‘impossibile connettersi’, poi ‘impossibile raggiungere il sito’. Alle 12.18 “finalmente riesco a entrare nella schermata delle votazioni”. Puente spiega: “Ho votato e mi è venuto ‘Impossibile connettersi al DB’. Andiamo a vedere se posso votare ancora”. Ho ricaricato la pagina e dicono che ho votato. Il messaggio di prima mi preoccupa. #poverodatabase”.
Il blogger pubblica anche uno screenshot della schermata con i nomi degli otto candidati facendo notare che l’unico di cui manca la professione è Luigi Di Maio.
Al di là della polemica sulle primarie farse, dal momento che Di Maio è l’unico candidato tra gli altri sette nomi sconosciuti, c’è chi accusa i pentastellati di scarsa preparazione: “Sono un vecchio informatico che da anni lavora con applicazioni web. Quello che sta succedendo sa troppo di improvvisazione. Che vergogna”, dice Fabio r. Sta di fatto che il problema tecnico, venerdì alla Fiera di Rimini, diventerà presto un problema politico.
Cartina di tornasole di un Movimento che ha basato la sua ascesa politica sulla democrazia diretta e che oggi rischia di cadere proprio qui.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
LA ZONA RESTA IN MANO AI TRAFFICANTI TRA SCONTRI DI GRUPPI RIVALI E CONNIVENZE DEL GOVERNO LIBICO… “L’ITALIA DEVE PAGARE ANCHE NOI”
Sabratha, città nella parte occidentale della Libia a 70 chilometri da Tripoli, uno dei punti di snodo delle partenze dei migranti per il Mediterraneo, nell’ultima settimana è diventata di nuovo teatro di guerra.
La causa scatenante, quattro giorni fa è stato il passaggio di un veicolo con i vetri oscurati vicino al quartier generale dell’Operation Room anti Isis, la forza militare che contrasta la presenza di fondamentalisti in Libia. Il veicolo appartentente alla milizia Anas Dabashi, non si sarebbe fermato al check point, provocando uno scontro a fuoco tra i militari dell’operation room e la potentissima milizia, che controlla il traffico di uomini della zona e anche il traffico di carburante.
L’operation room anti Isis, creata dopo il raid americano del 2016 sulle posizioni di Isis a Sabratha, è il centro operativo contro la presenza di Isis il Libia, a Sabratha agisce sotto il comando del colonnello Abduljalil, ed è una forza militare composta non da milizie, ma da soldati che hanno ottenuto autorizzazioni direttamente dal governo presieduto da Fayez al Sarraj.
Inoltre gode dell’appoggio formale della brigata Al Wadi, una brigata salafita che ha sostenuto l’azione militare per liberare Sabratha dalla presenza di cellule dell’Isis. Presenza, che come ha sottolineato anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è stata facilitata dalla stessa milizia Dabashi.
La presenza dei militari dell’Operation Room contro Isis ha irritato rapidamente le grandi famiglie influenti della zona, prima di tutti il clan Dabashi, che hanno visto nella presenza dei soldati una minaccia ai loro traffici.
I militari sostenuti da Sarraj hanno, infatti, cominciato a controllare e presidiare un tratto della strada che porta a Tunisi, attraverso Ras Ajdir, snodo nevralgico del contrabbando.
I militari hanno arrestato trafficanti alla guida di camion pieni di migranti, e cominciato a controllare costantemente l’autostrada costiera. Al Ammu, leader indiscusso della brigata Dabashi, che di fatto ha il controllo territoriale di mezza Sabratha, è corso ai ripari e fonti locali sostengono che per ostacolare il lavoro dell’operazione anti Isis, abbia dato ordine alla sua milizia di rapire alcuni militari dell’operation room, in cambio dell’abbandono delle zone presidiate.
Durante il primo giorno di scontri, la scorsa settimana, sono morti due miliziani, identificati come Abubaker al Dabbashi e Sami Jamjoum, del clan Dabashi.
“I combattimenti che ci sono in città — dice una fonte locale che per ragioni di sicurezza preferisce parlare sotto anonimato — sono solo l’inizio di una guerra che stavamo aspettando. Che potevamo tutti prevedere. Ci sono mille rivalità che si sovrappongono, innanzitutto la presenza dei militari, ma ora ci sono anche le milizie tagliate fuori dagli accordi con gli italiani che chiedono la loro parte.”
La fonte sostiene che l’attacco al check point di fronte al quartier generale fosse in realtà non un evento casuale ma una provocazione preparata dal giorno prima, perchè Al Ammu, leader del clan Dabashi, avrebbe chiesto due giorni prima ai suoi uomini di attrezzare mezzi e armi pesanti.
Dopo quattro giorni di scontri, le alleanze che dividono Sabratha, vedono da una parte il clan Dabashi e la brigata 48, dall’altra l’Operation room e la brigata Al Wadi.
La brigata 48 è uno degli attori centrali delle ultime settimane di politica e diplomazia più o meno ufficiale in Libia.
Creata alla fine del 2016, quando il governo centrale di Sarraj ha deciso di creare unità specializzate nel contrabbando di petrolio.
Il Ministero della Difesa libico — come riportato dal giornalista Tom Feneoux – ha firmato l’accordo per la creazione della brigata 48 alla fine di gennaio di quest’anno, a cavallo della firma del Memorandum di intesa tra l’Italia e la Libia.
Il compito iniziale era proteggere le stazioni di servizio dai contrabbandieri e proteggere la sicurezza della città . Ma la longa manus dei Dabashi controlla di fatto anche la Brigata 48: “La brigata 48 è una milizia di militari corrotti — continua la fonte libica — i Dabashi ci sono dentro dall’inizio, con lo zio di Al Ammu, Hussein Dabashi. Hanno creato la milizia proprio per controllare la città e proteggere Ammu e i suoi affari, sapendo che stava per iniziare una fase politica di lotta al contrabbando. Il fratello di Ammu, Emhedem, comanda la brigata e protegge i traffici del clan. Si sono accreditati con il governo per ricevere un incarico formale, ma di fatto continuano a proteggere non la sicurezza di Sabratha, ma gli affari di famiglia. Hanno solo cambiato uniformi, ma sono sempre loro che hanno in mano la zona. Prima partecipavano ai traffici, ora fingono di combatterli.”
Secondo la fonte locale, anche la Brigata 48 avrebbe ottenuto uffici all’interno del compound di Mellitah , e parteciperebbe alla protezione delle strade circostanti.
“I Dabashi hanno pensato che ottenere un accordo economico con gli italiani fosse vantaggioso anche per far capire loro che i Dabashi sono gli unici interlocutori possibili per garantire la protezione della città e la sicurezza, gli unici in grado di bloccare il traffico di uomini. Ma così non è stato, non avevano considerato che le milizie non coinvolte nell’accordo si sarebbero ribellate. Ce lo aspettavamo tutti, ed è accaduto” continua la fonte.
Proprio nella settimana degli scontri a Sabratha infatti sono ricominciate le partenze dei gommini carichi di migranti, più di mille sono stati recuperati dalla guardia costiera libica e più di cinquemila sono stati salvati dai mezzi di soccorso nel Mediterraneo.
Fonti locali libiche sostengono che la milizia Elgul — che controlla il centro della città di Sabratha — abbia organizzato le partenze di almeno otto gommoni, proprio nelle ore in cui il clan Dabashi combatteva contro i soldati dell’operation room, per dare un segnale forte: il capo clan Esam Elgul si è detto molto scontento degli accordi raggiunti tra l’intelligence italiana e il clan Dabashi, che avrebbe ricevuto non solo cinque milioni di euro ma anche la possibilità di avere un ufficio nel compound di Mellitah, il branch libico dell’Eni (la milizia già controlla dal 2015 la strada limitrofa, per un accordo raggiunto allora proprio con Mellitah Oil&Gas).
“Riorganizzare le partenze — conitnua la fonte – significa dare un segnale non solo ai Dabashi, ma anche alla doplomazia italiana. E’ come dire: qui comandano i trafficanti e i patti bisogna farli con tutti altrimenti ci riprendiamo il controllo delle partenze, con le buone o con le cattive. I trafficanti prima guadagnavano dieci volte tanto, se non ottengono un ‘risarcimento’ cominceranno a far partire migliaia di migranti che ora sono ancora nascosti nei capannoni.”
Tra le fila degli scontenti c’è anche il ‘dottore’ di Sabratha, Mussad Abugrin — uomo d’affari libico che gestisce il traffico di migranti dal Sudan — una fonte italiana sostiene che la trattativa tra Abugrin e l’intelligence italiana non sia andata a buon fine, questo è uno dei motivi per cui uno dei suoi uomini più fidati, noto come Hatem Il Polo, ha cominciato a riorganizzare barconi di migranti dalle coste della città . L’insoddisfazione non tocca però solo gli ambienti diplomatici informali, ma anche quelli formali.
Pochi giorni fa, infatti, il consiglio militare di Sabratha ha condannato l’invito ad Haftar da parte del governo italiano, invito avvenuto cinque giorni dopo che il sindaco di Sabratha Hussein al Dawadi ha incontrato l’ambasciatore italiano il Libia Perrone. Il consiglio Militare, in una dichiarazione ufficiale denuncia l’invito e invita tutti i paesi a “fermare tutte le iniziative che danno legittimità a coloro che perseguono azioni militari per guadagni politici, esprimendo apprezzamento alle autorità italiane per il loro sostegno alle istituzioni sanitarie a Sabratha, ma con riserva per i sospetti accordi ufficiosi dei servizi italiani con milizie locali”.
Dopo quattro giorni di battaglia, le milizie hanno posizionato i propri cecchini sugli edifici e i carri armati nelle strade, la Libyan Red Crescent ha dichiarato che è impossibilitata a salvare i civili intrappolati nei quartieri dove si combatte e fonti locali sostengono che i miliziani stiano uccidendo indiscriminatamente gruppi di migranti. Un gruppo di ragazzi marocchini ha provato a contattare le organizzazioni umanitarie locali e internazionali, ma nessuno — dopo quattro giorni — riesce ad evacuarli.
Hanno scritto di essere in Libia da tre mesi e di non essere ancora riusciti a partire, i trafficanti li hanno derubati di tutto ciò che avevano e picchiati ripetutamente. Ora, sono intrappolati in una abitazione tra il fuoco incrociato dei combattimenti.
La soluzione degli scontri di Sabratha è l’anticamera di quello che può accadere a livello nazionale, a oggi i militari dell’operation room avrebbero chiesto l’aiuto alle milizie di Zintan. Che equivale a dire chiederlo al generale Khalifa Haftar.
Dall’altra parte i gruppi armati di Zawhia, la milizia al Farouq e Kilani, stanno sostenendo il clan Dabbashi. In mezzo c’è la diplomazia europea, gli accordi italiani, e gli accordi paralleli.
In una zona, quella più occidentale della Libia, che è terra di nessuno, o meglio è ancora terra dei trafficanti.
(da “L’Espresso”)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
VIVONO NELLA STESSA CASA E PERCEPISCONO LO STESSO SUSSIDIO DALLA STATO: 420 EURO PER L’AFFITTO DI UNA STANZA E 300 PER IL VITTO…MA IN BASE AL NUMERO DEI COMPONENTI DELLA FAMIGLIA IL CONTRIBUTO PUO’ ARRIVARE A 1500 EURO
“Aiutami a portare su le casse dell’acqua”. Mustafa, un trentenne originario di Homs, città nella regione costiera siriana, scende correndo per le scale e va a prendere le due confezioni di bottiglie d’acqua che Otto, un sessantenne tedesco che condivide con lui la casa, ha appoggiato vicino alla porta del condominio in cui abitano, vicino al fiume Reno.
“Lo hanno lasciato solo, qui non hanno il senso della famiglia, dell’aiuto agli anziani. Noi sì” spiega Mustafa, che ha abbandonato la Siria da circa quattro anni.
Prima un periodo di lavoro in Libano, come cameriere in un ristorante a Sidone, poi la decisione di partire: il viaggio in aereo a Izmir e quello su un barcone partito nella notte in direzione delle isole greche.
“Ora la mia vita è qui, grazie a mama Merkel”, soprannome con i cui siriani si rivolgono alla cancelliera da quando questa ha aperto le porte del paese ai profughi siriani.
Ogni sera, quando torna da scuola, Mustafa si mette a studiare nella sua piccola stanza di pochi metri quadrati.
Otto, che soffre di epilessia e passa le sue giornate in stanza, si siede vicino a Mustafa e comincia a fumare le sigarette, una dietro l’altra. “Non mi disturba affatto. Mi chiede sempre se ho bisogno di qualcosa. Con lui parlo il tedesco e imparo i loro costumi”.
Un percorso reso facile perchè, in molte case di Coblenza, rifugiati e tedeschi in difficoltà economica vivono insieme.
“Così si facilita l’integrazione dei nuovi arrivati perchè non si sentono esclusi dalla società ” sostiene una volontaria di una ong che aiuta le persone in difficoltà .
Tedeschi e richiedenti asilo percepiscono anche gli stessi sussidi dallo stato: 420 euro per l’affitto di una stanza e circa trecento per il vitto.
Ma questa cifra, variabile in base ai prezzi degli affitti di località in località e erogata a nuclei composti da un solo individuo, aumenta in base al numero dei componenti nella famiglia, arrivando a oltre 1500 euro per l’affitto di una casa a famiglie di 8 persone o più.
Dopo aver posato le bottiglie d’acqua in cucina, Otto e Mustafa escono insieme.
Il semaforo è rosso ma non c’è nessuna macchina. Otto comincia a attraversare ma Mustafa lo ferma: “È rosso, guarda che siamo in Germania e qui si rispettano le regole. Sono più tedesco di te!” ride.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
MAI DIVIDERE UN MINIMO DELLA LORO RICCHEZZA CON LE AREE PIU’ POVERE DEI RISPETTIVI PAESI…SONO COME L’ODIATA TROJKA CON LA GRECIA
In Veneto e in Lombardia la Lega Nord non parla più di indipendenza ma di autonomia. Fra un
mese i lombardi e i veneti saranno chiamati a rispondere ad una domanda tanto fondamentale per Luca Zaia e Roberto Maroni e le sorti del loro partito quanto inutile nella pratica per i cittadini delle due regioni.
Si tratta di un referendum consultivo senza quorum che non è previsto dalla Costituzione, eppure Zaia e Maroni hanno impegnato ingenti risorse economiche per chiedere ai cittadini se vogliono che alla loro regione siano attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Un referendum farsa per far fare propaganda elettorale alla Lega
Nessuno sa quali possano essere queste forme di autonomia, a quanto pare ogni elettore può intenderla come meglio crede, perchè l’importante è strizzare gli occhi agli indipendentisti.
E i leader leghisti si guardano bene dal dire che la Costituzione prevede già che queste possano essere attribuite con legge dello Stato su iniziativa della Regione interessata a patto che l’intesa tra lo Stato e la Regione venga approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.
Per avanzare al governo e al Parlamento la richiesta di maggiore autonomia non è in alcun modo necessario indire un referendum.
Maroni e Zaia hanno avuto 5 anni di tempo per proporre la loro idea di autonomia regionale al Governo, ma non lo hanno fatto.
Eppure avevano dalla loro il mandato popolare dei cittadini e il sostegno della maggioranza nei rispettivi consigli regionali.
Evidentemente per la Lega Nord è più comodo così.
Anche perchè in un periodo di conti correnti bloccati cosa c’è di meglio che fare campagna elettorale usando i soldi dei cittadini?
Si stima infatti che il costo dell’operazione referendaria verrà a costare tra i 40 e i 50 milioni di euro in Lombardia e 14 milioni in Veneto. Di soldi pubblici s’intende.
Una spesa che se fosse stata fatta da altre regioni i leghisti avrebbero subito parlato di spreco di denaro e di Roma ladrona.
Il tutto per ottenere sostanzialmente una cosa (che però curiosamente non è scritta nero su bianco nel quesito referendario) ovvero la possibilità di mantenere in Lombardia e in Veneto buona parte del cosiddetto “residuo fiscale”.
Ovvero la differenza tra entrate provenienti dalle tasse e spese: si parla di circa 70 miliardi di euro (53,9 miliardi per la Lombardia e 18,2 miliardi per il Veneto) che invece che essere trasferiti allo Stato centrale potrebbero rimanere sui territori ed essere investiti per servizi al cittadino
Essere più ricchi non vuol dire avere ragione
Al di là del fatto che il referendum è un’operazione di propaganda inutilmente costosa ci sono anche altri aspetti problematici.
Il primo è che dovrà andare al voto la maggioranza degli aventi diritto, perchè se è scontato che chi andrà a votare voterà sì quello che interessa alla Lega è che la maggior parte del popolo Veneto e di quello Lombardo vadano alle urne per legittimare questa farsa.
C’è poi il fatto che a chiedere maggiore autonomia in campo tributario siano due delle regioni più ricche del Paese.
Regioni che vorrebbero essere esentate dal principio di sussidiarietà che regge lo Stato.
A favore di questo argomento ci sono gli sprechi di soldi pubblici che si sono registrati ovunque (la vicenda del MOSE dovrebbe essere un monito per i veneti) in settant’anni di storia repubblicana.
Contro questo modo di pensare invece c’è quanto sta accadendo al di fuori dei confini del lombardo-veneto.
Perchè la sostanza di quello che chiedono di fare Salvini, Maroni e Zaia non è poi così diverso da quello che chiede l’Europa all’Italia, alla Grecia o agli altri paesi “spreconi” della UE: i più ricchi impongono la loro legge ai più poveri dettando le condizioni su come debba essere speso il denaro (o tenendolo per sè).
E non è un caso che lo stato maggiore leghista in queste ore, dopo i fatti di ieri in Spagna, sia sceso in campo a fianco delle rivendicazioni degli indipendentisti catalani. La Catalogna si appresta infatti ad andare al voto il 1 ottobe per staccarsi da Madrid e diventare uno stato indipendente ma il governo centrale ritiene che il referendum — senza quorum — sia illegale e ieri la Guardia Civil ha tentato di decapitare i vertici della Generalitat, il governo di Barcellona, colpevoli di attentare all’unità nazionale.
Matteo Salvini ha scritto che l’azione del governo di Madrid che ieri ha arrestato militanti e sequestrato schede elettorali e conti correnti degli organizzatori del referendum che il governo spagnolo considera illegale, vuole “impedire il cambiamento”.
Proprio come avrebbe fatto la magistratura rossa con la Lega Nord quando ha bloccato i conti correnti del partito in seguito alla condanna in primo grado del Presidente della Lega per truffa ai danni dello Stato.
Luca Zaia oggi sull’Huffington Post trova una continuità ideale tra le istante autonomiste dei veneti e quelle indipendentiste dei catalani. In entrambi i casi — spiega — è il popolo che si vuole esprimere e lo Stato non può ignorare le legittime richieste di autonomia, nè quelle dei catalani nè quelle dei veneti e dei lombardi.
Zaia dimentica però che nel 2014 quando i catalani votarono al precedente “referendum” per l’indipendenza alle urne ci andò solo il 35% degli aventi diritto. Non proprio un successo.
Ed infatti nonostante l’80% dei voti a favore non se ne fece nulla.
Non è quindi un caso che il nuovo referendum sia anch’esso senza quorum.
Alla faccia della democrazia.
Oltre al paralellismo “giudiziario” con le vicende leghiste l’unico altro punto di contatto con la Catalogna è che — proprio come Lombardia e Veneto — è una delle regioni più ricche del paese.
Ora che con la crisi economica le cose non vanno bene — sostengono i critici — la Catalogna non vuole più farsi carico della sua parte di responsabilità nei confronti di altre aree del Paese.
Perchè la Catalogna vuole l’indipendenza da Madrid
Già nel 2006 lo Statuto della Catalogna prevedeva la nascita di una sorta di “patto di stabilità ” spagnolo. All’articolo 206 si obbligava lo Stato a non usare i soldi dei catalani per aiutare altre parti del Paese se queste non avessero adottato misure fiscali restrittive. Quell’articolo è stato poi dichiarato incostituzionale.
Guarda caso il terreno di scontro tra Madrid e Barcellona è proprio sulla raccolta delle tasse, che rimane in capo a Madrid.
Anche perchè non c’è altro: dalla fine del franchismo in poi il governo centrale ha concesso alla Catalogna un’autonomia molto ampia.
C’è chi dice che così come “i padani” anche i catalani rivendicano la loro indipendenza in ragione della loro storia e della loro cultura. Altri invece sostengono che la Padania sia un falso storico mentre i catalani invece abbiano ragione da vendere quando chiedono l’indipendenza.
Ma la storia ci racconta invece che la Catalogna — la regione storica — non coincide affatto con quella attuale.
Storicamente la Catalogna ha iniziato a far parte di quello che diverrà il primo nucleo della Spagna moderna in seguito al matrimonio tra il Re d’Aragona e la Regina di Castiglia.
In quel periodo la regione faceva parte del Regno d’Aragona e già non era “autonoma e indipendente” (lo è stata per un certo periodo attorno all’anno mille).
Il momento però cui i catalani fanno iniziare la fine dell’indipendenza viene postdatato fino alla Guerra di successione spagnola quando Filippo V di Borbone (che unificò tutta la Spagna) punì la Catalogna colpevole di aver preso le parti degli Asburgo togliendo l’autonomia al regno d’Aragona.
Dal punto di vista culturale la questione è ancora più risibile: la Nation Catalana comprende secondo gli indipendentisti anche gran parte del sud della Francia fino alla Liguria, vale a dire tutta la regione della Linguadoca.
Rimane sul tappeto una sola questione: i soldi.
E su questo aspetto c’è davvero poca differenza tra i leghisti e gli indipendentisti catalani.
(da “NexQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
LA GUARDIA COSTIERA LIBICA E’ INTERVENUTA SOLO IL GIORNO DOPO L’ALLARME: IL GOVERNO ITALIANO LI AVRA’ SULLA COSCIENZA
Un naufragio di migranti al largo della Libia con oltre cento dispersi è stato segnalato dalla Marina libica sulla base di testimonianze di sopravvissuti.
Il portavoce della Marina Libica, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem, contattato dall’Ansa ha detto che “oltre cento migranti sono dati per dispersi” per l’affondamento di un barcone davanti alla costa ovest del Paese.
La Guardia costiera di Zuara aveva ricevuto “ieri” una richiesta di soccorso da parte di un barcone in difficoltà .
I Guardacoste sono riusciti a salvare “qualche naufrago”, ha aggiunto il portavoce senza poter fornire cifre.
Secondo i superstiti, le persone a bordo dell’imbarcazione erano “più di 120”, ha detto ancora Ghasem.
L’episodio dimostra che la Guardia costiera libica non interviene tempestivamente nell’area che si è arrogata come di sua comperenza. Se le Ong non fossero state cacciate grazie al governo italiano complice degli affogatori e degli scafisti, queste vite umane avrebbero potuto essere salvate.
Cento morti sulla coscienza dei tanti sedicenti “cristiani” a parole.
(da agenzie)
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Settembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
“CREIAMO MANODOPERA QUALIFICATA, QUELLO DI CUI ABBIAMO BISOGNO”
“Eravamo certi che sarebbero arrivati i siriani, ma non sapevamo quanti sarebbero stati”. Martina
Choukri, 57 anni, impiegata in un’azienda finanziaria, che nel tempo libero fa la volontaria per Social Network, un’associazione caritatevole d’ispirazione cristiana a Coblenza, in Germania, mentre parla è intenta a filmare l’esibizione di un gruppo di rifugiati durante uno degli eventi del festival estivo Rhein in Flammen (Reno in Fiamme).
“Per accoglierli tutti — spiega la volontaria — il sistema tedesco ha bisogno dell’aiuto dei volontari, altrimenti non reggeremmo”.
Infatti, dal 2015, anno in cui la cancelliera Angela Merkel ha scelto di aprire le porte del paese ai rifugiati, i nuovi ingressi erano stati 890mila, per la maggior parte siriani in fuga dalla guerra, secondo i dati diffusi da asylumineurope.org — piattaforma online gestita dal Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati. Mentre nel 2016, i nuovi arrivi hanno toccato quota 745.545 e per la loro gestione sono “stati spesi circa venti miliardi di euro” ha detto al giornale Die Welt il vice presidente del parlamento tedesco, Johannes Singhammer.
Il viaggio verso Coblenza, situata nel Lander della Renania—Palatinato, comincia la mattina presto dalla stazione di Milano Lampugnano, salendo su un autobus di una compagnia low-cost, seguendo proprio la rotta che fanno quotidianamente molti profughi.
Alla frontiera, fra Italia e Svizzera, non c’è nessun controllo. Dopo due fermate, a Basilea e Zurigo, si passa il confine con la Germania.
L’autobus ferma a Friburgo, la prima città in suolo tedesco, dove solitamente i rifugiati scendono consegnandosi alle autorità . Ma questa volta non c’è la polizia ad attendere.
È a Kurlsruhe che arrivano i controlli. “Preparare i passaporti e non scendere dal mezzo” annuncia l’autista tedesca.
Cinque poliziotti salgono e prendono i documenti di tutti. Altri due agenti svuotano la stiva dai bagagli. Un cane li annusa e indugia su una valigia. La proprietaria della borsa viene fatta scendere e dopo dieci minuti risale sul mezzo: falso allarme. L’autobus riprende la corsa e, dopo diverse ore, arriva a Coblenza.
Una volta messo piede in territorio tedesco, l’iter che devono affrontare i rifugiati è uguale per tutti ed è gestito e organizzato dallo stato.
I richiedenti asilo vengono portati in un campo di prima accoglienza e a ognuno viene fissato un appuntamento con il Bundesamt fà¼r Migration und Flà¼chtlinge — l’Ufficio federale per l’immigrazione e i rifugiati, istituito nel 1953 — che deve decidere se concedere lo stato di asilo.
Nell’attesa, viene rilasciato un documento provvisorio e si passa dal campo alle casa in condivisione con altri rifugiati e si inizia a studiare il tedesco.
Se la richiesta d’asilo viene accettata il richiedente riceve un permesso di uno o tre anni. “In questo momento, stanno dando molti più permessi della durata di un anno che di tre. E’ una scelta politica per calmare i malumori nel CDU e attrarre voti da destra” spiega la Choukri, elettrice della Merkel, dicendosi certa che “dopo le elezioni politiche ricominceranno a concedere i tre anni”
L’iter che devono affrontare i rifugiati è uguale per tutti ed è gestito e organizzato dallo stato
Ma, intanto, a beneficiare del clima teso intorno alla questione migratoria è l’Afd — Alternative fuer Deutschland, Alternativa per la Germania — che ha aumentato i consensi da quando la cancelliera Merkel, nel 2015, ha scelto di aprire i confini della Germania ai richiedenti asilo.
Proprio a Coblenza, nel gennaio scorso, i leader dei partiti populisti europei si erano radunati al grido di ‘l’Europa è nostra’.
Ad alternarsi sul palco della kermesse — a cui hanno preso parte 800 persone, a fronte di 5000 manifestanti che protestavano in centro città contro il meeting — erano stati Marine Le Pen, del partito francese Fronte National, l’olandese Geert Wilders del partito anti-islamico della Libertà , l’austriaco Harald Vilimsky, segretario della formazione di estrema destra austriaca Fpoe, il leader della Lega Nord, Matteo Salvini e Frauke Petry, a capo dell’Afd.
“Abbiamo accolto oltre un milione di rifugiati negli ultimi due anni e prevediamo l’arrivo di quattro milioni di persone nei prossimi due o tre, grazie ai ricongiungimenti famigliari” stima la Choukry.
Un numero consistente che ha spinto il governo a correre ai ripari. Berlino ha infatti varato un piano di incentivi economici rivolto a quegli immigrati che vogliono fare ritorno ai loro paesi d’origine.
Si parte da 800 euro a testa per coloro a cui la domanda d’asilo è stata rifiuta, fino a 1200 euro a chi rinuncia volontariamente alla richiesta per ottenere lo status di rifugiato.
“Alcuni di loro — ha dichiarato il ministro degli interni tedesco, Thomas de Maizière — hanno poche possibilità di riuscita: meglio una partenza volontaria che la deportazione”.
Per la volontaria “la Cancelliera ha dovuto aprire le porte nel 2015 a causa della politica di confine con l’Ungheria. Lei vuole davvero aiutare ma deve anche rispondere al partito che non è pienamente compatto sulla questione dell’immigrazione” analizza la Choukry, mentre cammina in direzione della statua, alta 37 metri, dell’Imperatore Guglielmo I — che i siriani hanno ribattezzato, scherzosamente, Il Saladino —, posizionata sulla punta della penisola dove confluiscono, mischiandosi, il Reno e la Mosella.
Come i due corsi d’acqua, siriani e tedeschi si mischiano nei festeggiamenti: non c’è distinzione. Ma per integrarsi nella società , sottolinea Menfre Beuth, “è importante che tutti abbiano la possibilità di lavorare e studiare”.
Beuth, 65 anni, pensionato, è tornato dall’Australia nel 1998 e da tre anni è impegnato a tempo pieno nell’aiuto dei bisognosi, prima con la Caritas di Coblenza, poi fondando l’associazione Social Network — in cui oggi prestano servizio volontario circa 40 persone — che gestisce un centro polivalente.
La struttura si trova a due passi da una piazzette nel centro cittadino dove si ritrovano molti rifugiati dopo aver terminato la scuola.
“Lo stato paga le rette — spiega Beuth — ma i posti sono limitati. Quando hanno ottenuto una certificazione linguistica B1 o B2 intraprendono la formazione al lavoro, l’Ausbildung“, un percorso formativo al lavoro — previsto per oltre 300 professioni e obbligatorio anche per i tedeschi —, suddiviso in 8-12 ore alla settimana di studio teorico a scuola e il resto sul campo, della durata che varia fino a 3 anni in cui si percepisce circa un terzo dello stipendio.
“Per esempio, se un siriano faceva il falegname in Siria gli viene chiesto se vuole fare l’Ausbildung per esercitare lo stesso mestiere qui con un’azienda. Così viene formato e si crea manodopera qualificata: quella di cui noi abbiamo bisogno. Non ne conosco nessuno che non abbia voglia di lavorare” sottolinea Beuth mentre prepara il caffè.
Il Jobcenter di Coblenza, una struttura statale presente ovunque in Germania che trova lavoro ai disoccupati e eroga i sussidi a questi, è infatti sempre affollata di richiedenti asilo.
“Abbiamo due persone che aiutano a compilare i documenti per chi ha problemi con la lingua”. In tutta la città ci sono altri cinque centri di volontariato, aperti da altre associazioni di stampo cristiano, per il sostegno dei bisognosi.
“La povertà rende tutti uguali” precisa Beuth. “Una sera abbiamo messo un siriano a cucinare per dei tedeschi bisognosi. Questi storcevano il naso, diffidenti verso gli immigrati. Quando hanno assaggiato il mangiare e hanno parlato con il cuoco sono diventati tutti amici. Per sconfiggere l’odio serve conoscenza: ogni tedesco dovrebbe aiutare un immigrato”.
Il centro aperto dal Social Network suddivide la settimana in diverse attività tutte autogestite.
La domenica la messa per i cristiani arabi; un mercatino di abiti usati; al secondo piano, invece, sono ospitate alcune donne sole.
E mercoledì lezioni di tedesco a 20-30 persone che cambiamo continuamente.
“Diamo loro caffè, un pezzo di torta e facciamo conversazione in tedesco: trasformiamo la sala in una caffetteria. Per questo all’attività del mercoledì abbiamo dato il nome di Cafè Jedermann — caffè di chiunque”.
Infatti il telefono di Menfred Beuth continua a squillare: è diventato un punto di riferimento per tutti. “Qui proviamo anche a curare le ferite invisibili della guerra” dice. “Abbiamo due psicologi, uno parla persiano l’altro arabo. Una volta è venuto da noi un uomo di 30 anni, proveniente da Aleppo: aveva tutti i capelli bianchi a causa dei traumi che aveva vissuto. L’ho mandato dallo psicologo, con difficoltà perchè è ancora un tabù per molti”.
E precisa, “se uno dice di andare dallo psicologo gli dicono che è majnun — pazzo. Anche qui in Germania 40 anni fa era così”.
Però — evidenzia Beuth — “siamo impressionati dal fatto che la maggior parte di loro si comporti bene nonostante quello che portano dentro”.
Uno choc ben evidente nei racconti di Mohamed, 28 anni, che condivide una casa con altri due rifugiati provenienti dalla sua stessa città in Siria, Afrin.
Abitano in una zona tranquilla della periferia di Coblenza. La loro palazzina è come tutte le altre: due piani, abitata anche da tedeschi che percepiscono i sussidi dallo stato.
“Ho guardato dietro di me, un’ultima volta, mentre passato il confine e ho provato paura” racconta Mohamed. “Mio padre voleva venire con me a salutarmi. Gli ho detto di no: i soldati turchi sparavano. Non capisci che cosa è l’esilio fino a quando non lo provi. Io voglio tornare in Siria, lì avevo qualcosa” dice con sofferenza.
Mentre Suleiman, uno dei coinquilini, è di parere opposto: “Magari avessi avuto la possibilità di venire in Germania prima” sospira. “Certo i problemi ci sono — sottolinea — la lingua, le ore di scuola che non bastano, il fatto che non possiamo lavorare senza aver prima completato la scuola e l’Ausbildeng. Nessuno vuole vivere con i soldi dello stato!”.
Ali, il terzo coinquilino, è il più piccolo, ha 21 anni, è taciturno. Quando parla dice solo che “in Siria non sono andato a scuola” e si scusa perchè arranca un po’ nel parlare in arabo.
Il viaggio per tutti è stato uguale. Prima tappa in Turchia, a Izmir. “Il contrabbandiere ci ha fatti salire su un gommone” ricorda Mohamed mentre fuma una sigaretta. “Mi ha chiesto di guidarlo, perchè loro non salgono mai sopra, affidano a un immigrato la navigazione. Gli ho detto di no: non volevo avere sulle mie spalle la responsabilità delle vite degli altri”.
L’approdo in un’isola greca e, una volta sul suolo europeo, il lungo viaggio verso la Germania, spesso anche a piedi.
“Io sono stato arrestato dalla polizia al confine fra Ungheria e Germania” interviene Ali. “Mi hanno messo in carcere una settimana”.
Ora la Siria è dietro le loro spalle, ma non il ricordo.
“Gli aerei — racconta Mohamed — avevano cominciato a bombardare il mio quartiere”. Poi comincia a parlare veloce, al presente: “Esco di casa. Corro verso quella di mio zio dove è caduta una bomba, stanno tutti bene. Salgo in macchina e via a Afrin: i miei genitori sono ancora lì. Un giorno con loro vale 100 anni di Germania“.
E conclude, scandendo bene le parole: “Vorrei tornare”.
L’autobus da Coblenza verso Milano—Lampugnano riparte. Quasi tutti i passeggeri sono italiani. Un bambino dice alla madre: “L’Italia è bella, ora andiamo al mare”.
E questa risponde: “Sì, l’Italia è bella ma non c’è lavoro. Qui sì”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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