Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
L’ITALIA STANZIA SOLO LO 0,22% DEL PIL PER I PAESI IN VIA DI SVILUPPO CONTRO L’IMPEGNO DI DESTINARE LO 0,70%… VENDIAMO ARMI A 10 STATI AFRICANI IN VIOLAZIONE DELLA LEGGE 185/90, ABBIAMO DISTRUTTO CON L’EPA LA LORO AGRICOLTURA, CI FREGHIAMO LE LORO TERRE CON IL LAND GRABBING
“Aiutarli a casa loro” per anni è stato lo slogan della destra. Ora è diventato il mantra di quasi tutte le forze politiche da Renzi al M5S.
Uno slogan carino da pronunciare, ma che ha come unico obiettivo il tacitare la coscienza di chi lo declama e di chi, compiaciuto, lo ascolta: non siamo cattivi, nè egoisti, anzi rispettiamo gli insegnamenti evangelici dell’aiutare il prossimo, solo che decidiamo noi dove e come.
Ma la realtà è ben diversa: nonostante gli accordi internazionali sottoscritti prevedano di destinare all’aiuto pubblico allo sviluppo almeno lo 0,7% del Pil, il nostro Paese nel 2015 ha stanziato solo lo 0,22% del Pil, nel quale sono compresi pure i fondi rimasti sul nostro territorio destinati a gestire il fenomeno migratori
1. Vendiamo armi
La principale preoccupazione dei nostri governi è stata quella di incentivare la vendita di armi in Africa. Tra il 2013 e il 2014 è stata organizzata la circumnavigazione dell’Africa della portaerei Cavour, trasformata in un’enorme vetrina delle armi prodotte dalle nostre industrie; per tale missione i vertici militari avevano perfino cercato l’appoggio dei missionari italiani presenti nell’Africa Sub-Sahariana, ricevendone ovviamente un netto diniego come mi è stato personalmente raccontato in un colloquio a lato dell’incontro dei Movimenti popolari organizzato da papa Francesco in Vaticano lo scorso novembre.
Come spesso ricorda Francesco Vignarca, uno dei massimi esperti sul mercato delle armi, i risultati non si sono fatti attendere e nel 2016 sono state autorizzate vendite verso Angola, Congo, Kenia, Sud Africa, Algeria, Marocco, Ciad, Mali, Namibia ed Etiopia facendo carta straccia della legge 185/90 che vieta le armi a Paesi in conflitto e a quelli che non rispettano i diritti umani.
Facilitatori in questi accordi sono stati i viaggi nel continente africano della ministra Roberta Pinotti e dello stesso Matteo Renzi.
2. Distruggiamo l’agricoltura locale
Mentre si vendono le armi si distrugge l’agricoltura dei Paesi Sub- Sahariani. La distruzione di una parte importante dell’agricoltura sub sahariana è diretta conseguenza degli accordi di Partenariato economico (Epa) che l’Ue, in accordo con l’Organizzazione mondiale del commercio, ha imposto all’Africa Subsahariana.
Gli obiettivi degli Epa sono: rimozione delle barriere tariffarie, difesa degli investimenti delle imprese estere, liberalizzazione del settore dei servizi, protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Ancor prima che gli Epa entrassero in vigore, il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (l’Undp), aveva ammonito l’Ue che tali accordi avrebbero provocato il crollo del Pil delle nazioni africane (in parte significativa sostenuto dai dazi doganali) e il collasso di ampi settori dell’agricoltura africana non in grado di competere con le grandi multinazionali europee sostenute dai sussidi che ogni anno la Commissione europea elargisce loro.
Tutto ciò si è drammaticamente realizzato e i mercati delle grandi metropoli africane, a cominciare da Nairobi, sono invasi da prodotti agricoli europei. Decine di migliaia di contadini sono così rimasti senza lavoro, costretti ad abbandonare la terra.
3. Ci impadroniamo delle loro terre
Contemporaneamente, nell’Africa Sub Sahariana e non solo, si è sviluppato il fenomeno del land grabbing, l’accaparramento delle terre fertili da parte di grandi multinazionali o di Stati quali la Cina.
Al 2015, considerando solo gli accordi stipulati dopo il 2000 — e solo quelli relativi ad appezzamenti di terra superiori ai 200/ettari (ha) e con un acquirente finale internazionale — erano oltre 44 milioni gli ettari oggetto di land grabbing.
Di questi 44 milioni di ettari circa il 50% sono collocati in Africa. Di questi, solo l’8% è rimasto destinato totalmente a colture alimentari; il restante 82% è destinato, almeno in parte, ad altro, ad esempio alla produzione di biocarburanti eccetera.
Le industrie italiane partecipano al fenomeno del land grabbing per un totale di 1.000.000/ha quasi tutti in Africa.
Il fenomeno del land grabbing quindi produce: espropriazione delle terre, cacciata dei contadini e delle loro famiglie, sostituzione della produzione di cibo fino ad ora destinato al consumo locale con prodotti non finalizzati all’alimentazione umana e con produzioni agricole fondate su monoculture destinate a mercati globali, lontani dalle zone di coltivazione.
Ne consegue un grave impoverimento delle popolazioni ivi residenti, abbandono della propria regione con fenomeni migratori inizialmente interni al proprio Paese e in seguito con migrazioni internazionali rivolte verso il Mediterraneo.
4. Follia e ignoranza preparano la tragedia
Potrei dilungarmi sull’accaparramento delle ricchezze del sottosuolo, fenomeno alla base di molte delle guerre per procura oggi in atto nel continente africano. E’ sufficiente ricordare il conflitto che in Congo in vent’anni ha prodotto milioni di morti.
Una guerra che ha le sue ragioni nelle ricchezze del Paese: coltan e cassiterite stanno alla base dell’industria hightech mondiale. Un esempio di come evolve il colonialismo nell’era della globalizzazione.
Ecco come “li stiamo aiutando a casa loro”.
Nessuno, fra i tanti leader politici che quotidianamente ripetono in modo ossessivo tale slogan, ha mai avanzato proposte precise sui temi qui indicati. Ammesso che sappiano di cosa si sta parlando.
Il fenomeno delle migrazioni è strutturale e trova le proprie ragioni nell’enorme divario della distribuzione della ricchezza e nelle feroci politiche di saccheggio.
O si ha il coraggio di intervenire con trasformazioni radicali che modifichino in profondità le attuali politiche, oppure andremo incontro nel prossimo futuro ad una tragedia collettiva di dimensioni inimmaginabili.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
IL GIORNALISTA, ALLA RICERCA DELLO SCANDALO ESTIVO, FA UN BUCO NELL’ACQUA DANDO LA COLPA AI MUSULMANI PERCHE’ A DISNEYLAND, NEGLI USA, HANNO COSTRETTO SUA FIGLIA A INDOSSARE IL BIKINI
Ci sono giornalisti con la schiena dritta che combattono battaglie per il riconoscimento dei diritti civili o contro le discriminazioni razziali.
Ce ne sono addirittura di quelli che denunciano le malefatte dei potenti a costo di mettere a repentaglio la vita e la carriera.
Poi c’è Nicola Porro, che invece sceglie di prendersela “con l’Islam” perchè sua figlia di sei anni è stata obbligata a indossare il bikini perchè “la sua nudità superiore avrebbe potuto turbare il pudore collettivo”.
Ed ecco un grande reportage da parte del giornalista che verrà ricordato per aver dato spazio su una rete televisiva pubblica a luminari della scienza come Eleonora Brigliadori e Red Ronnie.
Luogo del misfatto: Disneyland, USA, Stati Uniti d’America, land of the free ma anche del politicamente corretto.
Di quelli che tirano giù le statue dei generali confederati e di Cristoforo Colombo.
La colpa ovviamente è immancabilmente degli islamici. Sì, proprio loro, quelli che impongono alle donne di indossare veli, hijab, niqab e burqa.
Peccato per un dettaglio fondamentale: i musulmani generalmente non impongono il velo alle bambine.
Nella cultura islamica infatti una donna è tenuta ad indossare il velo dopo essere diventata adulta. Questa età , a seconda dei paesi e delle loro tradizione, è variabile ma a 6 anni una bambina non è una donna adulta.
Colpa tutta degli americani che non rispettano le nostre tradizioni (e non è che mandare in giro le bambine in slip sia una tradizione ma piuttosto un’abitudine) e invece sono proni nei confronti dei musulmani.
A Porro infatti non è sfuggito come nel parco a tema fossero molte le donne islamiche che indossavano il velo senza che nessuno dicesse loro nulla.
Ma in quel medesimo parco c’erano centinaia di donne completamente fasciate da opprimenti burkini: costumi che coprono dai piedi alla testa.
In omaggio a una religione che la laica America non si permette di censurare.
Ma sfugge a Porro un aspetto fondamentale: a chiedere che la bambina indossasse il bikini non sono stati i “genitori musulmani” ma i gestori del parco di divertimenti. Perchè l’America, questa grande democrazia liberale che tutto il Mondo ci invidia, è una terra di grandi contraddizioni. E soprattutto di sentimenti assai puritani. Sentimenti che però sono ispirati ad una visione cristiana della vita.
L’idea di vietare bambine “seminude” nelle piscine e nei parchi è comune in tutto il Nord America, e a volte a creato conflitti “violenti”.
Insomma, noi in Italia possiamo anche avere la “tradizione” di mandare le bambine in spiaggia senza la parte di sopra del costume. Ma Porro non era in Italia, era negli USA.
E perchè dovrebbe imporre la sua tradizione agli altri? Ovviamente perchè siam meglio dei musulmani.
Ed è inutile recriminare che negli USA non si rispetti la tradizione della famiglia Porro e si preferisca invece essere “rispettosi di una tradizione religiosa” ben più lontana.
Innanzitutto perchè la tradizione di Porro non è una tradizione religiosa, in secondo luogo perchè ciò che spinge gli americani a far coprire le bambine è la paura dei pervertiti e non certo la volontà di blandire i musulmani per tenerseli buoni svendendo parte della “nostra identità ”.
La colpa ovviamente è delle èlite culturali che secondo Porro “sembrano imbambolate, incapaci di produrre un’idea che sia una, tutte impegnate, come sono, a fare dimenticare la propria storia e le proprie tradizioni”.
Ma il punto è che negli USA quella di non fare indossare il pezzo di sopra del costume alle bambine non è una tradizione.
Porro vorrebbe invece imporre la sua tradizione a tutti gli Stati Uniti facendo credere che è una tradizione anche degli statunitensi, quando è evidente che il costume americano rispetto ai bikini è diverso, indipendentemente dall’Islam.
Possiamo discutere sul fatto che far indossare il costume a due pezzi ad una bambina di 5 anni per paura dei pervertiti sia ridicolo, oppure eccessivamente puritano ma non possiamo dimenticarci di cosa è figlio quel puritanesimo.
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
UN CENTINAIO DI FAMIGLIE SIA ITALIANE CHE STRANIERE. 15 BAMBINI E MALATI DI CANCRO: “SAPPIAMO CHE DOBBIAMO ANDARCENE, MA DOVE?”
“Hai casa per noi? Se non hai casa, puoi pure andare, il resto non ci interessa”. “Non è che vi ritrovate un paio di ciavatte? Guarda qua, queste so’ sfonnate”. “Hai per caso un vestito da maschio? È un bambino, vedi? Ma ho dovuto vestirlo da femmina”.
Non c’è tempo per i convenevoli in questa sorta di terra di nessuno a via Raffaele Costi, incastrata tra la Rustica e via di Tor Cervara, alla periferia est di Roma.
Varcato l’ingresso, appena oltre i pilastri che un tempo dovevano reggere un cancello e ora arginano, chissà ancora per quanto, la marea montante dei rifiuti che fa da orizzonte – cumuli di spazzatura di ogni specie ovunque giri lo sguardo – le richieste di aiuto ti raggiungono prima delle persone.
Li vedi avvicinarsi, alcuni in fretta, altri più lentamente, guardinghi come i gatti che sfrecciano da tutte le parti inseguiti dai cani che gli abbaiano dietro.
Donne e uomini, adulti e bambini attaccati alle gonne delle mamme o trasportati nei carrelli per la spesa, anziani e giovanissimi.
Circa cento persone, pelle bianca e nera, parlano lingue diverse, hanno storie diverse, ma vivono tutti insieme.
Occupano il palazzo che svetta alle loro spalle, mattoni di un rosso ormai sbiadito, porte e finestre sventrate ma acconciate alla bell’e meglio con cartoni, tende, teli di plastica. Niente corrente elettrica, niente acqua corrente – “andiamo avanti coi gruppi elettrogeni e l’acqua la pigliamo alle fontanelle”, spiegano – per cucinare usano le bombole del gas.
Alla fine di agosto la discarica abusiva che lo circonda è andata a fuoco e, spento l’incendio, lo stabile, già evacuato, è stato dichiarato inagibile e posto sotto sequestro. Due giorni dopo, gli occupanti erano di nuovo lì.
“Per forza – sorride amara una giovane donna – Non abbiamo altro posto dove andare”. Le fiamme hanno colpito soprattutto la parte retrostante del palazzo e qualcuno che non può più utilizzare le stanze che aveva prima ha pensato bene di tirare su una baracca nell’androne.
“Cosa può fare, ha due bambini piccoli”, sospira un anziano. “Il fuoco ci ha mangiato ogni cosa – annuisce Nicoleta – le mie lenzuola sono tutte bruciate”.
Viene dalla Romania, dove ha lasciato i suoi figli, e vive a via Costi da quattro anni con il fratello e il suocero”.
Continua a chiedere una casa “vabbè, noi siamo rumeni, capisco che non ce la vogliono dare, ma almeno a loro che sono italiani – e indica un uomo e una donna poco distanti – potrebbero darla”.
Gli italiani, già : a via Costi insieme a famiglie di etnia rom, serbi e africani, vivono anche alcuni italiani.
Un dato che fa a pezzi il clichè delle occupazioni realizzate esclusivamente dai migranti, riproposto di recente da qualche osservatore nel caso dello sgombero di piazza Indipendenza, e apre ad altre, nuove – eppure antiche – considerazioni sulla categoria degli ultimi, o, a selezionare ancora di più, dei fragili secondo il lessico in voga dalle parti del Campidoglio.
Enrico Ricciutelli è uno degli italiani che occupano lo stabile di via Costi. Ha 47 anni e vive lì da tre anni e mezzo con la moglie, Emanuela, e il loro bambino, che tra qualche mese compirà sei anni. Enrico un lavoro ce l’aveva.
“Siamo qui da tre anni e mezzo, ci siamo arrivati tramite la onlus “Altermeridia”. Mi sono ritrovato in questa situazione perchè non sono riuscito a pagare un debito pregresso di mio padre defunto. Ho perso tutto – allarga le braccia – ora lavoricchio, faccio tante cosette, ovviamente in nero. Prima facevo la guardia giurata, ma poi l’azienda per la quale lavoravo, che era già in crisi, ha chiuso per Mafia Capitale. E mi sono ritrovato completamente in mezzo alla strada. Dopo ho avuto anche un arresto per complicità in furto di rame”.
I furti di rame: qualcuno, qui a via Costi, mormora che in zona la notte si esce “a fare il rame” e, se vai avanti con le domande, ti spiegano pure come si fa a liberare il rame dai cavi. Si spellano a mano o si bruciano.
Che l’ultimo incendio sia scaturito da uno dei focolai accesi per fondere le guaine in plastica e portare alla luce il rame? “Assolutamente no, non è stata colpa nostra – risponde Enrico – l’incendio è partito dalla tangenziale qui vicina. I focolai erano rimasti accesi, il vento ha spinto le fiamme fino a qui e con tutti questi rifiuti non era difficile divampasse l’incendio che ne è scaturito”.
L’odore acre è ancora nell’aria, frigge nel naso, mentre la polvere nera che si alza da terra impasta la bocca.
Una ragazza spinge un carrello con un bambino vestito di stracci proprio nel mezzo della montagna dei rifiuti e scava con i piedi dove il fuoco ha aperto un sentiero scuro che, a guardarlo con la luce del sole che si affievolisce, al calar della sera, sembra il varco per l’inferno.
Il bambino sorride e fa ciao con la manina a un ragazzetto che gli si fa incontro puntando verso il cielo un pezzo di plastica nero che un tempo doveva essere un fucilino giocattolo.
Poco più in là una bambina, i piedi chiusi in un paio di rollerblade rosa fucsia, si ostina a scivolare sul selciato sconnesso.
I bambini sono una quindicina qui a via Costi, fiori nel cemento, e la povertà in cui si sono trovati a crescere non li ha resi refrattari alla fantasia. La più piccola non ha ancora due settimane di vita. La mamma si chiama Lidia, ha 24 anni e una prima figlia di nove. È nata in Italia, ma non è italiana e a via Costi vive col marito.
È il padre delle sue bambine e non vuole separarsene, per questo ha rifiutato di andare in una casa famiglia, come aveva proposto la sala sala operativa sociale. “Non è giusto, non è giusto – ripete – io non voglio che la mia famiglia si separi”.
“La Protezione civile è venuta, ci ha dato solo due bottigliette d’acqua ciascuno e non il cibo come è stato dichiarato – precisa Enrico – mentre l’assessore del Municipio ha proposto di prendere in carico solo alcuni casi, ma a noi non sta bene che si separino le famiglie”.
Dal Comune sono arrivati segnali? A marzo scorso Enrico e la moglie erano stati ricevuti in Campidoglio dall’ormai ex assessore Mazzillo. “Ci avevano promesso una casa, un alloggio temporaneo di housing sociale, ma poi Mazzillo si è dimesso, non abbiamo saputo più nulla – sospira Emanuela – noi abbiamo presentato domanda per un alloggio popolare, ma la domanda non risulta eseguita. Fortuna che abbiamo le copie dei documenti”.
“La mia domanda invece è stata rifiutata” esclama Vincenzo Lanotte.
Pugliese, 58 anni, prima di arrivare a via Costi ha dormito per anni in macchina a Casaletto, un’altra zona di Roma. Ha cinque figli, la moglie malata di cancro e ha perso il lavoro. “Facevo il carpentiere, il muratore, e ancora adesso faccio qualcosa all’occorrenza. Sono andato pure al collocamento a cercare lavoro, ma mi hanno detto che ci sono i giovani prima di me. La domanda per l’alloggio mi è stata rifiutata e, per un ricorso che ho fatto all’Inps, mi hanno bloccato pure la pensione, prendevo 260 euro”.
Anche lui, come Enrico, racconta “di essere arrivato qui tramite la onlus “Altermeridia”” e continua a chiedere “se per caso avete un paio di ciavatte”, mostrando i buchi aperti sotto quelle che indossa.
Gli altri occupanti scuotono la testa: no, non le ha nessuno. Una volontaria delle organizzazioni che si stanno attivando per supportare gli occupanti di via Costi ha portato kit igienici e vestiti, soprattutto per i bambini.
Le si fa incontro un gruppo di ragazzi di colore, dal quale si stacca Peter. Quasi trent’anni, arriva dalla Nigeria e tiene a mostrare il suo permesso di soggiorno, rilasciato “per motivi umanitari”.
È un rifugiato, dice, e non arriva, come altri suoi connazionali attualmente coinquilini a via Costi, dal capannone, sgomberato a metà giugno, di via di Vannina.
Qualche chilometro più in là , stesso quadrante, stesso Municipio, il quinto, medesime emergenze da affrontare.
Lo dice chiaramente Federica Borlizzi, attivista dell’organizzazione no profit Alterego-Fabbrica dei diritti.
“La grande lezione che ci arriva da via Costi è la solidarietà che si è instaurata tra gli occupanti. Persone con storie, età e problemi diversi, si sono trovate unite nella necessità di occupare uno stabile fatiscente, pur di avere un tetto sulla testa – fa notare Borlizzi – Noi intendiamo creare una rete di solidarietà per supportare queste persone, ma anche per far sì che le istituzioni si assumano le loro responsabilità per le condizioni in cui gli occupanti sono costretti a vivere. La discarica che circonda il palazzo, perchè non viene rimossa. Perchè il V Municipio non interviene? A via Costi come a via di Vannina, dove il cumulo dei rifiuti davanti al capannone occupato continua a crescere. Le soluzioni proposte finora dalla municipalità sono inadeguate. Al pari di quelle avanzate dal Comune ai rifugiati ex occupanti del palazzo di via Curtatone. Non si può pensare di separare i figli dai padri, le mogli dai mariti. Servono soluzioni reali e a lungo termine”.
Gli echi della battaglia intrapresa dai rifugiati ex occupanti di via Curtatone per ottenere un tetto sulla testa sono arrivati fino a via Costi, molto più lontana dal centro, e dai riflettori, rispetto a piazza Indipendenza, eppure – sottolineano le associazioni – caso ugualmente urgente.
Oggi pomeriggio gli occupanti del palazzo di Tor Cervara discuteranno sulle iniziative da intraprendere per denunciare la loro situazione e chiedere alle istituzioni sistemazioni adeguate.
Il fronte è unito. “Bisogna trovare una soluzione per ciascuna di queste persone. Non esiste un prima gli italiani, qui siamo tutti uguali”, dice Enrico.
Ognuno è una storia, alle spalle un passato molto diverso dal presente.
Per alcuni di loro significa anche malattia e cure insufficienti. Zvonko, slavo, ha il cancro alla gola, che gli sta accorciando respiro e giorni, Rudmila, rumena, una cardiopatia e sempre troppi pochi soldi per comprare le medicine.
Oggi a far visita, e a prestare le cure necessarie, arriverà anche l’unità mobile di InterSos, che ha visitato e soccorso anche i rifugiati di piazza Indipendenza.
A via Costi aspettano volontari e medici, nel frattempo ci si aiuta come meglio si può, secondo le regole non scritte di quella solidarietà speciale che si instaura tra chi ha poco o niente, ma una dignità e un obiettivo comune da raggiungere.
Un obiettivo che, da queste parti, si chiama casa.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
SOMMERSO DA RICHIESTE DI DIMISSIONI, IL SINDACO DI PONTINVREA CHE MINNITI HA PAURA DI COMMISSARIARE, RESTA ANCORA A PIEDE LIBERO
Il sindaco di Pontinvrea Matteo Camiciottoli raddoppia. Dopo aver suscitato un putiferio scrivendo su Facebook a proposito degli stupratori di Rimini la frase choc “Potremmo dargli gli arresti domiciliari a casa della Boldrini magari gli (lo strafalcione grammaticale è del sindaco, ndr) mette il sorriso… …che ne pensate?”, oggi torna alla carica dando alla presidente della Camera della bugiarda.
Camiciottoli scrive sulla sua pagina Facebook: “in coerenza io comunque sono pronto a chiedere scusa se Lei chiede scusa e si dimette per aver mentito al popolo italiano…” dando per scontato e accertato che Laura Boldrini abbia mentito. Su cosa lo sa solo lui, ma fa lo stesso, stronzata più, stronzata meno.
Dopo la sua prima uscita sessista hanno chiesto le sue dimissioni il gruppo Pd in consiglio regionale della Liguria, mentre il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni commentando gli insulti social del sindaco del comune ligure Pontinvrea contro la presidente della Camera Boldrini, e postando il post del direttore del TgLa7 che dà letteralmente del cretino all’esponente leghista, aggiunge: “Mi auguro in un intervento deciso del prefetto e della magistratura contro questo signore”.
Oggi Camiciottoli ha rimosso il post sugli stupratori a casa della Boldrini. Ma a molti non basta.
“Il sindaco leghista di Pontinvrea Matteo Camiciottoli deve immediatamente rassegnare le dimissioni dal ruolo di coordinatore Anci piccoli Comuni della Liguria. Dopo le SUE parole sulla presidente della Camera Boldrini non può conservare questo incarico per evidente mancanza del senso delle Istituzioni. E mi aspetto che anche l’Associazione nazionale piccoli Comuni (Anpci) prenda le distanze”. È quanto dichiara invece il deputato ligure di Possibile, Luca Pastorino.
Anche Anci Liguria prende le distanze dall’imbarazzante esponente leghista: “ANCI Liguria tiene a sottolineare che le improvvide dichiarazioni di Matteo Camiciottoli, Sindaco di Pontinvrea , pubblicate sul suo profilo Facebook e riguardanti il caso degli stupratori di Rimini, sono state rese a titolo puramente personale e in un contesto che nulla ha a che fare con il ruolo da lui ricoperto nell’Associazione dei Comuni liguri” recita una nota ufficiale.
Il noto coraggioso coi deboli ministro dell’Interno Minniti dopo aver letto le dichiarazioni di Camiciottoli ha chiesto alla prefettura di Savona di seguire e osservare la situazione. Non sia mai che faccia valere la legalità e commissari un sindaco razzista.
Intanto continuano a piovere sulla pagina del sindaco i commenti critici nei suoi confronti.
Sai che gliene frega.
(da agenzie)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
LA RIVOLTA DELLA BASE, LE BATTUTE DI D’ALEMA… MDP PENSA A UN CAMBIO DI CAVALLO E CORTEGGIA IL PRESIDENTE DEL SENATO
Se il federatore (annunciato), ovvero Giuliano Pisapia, diventa il campione della divisione di ciò che è a sinistra del Pd, si capisce perchè dentro Mpd sia partita la ricerca, anche un po’ affannata, di un “piano b”.
Anche a prescindere dall’esito dell’ennesimo “chiarimento” della prossima settimana (martedì), che segue l’ennesima incomprensione e l’ennesimo comunicato congiunto in cui si spiega che “il percorso va avanti”.
Il “piano B” porta al nome di Pietro Grasso.
È nei confronti del presidente del Senato che è iniziato un corteggiamento discreto nella forma, intenso nella sostanza.
E non a caso è prevista (e confermata) la sua presenza alla festa nazionale di Mdp che si terrà a fine mese a Napoli.
Per l’esattezza, la presentazione del suo libro si terrà il giorno 28. Spiega una fonte alta del partito di Bersani e D’Alema: “Se lui fosse disponibile, altro che piano b, sarebbe il piano a. Perchè è chiaro che, a questo punto, la questione è: anche se Pisapia ci sta, e alla fine ci starà , che ce ne facciamo? È già un cavallo azzoppato”.
Ecco. Tutto questo cincischiare tra l’abbraccio alla Boschi e la litigata sulla Sicilia, incomprensibile per il paese, in definitiva è animato solo da uno schema difensivo: “Teniamolo agganciato per non darlo a Renzi”.
Ma è convinzione comune che l’operazione sia, nella sostanza, pressochè fallita.
A cena con qualche compagno nella sua Puglia Massimo D’Alema ha affidato questo game over sostanziale a una battuta delle sue: “Federatore? Ma de che?”.
I fatti confermano. Attorno all’aggancio dell’ex sindaco di Milano doveva rinascere la sinistra (a sinistra del Pd) e invece da quando è stato designato sono più i comunicati stampa, le incomprensioni, gli avvitamenti politicisti e burocratici che i messaggi al paese: non un contenuto, non un’intervista di respiro, non una mossa che dia il senso di un nuovo inizio e di uno straccio di solennità storica e slancio emotivo.
La prima uscita del leader designato fu “non mi candido” — come dire “evito il confronto popolare” – poi sono arrivati i veti sulle candidature altrui (il perfido D’Alema ma anche il mite Bersani), poi le critiche più ai compagni di viaggio che al Pd.
Da giorni il cellulare di Roberto Speranza è diventato uno sfogatoio degli inquieti dirigenti.
Gotor, D’Attorre, Scotto, dopo un giro di iniziative in giro per l’Italia hanno rappresentato un quadro sconfortante: “Era più facile andare in giro nel ’76 a spiegare il compromesso storico che far digerire ai nostri Pisapia”, “ci dicono che siamo al doroteismo”, “la situazione è diventata grottesca, non è che nel paese fremono per sapere se arriva Pisapia, che mette pure veti in Sicilia dove non ha un voto”.
I più complottardi si spingono oltre: “A questo punto dobbiamo chiederci. O questo Pisapia è incapace politicamente o è manovrato da chi vuole tenerci fermi in questa perenne attesa”.
Dunque, il “piano b”. Perchè anche se alla fine il percorso partirà , “l’ineffabile avvocato Pisapia” (così lo chiama Massimo D’Alema) non dà garanzie in una campagna elettorale tosta. Tutti i sondaggi dicono che i voti sono dovuti al radicamento territoriale degli ex Pd e che la sua figura non aggiunge nulla, nonostante sia coccolato dai media.
In parecchi già lo immaginano in tv sbranato da Di Maio o Salvini, sempre che alla fine l’ex sindaco di Milano non si sfili ritirandosi a vita privata, altro dubbio che serpeggia su un Godot mai arrivato quantomeno col cuore nel progetto.
Bersani, in questo piano b, rappresenta il fare di necessità virtù. La Boldrini è un’ipotesi che non scalda, Grasso è il sogno.
L’ex segretario del Pd è amatissimo dal suo popolo, ma è il primo che ritiene che si debba dare un segnale di novità , di allargamento del campo.
Per questo predica pazienza su Pisapia. La Ditta è la Ditta ma anche umanamente vuole evitare di correre nel ruolo di frontman: “Mia moglie — è la battuta che ripete — non mi farebbe uscire di casa, in quel caso”.
Il presidente del Senato, finchè resterà in carica, indosserà unicamente i panni istituzionali e dunque sarà complicato capire quello che farà .
E se alla fine del suo mandato si ritaglierà un ruolo di riserva della Repubblica oppure immagina di proseguire la sua esperienza politica.
La sua agenda suggerisce che sta tenendo aperta l’interlocuzione con più mondi: la prossima settimana (il 14) presenterà il suo libro alla scuola di politica di Enrico Letta a Cesenatico, il 22 sarà alla festa di Sinistra Italiana a Reggio Emilia, il 23 alla Festa nazionale dell’Unità a Imola, il 28 poi a Napoli.
Il classico profilo, per usare un’espressione retorica e abusata, di chi costruisce ponti e non muri. Ma che comunque sta in pieno nel terreno della politica.
Ed è anche molto politico il rifiuto di candidarsi in Sicilia, considerando l’intensità e la durata del pressing che è stato messo in campo ai massimi livelli, da Orfini a Guerini a Martina. E dallo stesso Renzi.
Un rifiuto che potrebbe avere conseguenze, dopo una eventuale sconfitta in Sicilia, all’interno del Pd e in quel mondo renziano che non lo ha mai amato per il modo in cui ha presieduto l’Aula.
Sia come sia, c’è tempo, per capire che cosa farà Grasso. Il corteggiamento però è iniziato. Anche i questo caso, ai livelli più alti.
(da “Huffingtonpost“)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
SIAMO COSI’ DISPERATI CHE MOLTI, QUASI, QUASI, SI REGALEREBBERO UN NUOVO GIRO DI GIOSTRA CON L’INDOMITO IMBONITORE
Con il barboncino tra le braccia. Uhhh, che genio. A passeggio con la figlia Marina nella campagna provenzale. Madonna santa!, è davvero un genio.
Davanti agli scaffali dell’autogrill, incuriosito da un prosciutto al pepe nero. Uomo del popolo, geniale.
Questo tributo scomposto ed esagerato per ogni fotogramma, anche il più idiota, che il settimanale Chi affida alle stampe, nasconde solo la nostra disperazione per essere costretti, dopo il ventennio di fatti e misfatti, a prendere di nuovo in considerazione Silvio Berlusconi, e farne di lui, politicamente defunto, l’eterno salvatore.
La manovra di resurrezione — per avere un senso — deve trovare in lui doti miracolose. E così ci affidiamo a ogni fanfaluca fotografica per poter digerire la crudele realtà che ci circonda.
Siamo così disperati che, quasi quasi, ci regaleremmo un altro giro di giostra guidati dall’indomito imbonitore, colui che pochi mesi fa abbiamo cacciato dal Parlamento per indegnità .
E lui — purtroppo — lo sa.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
A LIVORNO UN VIDEO DEI CARABINIERI INCASTRA I DUE AGUZZINI… SONO I VALORI CHE DOBBIAMO DIFENDERE DAGLI “INVASORI”
Erano stati arrestati dai carabinieri livornesi nello scorso mese di marzo, con l’accusa di maltrattamenti e lesioni nei confronti di un disabile di 23 anni che assistevano nel suo appartamento di Livorno.
Oggi, i militari hanno diffuso il video delle violenze sul ragazzo che aveva portato gli investigatori ad arrivare all’arresto dei due operatori socio sanitari di una cooperativa convenzionata con il Comune: calci, botte, strattoni ed anche — da quanto emerge dalle indagini — il ragazzo indotto a leccare la suola delle scarpe di uno dei due.
Si tratta di una donna di 59 anni ed il collega di 28 che finiti nell’inchiesta condotta dai carabinieri dopo la denuncia della madre del ragazzo, insospettita da alcuni segni comparsi sul corpo del figlio, hanno chiesto nei giorni scorsi il patteggiamento: due anni di reclusione e pena sospesa.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
L’ASSENZA DI REGOLE CONDIVISE CREA DISPARITA’ NELL’ACCESSO
A scuola la mensa non è per tutti: quasi la metà (il 48%) degli alunni italiani delle primarie e secondarie di primo grado ancora non ha accesso al servizio di refezione, mentre in 8 regioni la situazione è ancora più grave, con più di 1 bambino su 2 che non ne usufruisce.
Evidenti le differenze tra Nord e Sud: cinque le regioni del Meridione che registrano il numero più alto di alunni che non hanno accesso alla mensa: Sicilia (80%), Puglia (73%), Molise (69%), Campania (65%) e Calabria (63%).
È quanto emerge dal rapporto ‘(Non) Tutti a Mensa 2017’, quarta edizione del monitoraggio realizzato nell’ambito della campagna ‘Illuminiamo il Futuro’ da Save the Children, alla vigilia dell’inizio dell’anno scolastico.
Il dossier rivela come “l’assenza di regole condivise — sottolinea l’organizzazione — contribuisce all’ampia disparità nell’accesso, con molti istituti che non consentono ai bambini di avvalersi in modo adeguato di un importante strumento di educazione alimentare e inclusione”.
Un quarto dei comuni monitorati, inoltre, non prevede l’esenzione totale del pagamento della retta e le tariffe minime e massime sono disomogenee.
Persino la lotta alla morosità rischia di ricadere sui bambini. Oltre a questa disparità ci sono poi le criticità individuate dagli alunni: il poco spazio, la rumorosità e la qualità del cibo non sempre reputata sufficiente.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 6th, 2017 Riccardo Fucile
ALLEANZA CONTRO LA POVERTA’: “OCCORRONO 5, 1 MILIARDI IN PIU’ RISPETTO AI DUE SCARSI STANZIATI”… “LA MEDIA DEL BENEFICIO E’ DI APPENA 289 EURO AL MESE”
“Il Reddito di inclusione andrà ad appena un povero su quattro“.
A una settimana dall’approvazione in via definitiva da parte del Consiglio dei ministri, l’Alleanza contro la povertà in Italia, ricorda che per rendere davvero “universale” il nuovo strumento per la lotta all’indigenza servono molti più fondi.
Per ora si tratta di “un’innovazione importante, ma non sufficiente”, ha sottolineato in conferenza stampa alla Camera il coordinamento di oltre trenta tra associazioni, sindacati e rappresentanze di comuni e regioni, che è stato tra i promotori del Rei.
La platea sarà di 400mila famiglie, pari a circa 1,8 milioni di persone, ma a trovarsi in povertà assoluta sono ben 4,75 milioni di italiani, pari al 7,9% della popolazione complessiva.
“Va dato atto a governo e Parlamento di avere conseguito un risultato importante”, ha riconosciuto l’Alleanza. Ma “riceveranno il Rei 1,8 milioni di individui, cioè il 38% del totale. Pertanto, il 62% dei poveri ne rimarrà escluso“.
Per essere beneficiari del Reddito di inclusione è infatti necessario avere un Isee, in corso di validità , non superiore a 6mila euro e un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20mila euro.
Hanno accesso prioritario alla misura i nuclei familiari con figli minorenni o disabili, le donne in stato di gravidanza e i disoccupati ultra cinquantacinquenni.
Il Rei è compatibile con lo svolgimento di un’attività lavorativa, ma non con la contemporanea fruizione, da parte di qualsiasi componente del nucleo, della NASpI o di qualunque altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria.
L’Alleanza contro la povertà parla di “discriminazione”, soprattutto ai danni dei più piccoli.
“Il 41% dei minori in povertà assoluta non sarà raggiunto dalla misura. Il profilo attuale della misura dividerà i poveri in due gruppi: quelli che riceveranno il Rei e quelli che non lo riceveranno, poveri di serie A e poveri di serie B. Tale discriminazione può essere compresa solo se temporanea e, quindi, da considerare come un primo passo nella prospettiva di un progressivo ampliamento dell’utenza”.
La proposta del coordinamento di associazioni — di cui fanno parte, tra le altre, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Confcooperative, Save The Children e Cgil-Cisl-Uil — è di adottare un Piano nazionale contro la povertà per il prossimo biennio 2018-2020, che prosegua il percorso iniziato con l’introduzione del Rei.
L’obiettivo è quello di estendere gradualmente la misura a tutti gli indigenti, sostenendone l’attuazione “soprattutto a livello locale, dove c’è un impegno congiunto di Stato, Regioni e altri soggetti”.
Secondo il coordinatore dell’Alleanza e presidente Acli Roberto Rossini, alla conclusione del piano, nel 2020, serviranno a regime circa 5,1 miliardi in più rispetto al miliardo e 845 milioni di euro attuali.
“Solo con queste risorse e con servizi adeguati l’Italia sarà dotata di una misura nazionale contro la povertà assoluta che possa dirsi universale, ovvero rivolta a chiunque viva in tale condizione, continuamente monitorata e adeguata nei contributi economici e nei percorsi di inclusione. Altrimenti — concludono le associazioni — il Rei costituirà l’ennesima riforma incompiuta nella storia italiana”.
Il Reddito di inclusione, che diventerà esecutivo dal primo gennaio 2018, è articolato in due componenti: un beneficio economico erogato su dodici mensilità , con un importo che andrà da circa 190 euro mensili per una persona sola fino a 490 euro per un nucleo con 5 o più componenti, e una componente di servizi alla persona che daranno vita a un progetto personalizzato volto al superamento della condizione di povertà , cioè all’inserimento o reinserimento lavorativo.
L’assegno, in parte, sarà condizionato allo svolgimento di specifiche attività . “Attualmente l’ammontare medio del beneficio economico previsto dal Rei è di 289 euro al mese, mentre secondo noi dovrebbe essere di 396 euro“, continua l’Alleanza contro la povertà . “La cifra attuale non è bassa, ma non permette di rispondere alle necessità delle famiglie in condizione di povertà assoluta”, ha spiegato il professor Cristiano Gori.
“L’obiettivo è rafforzare questo strumento già con la prossima legge di bilancio, come anche detto dal premier Gentiloni”, ha replicato il deputato del Pd Edoardo Patriarca, ringraziando Alleanza contro la povertà per aver “sostenuto questa battaglia contro l’esclusione sociale”.
(da agenzie)
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