TRA GLI INVISIBILI DI TOR CERVARA CHE HANNO RIOCCUPATO LO STABILE DICHIARATO INAGIBILE: “NON ESISTE UN PRIMA NOI ITALIANI, QUA SIAMO TUTTI UGUALI”
UN CENTINAIO DI FAMIGLIE SIA ITALIANE CHE STRANIERE. 15 BAMBINI E MALATI DI CANCRO: “SAPPIAMO CHE DOBBIAMO ANDARCENE, MA DOVE?”
“Hai casa per noi? Se non hai casa, puoi pure andare, il resto non ci interessa”. “Non è che vi ritrovate un paio di ciavatte? Guarda qua, queste so’ sfonnate”. “Hai per caso un vestito da maschio? È un bambino, vedi? Ma ho dovuto vestirlo da femmina”.
Non c’è tempo per i convenevoli in questa sorta di terra di nessuno a via Raffaele Costi, incastrata tra la Rustica e via di Tor Cervara, alla periferia est di Roma.
Varcato l’ingresso, appena oltre i pilastri che un tempo dovevano reggere un cancello e ora arginano, chissà ancora per quanto, la marea montante dei rifiuti che fa da orizzonte – cumuli di spazzatura di ogni specie ovunque giri lo sguardo – le richieste di aiuto ti raggiungono prima delle persone.
Li vedi avvicinarsi, alcuni in fretta, altri più lentamente, guardinghi come i gatti che sfrecciano da tutte le parti inseguiti dai cani che gli abbaiano dietro.
Donne e uomini, adulti e bambini attaccati alle gonne delle mamme o trasportati nei carrelli per la spesa, anziani e giovanissimi.
Circa cento persone, pelle bianca e nera, parlano lingue diverse, hanno storie diverse, ma vivono tutti insieme.
Occupano il palazzo che svetta alle loro spalle, mattoni di un rosso ormai sbiadito, porte e finestre sventrate ma acconciate alla bell’e meglio con cartoni, tende, teli di plastica. Niente corrente elettrica, niente acqua corrente – “andiamo avanti coi gruppi elettrogeni e l’acqua la pigliamo alle fontanelle”, spiegano – per cucinare usano le bombole del gas.
Alla fine di agosto la discarica abusiva che lo circonda è andata a fuoco e, spento l’incendio, lo stabile, già evacuato, è stato dichiarato inagibile e posto sotto sequestro. Due giorni dopo, gli occupanti erano di nuovo lì.
“Per forza – sorride amara una giovane donna – Non abbiamo altro posto dove andare”. Le fiamme hanno colpito soprattutto la parte retrostante del palazzo e qualcuno che non può più utilizzare le stanze che aveva prima ha pensato bene di tirare su una baracca nell’androne.
“Cosa può fare, ha due bambini piccoli”, sospira un anziano. “Il fuoco ci ha mangiato ogni cosa – annuisce Nicoleta – le mie lenzuola sono tutte bruciate”.
Viene dalla Romania, dove ha lasciato i suoi figli, e vive a via Costi da quattro anni con il fratello e il suocero”.
Continua a chiedere una casa “vabbè, noi siamo rumeni, capisco che non ce la vogliono dare, ma almeno a loro che sono italiani – e indica un uomo e una donna poco distanti – potrebbero darla”.
Gli italiani, già : a via Costi insieme a famiglie di etnia rom, serbi e africani, vivono anche alcuni italiani.
Un dato che fa a pezzi il clichè delle occupazioni realizzate esclusivamente dai migranti, riproposto di recente da qualche osservatore nel caso dello sgombero di piazza Indipendenza, e apre ad altre, nuove – eppure antiche – considerazioni sulla categoria degli ultimi, o, a selezionare ancora di più, dei fragili secondo il lessico in voga dalle parti del Campidoglio.
Enrico Ricciutelli è uno degli italiani che occupano lo stabile di via Costi. Ha 47 anni e vive lì da tre anni e mezzo con la moglie, Emanuela, e il loro bambino, che tra qualche mese compirà sei anni. Enrico un lavoro ce l’aveva.
“Siamo qui da tre anni e mezzo, ci siamo arrivati tramite la onlus “Altermeridia”. Mi sono ritrovato in questa situazione perchè non sono riuscito a pagare un debito pregresso di mio padre defunto. Ho perso tutto – allarga le braccia – ora lavoricchio, faccio tante cosette, ovviamente in nero. Prima facevo la guardia giurata, ma poi l’azienda per la quale lavoravo, che era già in crisi, ha chiuso per Mafia Capitale. E mi sono ritrovato completamente in mezzo alla strada. Dopo ho avuto anche un arresto per complicità in furto di rame”.
I furti di rame: qualcuno, qui a via Costi, mormora che in zona la notte si esce “a fare il rame” e, se vai avanti con le domande, ti spiegano pure come si fa a liberare il rame dai cavi. Si spellano a mano o si bruciano.
Che l’ultimo incendio sia scaturito da uno dei focolai accesi per fondere le guaine in plastica e portare alla luce il rame? “Assolutamente no, non è stata colpa nostra – risponde Enrico – l’incendio è partito dalla tangenziale qui vicina. I focolai erano rimasti accesi, il vento ha spinto le fiamme fino a qui e con tutti questi rifiuti non era difficile divampasse l’incendio che ne è scaturito”.
L’odore acre è ancora nell’aria, frigge nel naso, mentre la polvere nera che si alza da terra impasta la bocca.
Una ragazza spinge un carrello con un bambino vestito di stracci proprio nel mezzo della montagna dei rifiuti e scava con i piedi dove il fuoco ha aperto un sentiero scuro che, a guardarlo con la luce del sole che si affievolisce, al calar della sera, sembra il varco per l’inferno.
Il bambino sorride e fa ciao con la manina a un ragazzetto che gli si fa incontro puntando verso il cielo un pezzo di plastica nero che un tempo doveva essere un fucilino giocattolo.
Poco più in là una bambina, i piedi chiusi in un paio di rollerblade rosa fucsia, si ostina a scivolare sul selciato sconnesso.
I bambini sono una quindicina qui a via Costi, fiori nel cemento, e la povertà in cui si sono trovati a crescere non li ha resi refrattari alla fantasia. La più piccola non ha ancora due settimane di vita. La mamma si chiama Lidia, ha 24 anni e una prima figlia di nove. È nata in Italia, ma non è italiana e a via Costi vive col marito.
È il padre delle sue bambine e non vuole separarsene, per questo ha rifiutato di andare in una casa famiglia, come aveva proposto la sala sala operativa sociale. “Non è giusto, non è giusto – ripete – io non voglio che la mia famiglia si separi”.
“La Protezione civile è venuta, ci ha dato solo due bottigliette d’acqua ciascuno e non il cibo come è stato dichiarato – precisa Enrico – mentre l’assessore del Municipio ha proposto di prendere in carico solo alcuni casi, ma a noi non sta bene che si separino le famiglie”.
Dal Comune sono arrivati segnali? A marzo scorso Enrico e la moglie erano stati ricevuti in Campidoglio dall’ormai ex assessore Mazzillo. “Ci avevano promesso una casa, un alloggio temporaneo di housing sociale, ma poi Mazzillo si è dimesso, non abbiamo saputo più nulla – sospira Emanuela – noi abbiamo presentato domanda per un alloggio popolare, ma la domanda non risulta eseguita. Fortuna che abbiamo le copie dei documenti”.
“La mia domanda invece è stata rifiutata” esclama Vincenzo Lanotte.
Pugliese, 58 anni, prima di arrivare a via Costi ha dormito per anni in macchina a Casaletto, un’altra zona di Roma. Ha cinque figli, la moglie malata di cancro e ha perso il lavoro. “Facevo il carpentiere, il muratore, e ancora adesso faccio qualcosa all’occorrenza. Sono andato pure al collocamento a cercare lavoro, ma mi hanno detto che ci sono i giovani prima di me. La domanda per l’alloggio mi è stata rifiutata e, per un ricorso che ho fatto all’Inps, mi hanno bloccato pure la pensione, prendevo 260 euro”.
Anche lui, come Enrico, racconta “di essere arrivato qui tramite la onlus “Altermeridia”” e continua a chiedere “se per caso avete un paio di ciavatte”, mostrando i buchi aperti sotto quelle che indossa.
Gli altri occupanti scuotono la testa: no, non le ha nessuno. Una volontaria delle organizzazioni che si stanno attivando per supportare gli occupanti di via Costi ha portato kit igienici e vestiti, soprattutto per i bambini.
Le si fa incontro un gruppo di ragazzi di colore, dal quale si stacca Peter. Quasi trent’anni, arriva dalla Nigeria e tiene a mostrare il suo permesso di soggiorno, rilasciato “per motivi umanitari”.
È un rifugiato, dice, e non arriva, come altri suoi connazionali attualmente coinquilini a via Costi, dal capannone, sgomberato a metà giugno, di via di Vannina.
Qualche chilometro più in là , stesso quadrante, stesso Municipio, il quinto, medesime emergenze da affrontare.
Lo dice chiaramente Federica Borlizzi, attivista dell’organizzazione no profit Alterego-Fabbrica dei diritti.
“La grande lezione che ci arriva da via Costi è la solidarietà che si è instaurata tra gli occupanti. Persone con storie, età e problemi diversi, si sono trovate unite nella necessità di occupare uno stabile fatiscente, pur di avere un tetto sulla testa – fa notare Borlizzi – Noi intendiamo creare una rete di solidarietà per supportare queste persone, ma anche per far sì che le istituzioni si assumano le loro responsabilità per le condizioni in cui gli occupanti sono costretti a vivere. La discarica che circonda il palazzo, perchè non viene rimossa. Perchè il V Municipio non interviene? A via Costi come a via di Vannina, dove il cumulo dei rifiuti davanti al capannone occupato continua a crescere. Le soluzioni proposte finora dalla municipalità sono inadeguate. Al pari di quelle avanzate dal Comune ai rifugiati ex occupanti del palazzo di via Curtatone. Non si può pensare di separare i figli dai padri, le mogli dai mariti. Servono soluzioni reali e a lungo termine”.
Gli echi della battaglia intrapresa dai rifugiati ex occupanti di via Curtatone per ottenere un tetto sulla testa sono arrivati fino a via Costi, molto più lontana dal centro, e dai riflettori, rispetto a piazza Indipendenza, eppure – sottolineano le associazioni – caso ugualmente urgente.
Oggi pomeriggio gli occupanti del palazzo di Tor Cervara discuteranno sulle iniziative da intraprendere per denunciare la loro situazione e chiedere alle istituzioni sistemazioni adeguate.
Il fronte è unito. “Bisogna trovare una soluzione per ciascuna di queste persone. Non esiste un prima gli italiani, qui siamo tutti uguali”, dice Enrico.
Ognuno è una storia, alle spalle un passato molto diverso dal presente.
Per alcuni di loro significa anche malattia e cure insufficienti. Zvonko, slavo, ha il cancro alla gola, che gli sta accorciando respiro e giorni, Rudmila, rumena, una cardiopatia e sempre troppi pochi soldi per comprare le medicine.
Oggi a far visita, e a prestare le cure necessarie, arriverà anche l’unità mobile di InterSos, che ha visitato e soccorso anche i rifugiati di piazza Indipendenza.
A via Costi aspettano volontari e medici, nel frattempo ci si aiuta come meglio si può, secondo le regole non scritte di quella solidarietà speciale che si instaura tra chi ha poco o niente, ma una dignità e un obiettivo comune da raggiungere.
Un obiettivo che, da queste parti, si chiama casa.
(da “Huffingtonpost”)
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