Gennaio 26th, 2018 Riccardo Fucile
L’INIZIATIVA DEI “GIOVANI PADANI” LOCALI… POI LA MARCIA INDIETRO DEI VERTICI: “CI DISSOCIAMO E PRENDEREMO PROVVEDIMENTI”
Un fantoccio raffigurante la presidente della Camera Laura Boldrini, con tanto di fotografia
corredata da slogan contro le politiche migratorie, un altro raffigurante il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. sono stati dati alle fiamme ieri sera dal ‘Movimento Giovani Padani’ della Lega, in piazzale Einaudi a Busto Arsizio, in provincia di Varese.
E’ accaduto durante la festa tradizionale in onore della ‘Gioeubia’, ricorrenza popolare del Nord Italia, nella quale si brucia un fantoccio in segno di buon auspicio e che nei secoli ha assunto le sembianze di una strega.
“Gioeubia 2018! Vi aspettiamo questa sera dalle 19 per il falò e risottata in centro!”, avevano scritto i giovani leghisti sulla loro pagina Facebook, sulla cui bacheca hanno postato le immagini di quanto preparato in vista del falò.
Per i vertici provinciale e cittadino della Lega di Varese, quanto accaduto è “goliardia giovanile che non voleva mancare di rispetto all’oramai ex presidente della Camera”.
I dirigenti leghisti ricordano come sia “comunque tradizione in Lombardia bruciare in questo periodo il vecchio per augurarsi un anno migliore che possa andare oltre agli aspetti negativi appena passati”.
Secondo il Carroccio varesino, “il messaggio politico voleva intendere quello di voltare pagina, così come è stato fatto negli anni scorsi con altri rappresentanti politici”.
La polizia ha comunque avviato indagini, volte al momento all’identificazione dei creatori del fantoccio e degli autori del rogo.
Si valuterà poi se nei loro confronti siano configurabili ipotesi di reato.
In serata la presa di distanza. Il coordinamento federale del Movimento giovani padani di Milano ha fatto sapere che si dissocia “nella maniera più assoluta rispetto a quanto accaduto questa sera nella piazza di Busto Arsizio”.
I vertici milanesi del movimento, sottolineano invece che il loro contrasto alle “pessime politiche del governo” avviene “con la sola forza delle idee, non con atti di violenza”.
Il coordinamento, preso atto di quanto accaduto, “provvederà a emanare provvedimenti disciplinari verso i responsabili”, recita una nota che ha valore per l’intera federazione nazionale.
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2018 Riccardo Fucile
L’IRA DELLA CROCE ROSSA: DA ANNI CHIEDIAMO UN EDIFICIO
Il sole di mezzogiorno riscalda il sonno dei senzatetto disseminati sulle panchine del lungomare di Ostia. È un piacere effimero.
Quando la luce cala e il freddo gela l’asfalto, la ricerca di un riparo per passare la notte diventa una questione di sopravvivenza, ma nel quartiere sul mare di Roma, grande quanto una città , non c’è nessun tetto per i clochard.
Il «piano freddo» della Capitale, che a Ostia ha ben poco di pianificato, da tre anni si limita alle soluzioni di emergenza fornite dalla Croce Rossa: tre tende da campo, lucide e bianche, montate in un parcheggio di fronte a una scuola e a una biblioteca comunale.
Le macchine dei genitori dei bambini sfilano lì davanti alle sei di pomeriggio, finite le attività del doposcuola, mentre i primi clochard iniziano ad arrivare.
«Da tre anni troviamo le tende qui davanti», dice uno dei genitori che si ferma di fronte all’ingresso con l’auto, in attesa del figlio. «Non mi sembra nè una situazione umana per loro, nè rassicurante per noi». In effetti, spesso, gli ospiti del piccolo campo «hanno problemi di alcolismo», ammettono i volontari che prestano servizio nel campo.
«Sono quasi tutti dell’Europa dell’Est e solo qualche italiano». Pochissime le donne, nonostante una delle tre tende sia riservata proprio a loro. Chi arriva già ubriaco non può entrare, assicurano, ma lo spazio è all’aperto e quindi difficile da controllare. Non è una rarità che l’alcol riesca in qualche modo a eludere i controlli e il rischio, allora, è che si scateni un litigio, talvolta una rissa. «Servirebbe una volante della polizia fissa qui davanti», sostengono genitori e volontari, perchè «i senza tetto hanno difficoltà a relazionarsi tra loro, specie in piccoli spazi comuni come questo».
I volontari, con l’aiuto della protezione civile, preparano nel primo pomeriggio le trenta brandine in file ordinate.
Le coperte colorate, la biancheria stesa su un filo, qualche zaino logoro lasciato in un angolo, una busta di plastica trasparente in cui è stato riposto un pezzo di sapone e un rasoio: sono la testimonianza dei quindici senza tetto ospitati nei primi giorni di apertura delle tende. Il timore è che a breve, grazie al rapido passaparola che scorre sui marciapiedi, i trenta posti possano non essere più sufficienti.
Di certo, tre tende montate in un parcheggio davanti a una scuola «non possono essere considerate un «piano contro il freddo».
Più che una soluzione, è una toppa», dice senza girarci intorno Debora Diodati, presidente della Croce Rossa di Roma. «Per questo chiediamo da anni, insieme alle altre associazioni di volontariato, che venga fornito dal Comune un edificio idoneo». Una struttura confiscata alle mafie, magari, nel quartiere appena uscito proprio da un commissariamento per mafia, o una caserma, una scuola chiusa.
«Sarebbe un bel segnale», dice ancora Diodati, ma «le istituzioni non ci hanno mai ascoltati». Quanto meno, quest’anno il «piano freddo» a Ostia è iniziato in anticipo rispetto al 2017, quando le tende erano state montate a febbraio, poche settimane prima dell’arrivo della mite primavera romana. Un tetto, delle mura, e una porta aperta ai senza fissa dimora già dall’inizio di dicembre è tutto ciò che vorrebbero le associazioni di volontariato. Una richiesta rimasta inascoltata per anni.
Chi soffre maggiormente la denunciata assenza delle istituzioni sono le piccole realtà di volontariato. Ne sono sopravvissute poche.
Qualcuno, come Franco De Donno, ha scelto di entrare in politica. Qualcun altro ha gettato la spugna. La rete ha iniziato a disfarsi dopo l’inchiesta di Mafia Capitale e il commissariamento del X municipio.
Il sistema di Buzzi e Carminati aveva affondato radici velenose proprio nel mondo del sociale. Da quando il marcio si è disfatto, però, sono stati in pochi ad aver trovato il coraggio di affrontare il difficile territorio di Ostia. E senza la presenza delle istituzioni, persino la Croce Rossa Italiana finisce per arrendersi al gelo, con tre tende di plastica in un parcheggio e nulla più.
(da “La Stampa”)
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Gennaio 26th, 2018 Riccardo Fucile
UN POMERIGGIO CON UN GIOCATORE: “SMETTO SOLO QUANDO NON HO PIU’ SOLDI IN TASCA”… E LO STATO BISCAZZIERE ROVINA LE FAMIGLIE CHE A PAROLE DICE DI VOLER AIUTARE
Nove minuti e 42 secondi è quanto serve per giocarsi lo stipendio di un operatore di call
center. Mille euro.
Lorenzo se li fuma in una sala gioco di Rivoli, alle porte di Torino, una delle più grandi del Piemonte. Ha 46 anni e alcune imprese. Altre le ha perse, e così case, auto, oggetti di valore. È stato in cura, non ha risolto nulla. «Certi giorni gioco anche 30 mila euro. Se mi fermo è perchè non ne ho più».
Va in giro con un collirio in tasca. «A forza di stare davanti a quegli schermi ho sempre gli occhi secchi».
Un pomeriggio con lui serve a capire quanto ordinanze e leggi concepite per arginare la malattia del gioco d’azzardo rischino di stroncarne solo un angolino, oltretutto il più innocuo, lasciando indisturbati i piccoli casinò.
Le slot machine installate nei bar e nelle tabaccherie – quelle che con le nuove leggi potrebbero sparire – accettano monete da uno o 2 euro e consentono una vincita massima di 100 euro a sessione.
Ogni puntata parte da un minimo di 10-25 centesimi e può variare da 6 a 12 secondi; non si può perdere più di un euro e 50 al minuto.
Le videolottery che prosciugano il conto di Lorenzo accettano banconote fino a 100 euro, ma senza limiti, in compenso sono tarate per consentire una vincita massima di 5 mila euro a sessione, eccetto le poche volte in cui esce il jackpot di sala, che può arrivare a un massimo di 500 mila euro.
Ma soprattutto bruciano soldi a velocità impressionante.
I primi cento euro vanno via in un niente: cinque linee, puntata massima di 2 euro su ciascuna, 10 euro ogni volta che la mano si abbassa sul pulsante. Tredici colpi, dieci perdenti e tre vincenti: 20 euro, poi 40, poi 20. Un minuto e tredici secondi dopo Lorenzo ha bruciato, di fatto, 180 euro.
Non fa una piega, cambia apparecchio e anche gioco: questo si chiama Just Jewel, si tratta sempre di sperare in combinazioni di simboli, disegni, carte. Inserisce 200 euro: 85 secondi dopo il credito è zero.
Il «casinò» di Rivoli occupa una palazzina: al piano terra c’è il bingo e una sala gioco; al primo piano altre slot.
Si sta ammassati in pochi metri quadrati, gli apparecchi uno sull’altro. Eppure c’è un silenzio irreale, quasi ipnotico, rotto soltanto dai jingle degli apparecchi e i colpi dei giocatori.
Ogni volta che la mano batte sul pulsante è una puntata, massimo 10 euro. «Guardali, sono in trance». Muti, fissano gli schermi impassibili, muovono solo una mano ripetutamente per puntare e puntare ancora. Quando hanno perso tutto, con un gesto lento, si sfilano il portafogli e prendono un’altra banconota.
E quando il portafogli è vuoto, non c’è problema: al primo piano ci sono due Pos, al piano terra c’è uno sportello bancomat.
La legge che la Regione Piemonte ha approvato due mesi fa vuole bandire le slot nei bar e tabacchi a meno di 500 metri dai bancomat. Ma qui sono dentro le sale gioco ed è tutto regolare, almeno per ora.
Dopo nemmeno dieci minuti Lorenzo ha polverizzato mille euro. Accanto a lui una coppia sui settant’anni: lui seduto su uno sgabello, lei in piedi gli tiene una mano sulla spalla. Non si dicono una parola.
Quando i soldi sono finiti lei li tira fuori dalla borsa, li inserisce nella macchina e la mano di lui ricomincia a battere. Nessuna gioia per una vincita, nessuna per una perdita. Luci basse, gli addetti svuotano decine di posacenere pieni di mozziconi. Dentro questi stanzoni nessuno parla ma tutti consumano una sigaretta dietro l’altra.
Lorenzo, nel frattempo, ha puntato altri 100 euro. Ne ha vinti 600. Poi 1052. Dall’apparecchio esce una ricevuta: serve per incassare la vincita o reinvestirla nella stessa slot o in un’altra. Allora qualche volta si vince.
«Guarda che siamo sotto. Prima ne avevo persi 1400». Chi non ha la sua dimestichezza perde la bussola. Per lui no.
«Per vent’anni ho giocato nei casinò. Ero loro ospite: alberghi, cene. Ho giocato anche un milione in un colpo solo. Nel 2009 ho detto stop. Un anno dopo ho cominciato a giocare alle Vlt: pensavo fosse più facile addomesticare le mie pulsioni. Sbagliavo: perdevo la cognizione del tempo, non andavo più in azienda». Qualche anno fa ha avuto un aneurisma. «Avevo appena perso 30 mila euro, ero furioso».
Ha trascorso due mesi in ospedale. «Ho capito che dovevo rallentare, raccontavo bugie alla mia famiglia». Ha provato a curarsi. «Non è servito. Cerco di limitarmi: amici e parenti mi controllano, non gioco grandi somme anche perchè non le ho più».
Eppure continua a giocare. E a perdere. Un pomeriggio senza esagerare, 4 mila euro giocati. «Più perdi e più senti che devi recuperare. Allora alzi le puntate, giochi su più macchine. E perdi di più. Giocavo anche su quattro-cinque apparecchi contemporaneamente: 10 euro al colpo, 50 euro ogni due secondi. Sono macchine infernali: finchè erano nei casinò era un conto, ma ora sono dappertutto. Sotto casa. E per tutti. Chi gioca nei bar ci mette tempo a rovinarsi. Lì c’è il titolare, magari qualche cliente ti conosce. In queste sale chi ti vede è nel tuo stesso vortice».
Mentre i Comuni adottano ordinanze per ridurre gli orari di gioco e il Piemonte ha deciso di bandire le slot nel raggio di 500 metri dai luoghi sensibili, le sale gioco prosperano lontane da scuole e ospedali, con i bancomat all’interno, e i Pos che accettano carte di credito, i parcheggi pieni di utilitarie e le stanze invase di pensionati e gente in tenuta da lavoro.
In Italia 50 mila Vlt raccolgono giocate per circa 24 miliardi, tanto quanto le 400 mila slot dei bar.
Eppure il governo sta per autorizzare l’apertura di 5 mila nuove sale videolottery.
(da “La Stampa”)
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Gennaio 26th, 2018 Riccardo Fucile
IN UN PANORAMA POLITICO DI “ISMI” TOCCA AI GIOVANI RICOSTRUIRNE DEI NUOVI
La costruzione post-ideologica ha funzionato come la goccia cinese: ha scavato un buco profondo nelle democrazie occidentali.
L’effetto desiderato era quello di “svecchiare” un panorama politico carico di rimandi novecenteschi ritenuti ormai desueti per applicare un nuovo sistema economico.
Uno che — auspicabilmente per chi lo ha sostenuto — non avesse la controindicazione del controllo democratico e sociale.
Invece non aver sostituito nulla alla fine delle ideologie ha sortito come unico effetto quello di rivitalizzarne due: il partito dell’ideologia inconsapevole e quello del tentativo della riscoperta.
Così, in un panorama nel quale sembra archiviata la distinzione destra/sinistra e trionfano l’arancione, il fuxia, il verde, l’amaranto, colori della politica dei frammenti che ha preso il posto di quella dei sistemi di valori, metà dei giovani italiani sono orientati ad astenersi. Di un dibattito che non si interessa di loro se non per strumentalizzarli, d’altra parte, cosa se ne dovrebbero fare?
Di una classe dirigente che pensa ancora il mondo del lavoro in termini di imprenditori e dipendenti, cosa se ne fa una generazione che sperimenta l’autosfruttamento?
Di una classe dirigente che pensa ancora che ci sia da scegliere fra il lavoro nell’industria pesante e la tutela dell’ambiente, che cosa se ne fa una generazione che si impegna a costruire dalle università e dai centri di ricerca quell’avanzamento tecnologico che permette la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario e pure l’ammodernamento e la riconversione ecologica degli impianti?
Di una classe dirigente che pensa a come mantenere la Riforma Fornero o a come riformarla ma senza dare fastidio a nessuno, cosa se ne fa una generazione che per anni e anni lavora senza versare contributi e contemporaneamente vive delle pensioni che già ci sono?
Di una classe dirigente che concepisce la politica solo come disintermediazione o, al versante opposto, solo come centralismo democratico di fedele seguito a coloro che stanno al vertice, cosa se ne fa una generazione che mai come oggi è social, in cerca di condivisione e costruzione di reti, ma alla quale non viene insegnata l’alfabetizzazione politica necessaria a organizzarsi e autorappresentarsi?
Di una classe dirigente che ha ceduto progressivamente tutto il suo potere alle multinazionali, all’economia e alla finanza, cosa se ne fa una generazione che per i colossi della logistica ci lavora e che capisce che sono Jeff Bezos e Mark Zuckerberg i veri decisori?
Che cosa se ne potranno mai fare i giovani di chi li considera a turno dei “bamboccioni”, dei “choosy”, degli “sdraiati”, che li considera cavie per imparare, grazie alle nuove regole europee, “la durezza del vivere” (Padoa Schioppa, 2003), ma poi chiede loro di fare di più e di meglio di ciò che è nelle loro possibilità ?
Si potrebbe continuare a lungo.
Come hanno dimostrato il 4 dicembre 2016, i giovani sanno che anche la rottamazione, come tanti gattopardeschi rinnovamenti venuti prima, era uno specchietto per allodole. Arriverà anche lo smascheramento della democrazia come click online.
Aumentare a dismisura il livello di conflitto politico su questioni di forma più che di merito, etichettare tutto ciò che esce dagli schemi delle èlites come “populismo”, ha prodotto l’effetto desiderato di una fitta nebulosa.
Ma anche quello indesiderato di lasciar intravedere, nella foschia, le cose davvero importanti.
Nel trionfo della post-modernità , a circa dieci anni dalla crisi, quando l’unica ideologia lecita è rimasta la “stabilità ” così che un membro della Commissione Europea può dire impunemente che “il voto italiano è un rischio politico”, ciò che è rimasto ai giovani per orientarsi nella cosa pubblica sono le grandi idee più che le grandi coalizioni: socialismo, capitalismo, comunismo, fascismo persino.
Non stupisce che su La Stampa Letizia Tortello scriva un pezzo intitolato “Per i giovani inglesi il capitalismo è più minaccioso del comunismo”.
Gli “ismi” sono più rassicuranti dei leader costruiti in provetta, sono più eloquenti di una classe dirigente maggiormente interessata a parlarsi addosso che non agli elettori.
Gli “ismi” condizionavano il mondo, erano potenti; erano cioè tutto il contrario degli slogan dell’impotenza che usano i nostri politici, consci di aver sostenuto per troppo tempo che “non c’è alternativa” o che “ce lo chiede l’Europa” e cose del genere, per smentirsi proprio ora sperando di cavarsela.
Gli “ismi” suppliscono al vuoto della politica contemporanea offrendo un orizzonte, una bibliografia per i più colti, una serie di risultati delle ricerche su Google per i più desiderosi di immediatezza.
In un panorama politico pudico di “ismi”, in cui ciascuno sembra vergognarsi del suo, tocca ai giovani denunciarne la scomparsa e ricostruirne di nuovi.
Sono loro ad avere il potere di inserire un terzo elemento in un sistema binario: fra il neoliberismo progressista e il populismo reazionario (definizione di Nancy Fraser) inseriscono l’ecosocialismo, fra l’austerità mortificante e l’eccesso per pochi inseriscono la ricerca del benessere diffuso, fra lo status quo borghese e la guerra a tutto ciò che è società inseriscono la socializzazione delle paure e dei bisogni, fra il modello della competizione sfrenata di tutti contro tutti e quello dell’omologazione inseriscono la ricerca del sè che passa attraverso l’incontro con gli altri.
Fra la destra e la sinistra inseriscono le grandi necessità : fermare il cambiamento climatico, fermare le guerre, fermare l’impoverimento. In alcuni casi ci stanno riuscendo.
Non è un caso che la ricerca fatta sui giovani che preferiscono il comunismo al capitalismo sia stata elaborata da una società di sondaggi con sede in Inghilterra.
La spiegazione che i giovani sarebbero tradizionalmente più “estremisti” e quindi “di sinistra” non regge più: la sinistra socialdemocratica centrista europea, in più di un’occasione, ha dimostrato di possedere il suo zoccolo duro fra gli over 60 non certo fra gli under30.
Oltre ai numeri del voto giovanile strappato (per lo più) all’astensione dei casi di France Insoumise, Podemos e altri, il caso inglese è emblematico.
Il Labour Party di Jeremy Corbyn ha raccolto nel 2017 più del 60% del consenso giovanile. Come abbia fatto lo ha detto lui stesso, dal palco del Festival musicale di Glastonbury lo scorso giugno, davanti a 150mila di quei ragazzi:
“La politica riguarda le vite di tutti noi, e la meravigliosa campagna nella quale sono stato impegnato, […] ha riportato le persone in politica perchè credevano che ci fosse qualcosa in palio per loro. Ma ciò che è stato anche più motivante è stato il numero di giovani che si sono impegnati per la prima volta. Perchè erano stanchi di essere denigrati, stanchi di sentirsi dire che non contano”.
Corbyn ha capito quello che le classi dirigenti italiane non afferrano o fingono di non afferrare: la nostra generazione non ha bisogno solo di essere convinta a votare questo o quello, ma di essere persuasa.
Qui si trova la differenza anche con i qualunquisti: questi ultimi non vogliono convincere nessuno, mentre oggi più che mai è necessario farlo.
Un sistema politico che non offre ai suoi giovani nessuna battaglia che valga la pena combattere davvero, è un sistema politico morto o molto prossimo al decesso. Se non altro perchè l’effetto sperato, quello di sopire i conflitti e condannare all’accettazione, alla rassegnazione e alla solitaria frustrazione silente, sarà sostituito dall’effetto temuto: quello dello scoppio di passioni e pulsioni per altre vie.
Sono passati 40 anni dal ’68, 29 anni dal crollo del Muro di Berlino e mancano poco più di 40 giorni al voto.
Della Guerra Fredda, del ’94, di Nanni Moretti e di Sigonella, di Lenin e di Reagan, potremmo chiederci, come nel celebre ritornello di Gabry Ponte, “che ne sanno i Duemila?”: quest’anno, votano.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 26th, 2018 Riccardo Fucile
PER FARE CHIAREZZA SULLE VARIE PROPOSTE MEGLIO CONOSCERNE IL SIGNIFICATO
Secondo gli ultimi dati del 2017 sulla povertà in Italia, oggi sono 1 milione e 619mila le
famiglie residenti, per un totale di 4 milioni e 742mila individui, che vivono in condizione di povertà assoluta, cioè legata a necessità fisiologiche di base (il fabbisogno nutrizionale minimo, la disponibilità di beni e servizi essenziali per la sopravvivenza).
Nel 2016 è aumentata l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie con tre o più figli minori, così come è aumentata fra i minori, arrivando a coinvolgere 1 milione e 292mila nel 2016.
La povertà relativa, legata alle difficoltà economiche in rapporto al livello medio di vita, risulta stabile e riguarda il 10,6% delle famiglie; è più diffusa nei casi di 4 componenti o 5 componenti e colpisce maggiormente le famiglie giovani, dove la persona di riferimento è under 35, rispetto al caso di un ultra sessantaquattrenne, restando elevata nei casi di disoccupati e di operai e assimilati.
La problematica della povertà è molto sentita già a livello internazionale, tanto che il patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 stabilisce il diritto alla “libertà dalla fame che includa una alimentazione, alloggio e vestiario adeguati” (art. 11), e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, prevede espressamente il diritto a una esistenza dignitosa per le persone che non dispongono di risorse sufficienti. Considerata la dimensione della povertà e i suoi riflessi sociali ed economici, vale la pena di riassumere le proposte che animano in campagna elettorale il dibattito sui mezzi di contrasto alla condizione di indigenza: si sente parlare, spesso confondendo i termini, di reddito di cittadinanza, di reddito minimo garantito, di reddito d’inclusione.
Il reddito di cittadinanza consiste in una erogazione monetaria, periodica, durante tutta la vita del beneficiario, attribuita indistintamente a tutti i cittadini e residenti, cumulabile con altri redditi, erogata sia ai lavoratori sia ai disoccupati: gli unici Paesi ad averlo adottato sono l’Alaska, che lo finanzia con un dividendo dei profitti prodotti dall’estrazione petrolifera ed energetica, e la Finlandia che lo ha introdotto nel gennaio 2017 a livello sperimentale per un periodo di due anni.
Cosa diversa è il reddito minimo garantito, erogato solo chi è in età lavorativa e con una retribuzione inferiore a una determinata soglia ritenuta di povertà , ed eventualmente prende a riferimento il reddito del nucleo familiare.
I modelli di reddito minimo garantito in Europa (Germania, Francia, Gran Bretagna, Olanda) richiedono però l’attiva ricerca di un lavoro da parte del beneficiario.
Il reddito di inclusione è stato introdotto nel nostro Paese dal D.Lgs. 147/2017 ed è entrato in vigore il 1 gennaio 2018; i beneficiari sono circa 1,8 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta.
L’importo d’aiuto va da un minimo di 190 euro per i singoli fino a un massimo di 485 euro al mese per le famiglie di 5 o più persone.
Ad averne diritto sono le famiglie con un Isee non superiore a 6000 euro all’anno, un valore del patrimonio immobiliare non superiore a 20.000 euro e un valore del patrimonio mobiliare (depositi, conti correnti) non superiore a 10mila euro (ridotto a 8 mila euro per la coppia e a 6 mila euro per la persona sola).
Il riconoscimento del reddito di inclusione è condizionato alla sottoscrizione del progetto finalizzato all’inclusione sociale e lavorativa a cui il componente della famiglia deve attenersi: le famiglie che non rispettano il progetto subiranno la decurtazione o decadenza dal reddito di inclusione 2018.
Inoltre, trattandosi di una misura a sostegno del reddito, il reddito di inclusione è incompatibile con la contemporanea fruizione da parte di qualsiasi componente il nucleo familiare della NASpI (indennità di disoccupazione).
Diverso da tutti i precedenti e oggetto di grande dibattito è il salario minimo: mentre il reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito e il reddito d’inclusione sono forme di assistenza (indipendente dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato), il salario minimo è costituito dal limite minimo della paga oraria, giornaliera o mensile fissata per legge, che i datori di lavoro devono corrispondere ai propri lavoratori dipendenti. Nell’Unione europea, 22 stati su 28 hanno adottato normative sul salario minimo, mentre i restanti sei paesi (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) demandano l’individuazione della paga-base alla contrattazione collettiva dei vari settori.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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