Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
LA VICENDA DI MANDURIA E LE VIOLENZE PER SETTE ANNI A DANNO DI UN ANZIANO DA PARTE DI 14 MINORENNI, TUTTI LICEALI E FIGLI DI FAMIGLIE BENESTANTI…CHE CI STANNO A FARE LE FORZE DELL’ORDINE SE PUR SAPENDO NON SONO INTERVENUTE?
C’è un video che immortala, in parte, una delle tante atroci aggressioni che Antonio Cosimo Stano avrebbe subito per anni prima di morire.
È uno dei tanti che i suoi giovanissimi aguzzini giravano e si scambiavano su WhatsApp. Si tratta di un filmato molto breve, girato al buio, le immagini non sono chiare. Ma l’audio si sente bene. Si sentono le risate della persona, quasi sicuramente minorenne, che riprendeva.
È agghiacciante pensare che mentre questo 66enne inerme, solo, e con qualche problema psichico veniva vessato, malmenato, umiliato, il branco rideva.
È forse ancora più agghiacciante il fatto questo pensionato di Manduria, Comune di poco più di 30mila abitanti in provincia di Taranto, subisse angherie dal 2012. Sette anni.
Sette anni di violenze, persecuzioni, e – per la vittima – di paura.
Sette anni di assenza di umanità , in una comunità che sapeva, ma che non è riuscita a fermare la gang. O che, secondo alcuni abitanti che hanno mostrato la loro indignazione sui social, non ha fatto abbastanza.
Sono 14 i giovanissimi indagati per i reati, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio, danneggiamento e di omicidio preterintenzionale.
Tra le ipotesi c’è anche l’omicidio perchè Stano è morto martedì scorso, dopo 18 giorni di ricovero in ospedale e due interventi chirurgici. L’autopsia dovrà stabilire se la morte è conseguenza delle percosse ricevute da parte dei 12 minorenni e dei due maggiorenni indagati.
I poliziotti del Commissariato erano intervenuti il 6 aprile scorso nell’appartamento dell’uomo. L’avevano fatto su segnalazione dei vicini di casa.
Quando sono entrati Stano era immobile su una sedia, in uno stato psico-fisico precario, e in condizioni di assoluto degrado. Visibilmente provato, non dormiva e non si alimentava. I bulli lo chiamavano “il pazzo del Villaggio del fanciullo”, dal nome dell’oratorio annesso alla chiesa di San Giovanni Bosco che si trova davanti alla sua abitazione.
E lo sottoponevano ripetutamente a violenza, quasi come fosse un oggetto con il quale divertirsi. Non si fermavano davanti alle sue sofferenze. A distanza di giorni, di mesi, tornavano a vessarlo, approfittandosi della sua debolezza.
Stano aveva paura di uscire dal suo appartamento. Qualche giorno prima del suo ricovero, i bulli oltre a picchiarlo gli avevano sottratto 300 euro. Ma restare in casa non bastava: i componenti della gang si intrufolavano nell’abitazione, lo aggredivano, lo rapinavano. Lo terrorizzavano. E, spiegano gli inquirenti, filmavano quei momenti, per diffonderli in chat.
Viene da chiedersi da dove nasca questa violenza inaudita, alla quale si fa quasi fatica a credere. L’avvocato di alcuni dei presunti aguzzini parla di loro come dei giovani simili a tanti altri: “Sono tutti ragazzi normalissimi, studenti di liceo nati e cresciuti a Manduria in contesti familiari a modo, figli di commercianti, impiegati pubblici”. Persone comuni, gente per bene, si direbbe.
L’avvocato chiama in causa altre persone: “Tutti quelli che si sono avvicinati a questa vicenda, mandando, ricevendo o inoltrando video e messaggi sui due gruppi WhatsApp in esame sono coinvolti – spiega – per il momento la Procura, che ha secretato gli atti, ha sequestrato tutti i cellulari e non possiamo far nulla”.
Resta da capire se prima che Stano morisse qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa per evitare che continuasse a essere bersaglio dei bulli. Che l’anziano fosse vittima delle angherie dei ragazzini era cosa nota: si evince dai commenti fatti dalle persone del luogo.
La Voce di Manduria, giornale locale, ne riporta uno. È stato postato su Facebook da un educatore della parrocchia della cittadina: “Personalmente ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati. Ora provo dispiacere per l’uomo, ma anche per i ragazzi che, ahimè hanno perso l’occasione di vivere serenamente la propria età come tanti altri”.
La questione era stata sollevata, insomma, e probabilmente non solo dalla persona che ha scritto questo messaggio. Ma le segnalazioni non sono state sufficienti. Stano è morto dopo anni di sofferenza, dopo giorni di paura, solo, senza supporto. Senza che nessuno sia riuscito a tirarlo fuori da questa spirale dell’orrore.
A pochi giorni dalla sua morte resta una comunità sgomenta e un inevitabile refrain. Ha il suono di una domanda, anche in questo caso la riportano i giornali locali: “Come è potuto accadere?”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
E AVVERTE: DALLE RIFORME INVERSIONE DI TENDENZA NEGATIVA
Il giudizio è lo stesso dato a ottobre: BBB con outlook negativo. Poi il monito: “Inversione
sul fronte delle riforme ha spinto l’economia in recessione”
Standard and Poor’s lascia invariato il rating dell’Italia. Il livello resta a BBB con outlook negativo. C’era grande attesa per il ‘verdetto’ dell’agenzia di rating, che è arrivato in serata, a mercati chiusi.
Ed è identico all’ultimo giudizio, rilasciato a ottobre, quando S&P decise di rivedere l’outlook da stabile a negativo. L’Italia si conferma così a due gradini sopra il livello “junk”, ossia spazzatura, la soglia di pericolo reale.
Da parte dell’agenzia, però, un monito: un’inversione di tendenza sul fronte delle riforme e una volatilità della domanda esterna hanno spinto l’economia italiana in recessione.
Le cattive notizie continuano: “I rischi per la posizione fiscale dell’Italia stanno crescendo”.
Un riferimento poi alla situazione politica “i continui cambiamenti politici indeboliscono il potenziale di crescita” del Paese.
L’agenzia di rating sottolinea inoltre come l’economia italiana sarà in una fase di stallo quest’anno e come le politiche del governo rischiano di rafforzare la rigidità dei salari e del mercato del lavoro.
In Italia sia per il governo che le banche si registra inoltre “un marcato deterioramento delle condizioni finanziarie esterne”.
Finora le agenzie di rating hanno dato tempo al Governo italiano, in particolare Moody’s quando lo scorso 15 marzo decise di rinviare ogni decisione in attesa di sviluppi. Da allora però c’è stata una revisione peggiorativa delle principali stime macroeconomiche italiane, legato anche a un aggravamento della cornice internazionale, certificato nel Def approvato dal Governo di Roma. Per questo il pronunciamento di S&P diventa significativo.
L’agenzia ha recentemente rivisto al ribasso le stime sul Pil dell’Italia nel 2019 allo 0,1%, dal +0,7% stimato a dicembre.
La sola tensione da verdetto ha pesato sull’andamento dei titoli di Stato italiani sui mercati finanziari. Lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi aveva mostrato dopo la pausa pasquale una pericolosa tendenza al rialzo.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
AGOSTINO RICCARDO, IN CARCERE PER ASSOCIAZIONE MAFIOSA: “ABBIAMO AFFISSO MANIFESTI, LE CITTA’ ERANO TAPPEZZATE”… IN CAMBIO L’APPALTO SUI RIFIUTI
“Abbiamo fatto anche la campagna di Noi con Salvini che ci pagava… Perchè se avessero vinto le elezioni l’appalto sui rifiuti sarebbe andato tutto alla sua impresa”.
Il primo a parlare era stato Renato Pugliese, esponente pentito del clan Di Silvio di Latina.
L’impresa è quella di Raffaele Del Prete, imprenditore arrestato nell’inchiesta Touchdown per un giro di tangenti.
Ora, riporta La Repubblica, un secondo pentito, Agostino Riccardo, ha fornito nuovi elementi: “Abbiamo operato l’affissione dei manifesti il giorno prima delle elezioni — ha raccontato ai magistrati l’uomo, finito in carcere lo scorso anno con l’accusa di associazione mafiosa — contravvenendo al divieto. In tal modo, il giorno dopo a Terracina e a Latina, dove avevamo il partito Noi con Salvini, le città erano tappezzate dei manifesti dei candidati che sponsorizzavamo”.
La vicenda era emersa il 12 giugno 2018, giorno in cui la polizia aveva arrestato 25 esponenti del clan Di Silvio accusati a vario titolo di associazione a delinquere di tipo mafioso, traffico di droga, estorsione, violenza privata, favoreggiamento, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, corruzione e reati elettorali.
“Per la prima volta contestiamo il reato di associazione mafiosa a un gruppo originario del posto che ha nel tempo accumulato un potere criminale modellandolo sull’archetipo del 416 bis”, aveva spiegato il procuratore aggiunto Dda Michele Prestipino.
“L’altra novità sono i reati in materia elettorale — proseguiva Prestipino — si tratta di manovalanza nell’attacchinaggio elettorale e compravendita di voti. Nella loro complessità questi fatti sono indici importanti della mafiosità del gruppo, capace di stringere rapporti con la politica“. In particolare gli inquirenti hanno rilevato episodi di “acquisizione di consenso elettorale attraverso la promessa di denaro: 30 euro a voto“.
Dalle carte dell’inchiesta era emerso che due degli arrestati avevano fatto “attività di propaganda elettorale” per la lista di Salvini alle amministrative 2016 a Terracina.
Il protagonista della vicenda è proprio Agostino Riccardo. Il 4 giugno 2016 la polizia di Terracina lo aveva trovato in compagnia di due pregiudicati locali nel parcheggio del McDonald’s che sorge lungo la via Pontina: Gianluca D’amico, finito ai domiciliari nell’operazione, e Matteo Lombardi, “soggetto sottoposto a misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno”.
Nell’auto di quest’ultimo c’erano “numerosi manifesti riguardanti i candidati alle elezioni amministrative di Latina e Terracina, nonchè materiale utilizzato per l’affissione”.
Tra questi anche quelli “lista Salvini candidato Zicchieri“. Ovvero Francesco, coordinatore del Lazio e attuale vice-capogruppo della Lega alla Camera.
Nell’inchiesta emergeva anche il ruolo di Roberto Bergamo, imprenditore candidato a Latina in una lista a sostegno del candidato sindaco Angelo Tripodi, oggi capogruppo della Lega in Consiglio regionale del Lazio: Bergamo, annotava il Gip, “ha promesso ad un numero indeterminato di persone un compenso di 30 euro per ottenere il voto in suo favore”.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
LA SENTENZA APRE LA STRADA A MIGLIAIA DI RICORSI, VINCE LA LEGALITA’, SCONFITTO SALVINI
Il caso di un cittadino pakistano potrebbe mettere a serio rischio la stretta sulle
concessioni dell’asilo ai migranti che ne fanno richiesta.
E’ la Corte di Cassazione ad intervenire disponendo che per negare l’asilo a un richiedente bisogna provare che tornando nel suo Paese non rischierebe la vita. E l’onere della prova è ribaltato e tocca ai magistrati che non possono più basarsi su generiche “fonti internazionali”.
Una sentenza che potrebbe allargare le maglie dell’asilo in controtendenza con le indicazioni che arrivano dalla legge Salvini.
Con queste motivazioni i giudici della Suprema Corte hanno accolto il ricorso di un cittadino pakistano che si era visto negare l’asilo sulla base di generiche “fonti internazionali” che attesterebbero l’assenza di conflitti nel paese di provenienza.
Adesso la Cassazione esorta i magistrati a evitare “formule stereotipate” e a “specificare sulla scorta di quali fonti” abbiano acquisito “informazioni aggiornate sul Paese di origine” dei richiedenti asilo. Accolto ricorso di un pakistano.
Sulla base di questi principi – inviati al Massimario – la Suprema Corte ha dichiarato “fondato” il reclamo di Alì S., cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città , nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale
Alì – difeso dall’avvocato Nicola Lonoce – ha fatto presente che la decisione era stata presa “in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili” e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine.
Il reclamo ha fatto ‘centro’, e la Cassazione ha sottolineato che il giudice “è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate”, e non di “formule generiche” come il richiamo a non specificate “fonti internazionali”. Il caso sarà riesaminato a Lecce.
(da agenzie)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
VIDEO DI SEVIZIE, FERMATI 14 GIOVANI, 12 SONO MINORENNI, PARTICOLARI AGGHIACCIANTI… MA PERCHE’ LE FORZE DELL’ORDINE E I GENITORI CHE ERANO STATE INFORMATI NON SONO INTERVENUTI PER ANNI?
Emergono particolari agghiaccianti dall’inchiesta sulla morte del pensionato manduriano, Antonio Cosimo Stano , per la quale sono indagate quattordici persone, dodici non ancora maggiorenni, che devono rispondere di omicidio preterintenzionale ed altri reati gravissimi.
Il branco di ragazzini (i due maggiorenni hanno appena 19 e 22 anni) che secondo gli investigatori avrebbe usato violenza sull’uomo per derubarlo ed anche per gioco, avrebbe filmato le proprie bravate scambiandosi poi i video nelle chat.
Le scene riprese che chi le ha viste le ha definite «in stile arancia meccanica», il film di Stanley Kubrick, opera cult sulla violenza di un gruppo di giovani che quotidianamente commettevano azioni criminali su persone indifese in cerca di emozioni, sarebbero la prova in mano agli inquirenti.
Scene di una brutalità inaudita con richiesta di denaro, insulti, aggressioni animalesche con calci e pugni e addirittura con dei bastoni sull’uomo inerme e indifeso, gravato, tra l’altro da problemi psichici che lo tenevano lontano da amicizie e incline all’isolamento. La vittima ideale, insomma, del bullismo elevato all’ennesima potenza.
Le aggressioni, ripetute nel tempo, sarebbero avvenute sia in casa del pensionato ma anche all’esterno, per strada, davanti a persone che non intervenivano in difesa del più debole.E non da adesso.
In giro esisterebbero video vecchi addirittura di sei anni. Il povero Stano, insomma, era diventato (e così lo chiamavano nel branco), «il pazzo del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio e della chiesa di San Giovanni Bosco situato proprio di fronte alla sua abitazione.
La notizia degli indagati sta scuotendo le coscienze dei manduriani che si interrogano sul «come sia potuto accadere».
Molto significativo è l’intervento di un educatore della parrocchia in questione, Roberto Dimitri che su Facebook ha pubblicato un lungo intervento che prova quanto le vessazioni e le violenze su Stano fossero conosciute da molti.
Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente — scrive – ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati.
Ora — aggiunge – provo dispiacere per l’uomo, ma anche per i ragazzi che, ahimè hanno perso l’occasione di vivere serenamente la propria età come tanti altri». Mi piacerebbe — conclude – che da queste occasioni i centri come l’oratorio, le strutture di aggregazione sociale, potessero avere una rivalutazione da parte delle famiglie che devono sentirsi scomodate nel bene e per il bene dei propri figli».
L’esame autoptico dirà se la morte del sessantaseienne è stata causata dai traumi subiti ripetutamente dall’uomo o l’esito di fattori patologici propri, magari aggravati dallo stato di profonda prostrazione in cui era caduta la vittima costretta a non uscire da casa per timore di incontrare i suoi aguzzini.
(da “La Voce di Manduria”)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
MATTARELLA SEGNALA TIMORI E CORRETTIVI SULLA LEGITTIMA DIFESA, LA LEGGE VIENE DEMOLITA E ORA IL M5S GONGOLA (DOPO AVERLA VOTATA)
Quando Matteo Salvini ha letto la lettera che il Quirinale ha inviato al Parlamento
contestualmente alla firma sulla legge della legittima difesa, ha tirato un sospiro di sollievo e si è irritato.
Perchè, dopo averla compulsata con i suoi, da un lato ha preso atto che le parole di Sergio Mattarella non snaturano l’impianto del provvedimento. Dall’altro il Capo dello stato ha del tutto stroncato qualunque possibile tipo di propaganda sul filo del “la difesa è sempre legittima” già strombazzato dalle camicie verdi fin dal momento della presentazione.
“Va preliminarmente sottolineato che la nuova normativa non indebolisce nè attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia”, scrive il presidente della Repubblica.
Poi il passaggio decisivo: “L’art.2 della legge, modificando l’art.55 del codice penale, attribuisce rilievo decisivo ‘allo stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto’: è evidente che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Insomma: stop alla propaganda del si può sparare sempre e comunque messa in piedi dagli uomini del Carroccio.
Passa qualche decina di minuti, ed ecco la risposta del ministro degli Interni: “Io ascolto con interesse estremo i rilievi del capo dello Stato, ma la legittima difesa è legge dello Stato e i rapinatori da oggi sanno che se entrano in una casa, un italiano può difendersi senza rischiare di passar anni davanti a un tribunale in Italia”.
Una risposta tutta politica, che mostra le spallucce al Colle e tocca il tasto che più sta a cuore al Capo dello stato. Perchè il suo non è un anatema, ma un invito stringente soprattutto ai magistrati affinchè il “turbamento” derivante dal “pericolo” richiamato dalla legge non sia un dato di fatto assodato in tutti i (pochissimi) casi di reazione a un’effrazione, ma abbia solidi argomenti oggettivi da riscontrare in sede giudiziale.
Nessuna licenza di uccidere, insomma, ma uno stato che attraverso le forze dell’ordine e l’amministrazione della giustizia deve conservare uno stretto monopolio sull’uso della forza, tranne rare e giustificate eccezioni.
Salvini sa che è sul versante della penetrazione del messaggio securitario nell’opinione pubblica che passano i dividendi elettorali del provvedimento. E così la macchina del Carroccio si mette subito in moto per arginare un’eventuale inerzia in senso opposto.
Esce l’Associazione nazionale magistrati, che plaude il Colle. Esce l’Unione dei penalisti italiani, che spiega come l’intervento di Mattarella vanifichi gli effetti della riforma.
Gongola il Movimento 5 stelle: “La pistola di Salvini ora è scarica”, gongola un uomo molto vicino a Luigi Di Maio sorridendo.
Sono note le riserve del Guardasigilli Alfonso Bonafede sul testo, e la glaciale freddezza con la quale le truppe stellate hanno accolto l’approvazione sia alla Camera sia al Senato. Proprio il sottosegretario a 5
stelle del ministero della Bongiorno, Mattia Fantinati, spiega ad Huffpost: “Il presidente richiama giustamente quei valori nei quali crediamo e per i quali la sicurezza non può appiattirsi su approcci sicuritari”. E continua: “La vera sicurezza la fai con le politiche che combattono le cause sociali del crimine, non certo con la repressione muscolare o, peggio, con la proliferazione delle armi”. Universi paralleli.
Il disinnescarsi di un argomento forte di propaganda fa gioco ai pentastellati. E si inserisce nel quadro turbolento delle polemiche tra gli alleati, deflagrate sui porti chiusi e che hanno raggiunto l’apice con il caso che ha coinvolto Armando Siri.
Un quadro nel quale i 5 stelle cercano di tessere una tela che gli dia un solido ancoraggio al Colle. Per accreditarsi come interlocutori privilegiati della maggioranza, certo. Ma anche per avere più carte da giocare in caso di crisi. Che nessuno, nei conciliaboli di Palazzo, è più disposto a giurare che alla fine non ci sarà .
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
CONTE RESTA CON IL CERINO IN MANO, 400 MILITARI ITALIANI A RISCHIO GRAZIE A UN GOVERNO DI INCAPACI
Sbarca a Pechino, ma il primo pensiero è a Tripoli .
La telefonata del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al primo ministro del Governo di accordo nazionale libico (Gna) Fayez al-Sarraj dà conto di una situazione che sta precipitando. Non tanto sul piano militare quanto su quello internazionale.
Roma non intende immolarsi nella difesa di un governo, quello guidato da Sarraj, che sulla carta è l’unico riconosciuto internazionalmente, ma che nei fatti è stato abbandonato al suo destino da tutti i maggiori attori globali e regionali impegnati nella guerra per procura che da quasi tre settimane sta sconvolgendo il Paese nordafricano.
Conte ha fatto il punto con Sarraj e a Pechino avrà un incontro con uno dei più attivi sostenitori del maresciallo Khalifa Haftar: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
L’Italia “non è nè a favore di Sarraj nè a favore di Haftar, ma a favore del popolo libico, che ha il diritto di vivere in pace”. Così il premier italiano spiegando che la posizione italiana sulla crisi libica non è a favore di un singolo attore. “Il mio governo – ha assicurato – mira alla stabilizzazione del Paese”.”Ho detto più volte che la situazione militare non è affidabile”, ha aggiunto il premier, ribadendo che “non è con l’opzione militare che si può stabilizzare la Libia”.
“Con Putin ci siamo scambiati qualche parola ma non era il contesto giusto” per parlare di Libia: “Abbiamo rinviato il colloquio più concreto su questi temi a domani”. La versione di Tripoli: nel colloquio telefonico con il premier libico Conte “ha annunciato che l’Italia compirà tutti gli sforzi possibili per mettere fine a questa crisi e allo spargimento di sangue libico”.
Lo riferisce la pagina Facebook dell’Ufficio stampa del Governo di accordo nazionale libico. “Conte ha affermato che non c’è soluzione militare alla crisi in Libia”, riferisce ancora il post.
Il premier italiano, riferisce ancora la nota dell’Ufficio informazione del presidente del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale, “si è appellato a una fine immediata di questo attacco e al ritorno delle forze di Haftar alle loro postazioni precedenti».
Nel colloquio telefonico, incentrato “sugli ultimi sviluppi della situazione politica e di quella sul terreno”, “il primo ministro ha ribadito il rifiuto totale da parte dell’Italia dell’attacco alla capitale libica, Tripoli, che riporta la Libia ai tempi delle guerre dopo che era vicina a una soluzione politica della crisi”, scrive ancora il post.
Le notizie ricevute da Conte nelle ultime ore sono inquietanti: a Bengasi e Tobruk sono segnalate manifestazioni contro l’Italia, con tanto di accuse, smentite decisamente da Roma, di un coinvolgimento dei nostri soldati di stanza a Misurata a fianco delle forze fedeli a Sarraj.
Le forze in Cirenaica che stanno con l’uomo forte di Bengasi chiedono all’Italia di essere ascoltate, accusandola persino di sostenere il terrorismo assieme a Turchia e Qatar.
Lo fanno con un appello dai toni forti di denuncia contro le “mosse pro Tripoli” italiane e, come scrivono, contro la “presenza di soldati italiani con compiti poco chiari e sicuramente non di carattere umanitari” Il documento è firmato da 45 tra leader della società civile, dirigenti di associazioni umanitarie e personalità tra Tobruk e Bengasi. Una richiesta che ha il sapore dell’ultimatum: “Occorre
che l’Italia ritiri al più presto il suo ospedale militare da Misurata. Abbiamo le prove che quella struttura ormai non ha più nulla di umanitario, ma costituisce un valido aiuto per le milizie di Misurata che combattono contro il nostro esercito”, dice all’inviato del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi, il generale Ahmed Mismari, portavoce del maresciallo Haftar,
“L’ospedale era stato inviato per assistere i feriti negli scontri contro Isis a Sirte nel 2016. Ma quei combattimenti sono terminati da un pezzo, perchè restano 400 soldati italiani? Da quella base partono gli aerei che bombardano le nostre truppe e causano vittime anche tra i civili. Crediamo che gli italiani abbiano un ruolo nel addestrare le milizie. Non va bene, devono andarsene”, aggiunge dal suo ufficio di Bengasi.
E’ l’ennesimo, inquietante segnale che viene lanciato all’Italia.
Mentre il Generale fa campagna acquisti nel fronte avversario, portando dalla sua parte la potente milizia di Zintan, nominandone il capo, Idris Madhi, “comandante occidentale” del Lna, ormai la maggior parte delle principali cancellerie internazionali si sta schierando a favore di Haftar e l’invito all’Italia ad abbandonare il campo islamista che sostiene Al-Sarraj è già arrivato da più parti.
Solo due giorni fa, sia Conte che il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, hanno ribadito il sostegno “convinto” dell’Italia agli sforzi diplomatici messi in atto dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamè.
Ma la nostra diplomazia ha dovuto registrare i silenzi o le parole di circostanza spese dai partner europei e dagli attori regionali, per non parlare di Mosca e Washington, alla missione a Roma dell’ex diplomatico libanese.
Mai come in queste convulse giornate, la cronaca diplomatica s’intreccia con quella di guerra. Gli elicotteri d’assalto del Esercito nazionale libico (Lna), guidato da Haftar, hanno bombardato nella notte alcune zone di Tripoli. L’intervento dell’aviazione dell’uomo forte della Cirenaica arriva a tre settimane dall’inizio dell’offensiva per conquistare la capitale libica.
Negli scontri, dal 4 aprile in poi, sono morte quasi 300 persone, e 1500 sono rimaste ferite.
Haftar dispone di alcuni elicotteri di fabbricazione russa Mi-24, risalenti agli anni Ottanta ma ancora efficienti. Sono in grado di lanciare missili aria-terra con una certa precisione e sono già stati impiegati nelle battaglie di Bengasi e Derna, fra il 2014 e il 2018.
Ma le forze dell’Lna allineano anche alcuni Mig-21, Mig-23 e Mirage F-1, già utilizzati senza grossi risultati. Una guerra civile che si è trasformata ormai in una guerra per procura.
Una nave da guerra francese è rimasta ormeggiata per diverse ore al porto di Ras Lanuf, nell’est della Libia, controllato dalle forze del maresciallo Haftar.
A riferirlo è il corrispondente di al Jazeera secondo cui la nave avrebbe scaricato “munizioni ed equipaggiamento militare per Khalifa Haftar”. Per altri fonti si è trattato invece di uno scalo tecnico per fare rifornimento.
In ogni caso, il comandante della Marina del Governo di accordo nazionale di Tripoli, Redha Issa, ha avvertito che qualsiasi infiltrazione nel Paese via è “un tentativo di suicidio”.
A livello regionale Haftar gode del sostegno esplicito di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. A livello mondiale Russia e Francia lo appoggiano anche se non apertamente. Ma è stata la telefonata di Donald Trump, il 15 aprile, a dargli il via libera definitivo per quello che dal punto di vista del diritto internazionale è l’assalto a un governo legittimo, l’unico riconosciuto dall’Onu.
La notizia riportata ieri da Bloomberg segna una svolta e getta un’ombra su quanto detto dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, che aveva annunciato la contrarietà Usa all’offensiva militare di Haftar chiedendogli di fermare le operazioni. Inizialmente gli Usa avevano sostenuto una risoluzione britannica al Consiglio di sicurezza dell’Onu per chiedere lo stop dell’assalto da parte di Haftar, ma poi hanno cambiato posizione e da allora domina lo stallo.
L’Ue è riuscita ad approvare un appello in questa direzione ma non ha nominato Haftar dopo che la Francia ed altri Paesi si erano opposti. Troppi gli interessi in gioco e le alleanze trasversali, sullo sfondo della contrapposizione tra i filo islamisti di Tripoli e Misurata e i loro avversari, ma anche della lotta per il controllo di un Paese strategico sul piano geo-politico ed energetico
La conversazione di Trump con Haftar è avvenuta dopo che il presidente egiziano al-Sisi ha incontrato il suo omologo americano, il 9 aprile scorso, sollecitandolo a sostenere il generale libico, secondo due fonti. La chia
mata del presidente Usa ha sdoganato il maresciallo come campione “nella lotta al terrorismo”. Ma prima c’è stata un’altra telefonata decisiva per le sorti della Libia, quella fra il presidente Usa e il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayef. Sarebbe stato Mbz a convincere l’inquilino della Casa Bianca che Haftar era l’uomo giusto per rimettere le cose a posto nel Paese nordafricano. Poi sono arrivati finanziamenti sauditi per 30 milioni e l’invio di nuovi droni d’attacco che hanno permesso l’avvio dell’offensiva. Non chiamatela giravolta, non scrivete di “tradimento”, non accennate a un voltafaccia. La geopolitica non confina con l’etica, ma fa rima con interessi nazionali, visioni strategiche.
È il campo della prosa, anche la più dura, e non della poesia. Per questo il “cambio di cavallo” compiuto da Donald Trump in Libia va annoverato come un atto di lucida e logica coerenza. Quello di The Donald è stato un intervento reso necessario perchè, di fronte all’imbelle diplomazia europea, l’unico modo per puntellare Sarraj è quello di provare a scendere a patti con l’uomo forte della Cirenaica, e con gli attori regionali che lo sostengono.
E qui sta la lucida e logica coerenza del tycoon: se si vuole davvero provare a stabilizzare il Vicino Oriente, è imprescindibile puntare sul più popoloso e strategico paese del mondo arabo: l’Egitto. L’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, che un referendum senza opposizioni ha consacrato a presidente a vita. In Libia, Trump e i suoi consiglieri hanno compreso la lezione impartita loro da Vladimir Putin in Siria: per giocare un ruolo primario, per essere uno dei player che siedono a capotavola in una ipotetica, ma tutt’altro che irrealistica, “Jalta mediorientale”, a un certo punto occorre scegliere. Senza ambiguità , o giravolte. Altrimenti ci si condanna alla marginalità o si riduce la politica ad un asfittico tatticismo.
Ci si riduce alla marginalità dell’Europa. Trump, a differenza dell’Europa, ha capito che una politica mediterranea che non si rapporti all’Egitto è assurda, destinata ad un fallimento dalle conseguenze esiziali, e non solo sullo scenario regionale.
Chi ambisce ad avere un ruolo di prima fila nel Mediterraneo, non può non porsi una questione essenziale: con chi fare sponda. Un discorso che investe frontalmente l’Italia.
Al-Sisi sì, ma fino a un certo punto. Idem per l’Arabia Saudita o per il Qatar… Quanto alla Libia, il nostro sostegno ad al-Sarraj non si traduce, e per fortuna, in un’avventura militare che avrebbe risultati catastrofici.
Ma quali siano i “cavalli” su cui puntiamo nella sponda meridionale del Mediterraneo, questo rimane un rebus.
Navighiamo a vista. Oscilliamo. In balìa degli eventi. Fingendo che la ricucitura con Parigi sia
risolutiva per rilanciare una politica vincente in Libia. Niente di più sbagliato, tanto più oggi che sul sostegno ad Haftar sembra realizzarsi l’asse Washington-Parigi.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
NEL DECRETO CRESCITA NESSUNA SANZIONE PER CHI DELOCALIZZA
Vi ricordate quando Luigi Di Maio diceva che era pronto a punire chi delocalizzava le
aziende e chi portava i marchi del Made in Italy fuori dall’Italia?
Vi ricordate che nel famoso Decreto Crescita avrebbero dovuto spuntare norme che evitassero altri casi-Pernigotti? Ebbene, cancellate tutto.
Nel capitolo Tutela del Made in Italy non c’è nulla di tutto ciò:
Si impegna l’investitore che vuole delocalizzare (anche solo in un’altra provincia italiana) a motivare le proprie scelte e il ministero a mettere in campo risorse per evitare la desertificazione di un territorio. Ma nessun commissariamento, nessuna sanzione punitiva.
Si aiutano start up e Pmi a brevettare e a tutelarsi di più sui mercati esteri. Ma esce fortemente ridimensionato il capitolo “Tutela de Made in Italy” (articoli 31 e 32) contenuto nel Dl Crescita approvato dal Consiglio dei Ministri del 23 aprile.
Nelle norme è prevista la nascita di un “registro dei marchi storici” presso l’Ufficio Italiano brevetti e marchi al ministero dello Sviluppo economico per i brand registrati (o di cui sia possibile dimostrare l’esistenza) da almeno 50 anni. Se la proprietà pianifica la chiusura dello stabilimento, con relativo licenziamento collettivo, deve notificare al ministero per lo sviluppo economico (Mise) le ragioni e le azioni per trovare un nuovo acquirente. In sua assenza, si potrà ricorrere a una parte dei “Fondi speciali” del Mise per operazioni di rinconversione industriale.
Che si restringono dai 100 milioni inzialmente ipotizzati a 30 milioni.
Ma non c’è nessuna sanzione per chi delocalizza. Per le punizioni, sarà per la prossima volta.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 26th, 2019 Riccardo Fucile
OTTO I CASI DOCUMENTATI SUI QUALI E’ INTERVENUTA LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI
Le autorità ungheresi starebbero sistematicamente negando l’approvvigionamento di cibo ai migranti che non sono riusciti ad ottenere l’asilo politico e che sono stipati in campi al confine del Paese. L’accusa, riportata dal Guardian, basata sulle testimonianze degli attivisti per i diritti umani è di quelle che fanno accapponare la pelle e che ci riportano indietro verso tempi terribili.
Gli attivisti dell’Hungarian Helsinki Committee, organizzazione non governativa ungherese e molto attiva in tutto il centro-europa, hanno descritto quello che sta accadendo come “Una violazione di diritti umani senza precedenti nell’Europa del 21°secolo“.
L’associazione ha documentato ben otto casi che hanno coinvolto 13 persone quest’anno, in cui le autorità ungheresi hanno provveduto alla consegna del cibo solo dopo l’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In alcuni casi il cibo è stato negato per ben cinque giorni prima dell’intervento della Corte Europea, denunciano gli attivisti.
E la partita sembra giocarsi tutta al confine con la Serbia, un tempo vero e proprio crocevia della rotta balcanica, perchè se sulla xenofobia si gioca gran parte della fortuna elettorale del premier Orbà n, è sul confine sud che si gioca la partita politica più importante.
Per le autorità magiare la Serbia è infatti una “zona sicura” e i migranti non hanno alcun diritto di muoversi verso Nord.
Una dinamica in cui anche il cibo potrebbe giocare un ruolo fondamentale come spiega al Guardian, Mà¡rta Pardavi, tra i leader dell’Hungarian Helsinki Committee: “L’idea è quella di affamare le persone per costringerle di conseguenza e tornare verso la Serbia. Questo significa obbligarli a un’azione che è espressamente vietata dalle autorità serbe” sottolinea l’attivista.
Sospetti che, del resto, sono confermati dalle affermazioni di Kovà¡cs, portavoce di Orbà n, che nel corso dello scorso anno durante un’intervista aveva ribadito: “Non c’è pasto gratis per nessuno“, alludendo come i richiedenti asilo che si fossero visti negati il permesso di soggiorno, erano “liberi” di tornare da dove erano venuti, ovvero dalla Serbia.
L’ennesimo capitolo di una tragica sceneggiata, consumata nel dramma di un’Europa che rimane troppo spesso a guardare e di diritti umani consumati sull’altare di facili consensi elettorali.
(da agenzie)
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