Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
“MELONI E SALVINI SONO EQUIVALENTI, MANCA UN ASSETTO CHIARO E UNA FIGURA FORTE”
“Nel centrodestra non c’è un assetto chiaro e netto come quando c’era Silvio
Berlusconi, per questo la federazione di centrodestra di cui parla Matteo Salvini non va da nessuna parte. E in Europa il leader della Lega deve trovare una nuova collocazione, dal momento che la strategia di Marine Le Pen non funziona più”.
Angelo Panebianco, professore emerito dell’Università di Bologna, politologo e saggista, fotografa con l’Huffpost l’attuale situazione politica e prova a immaginare quale futuro avrà il centrodestra: “Salvini non intercetta al Sud il voto in uscita dei 5Stelle, che invece guarda a Fratelli d’Italia. Mentre sul referendum ha fatto un’ottima mossa perché ha messo in difficoltà sia Meloni sia il Pd”.
Professore Panebianco, il centrodestra prova a rinnovarsi. Matteo Salvini ha chiamato Silvio Berlusconi per parlare di una federazione di centrodestra, su cui il leader della Lega pare stia puntando. La convince o è una reazione per contenere un’emorragia di voti a destra verso Fratelli d’Italia?
La federazione di centrodestra non va da nessuna parte. Ha senso quando c’è un leader forte, ma adesso non c’è più nessuno forte come Silvio Berlusconi. La cosa più probabile sarà un centrodestra molto instabile, poiché non c’è una gerarchia ma due forze quasi equivalenti.
A proposito di instabilità, siamo di fronte a un paradosso. Il centrodestra, dato per maggioritario nel Paese, non riesce a trovare candidati nelle principali città italiane. E i nomi che circolano non sembrano particolarmente entusiasmanti. Come se lo spiega?
Tra Lega e Fratelli d’Italia c’è una competizione per l’egemonia. Non c’è un assetto chiaro e netto come quando c’era Silvio Berlusconi. Salvini è forte ma deve fare i conti con una Meloni in crescita e non sottovaluterei il fatto che il centrosinistra è perdente sul piano nazionale ma non su quello locale. Se il centrosinistra perderà le prossime elezioni locali sarà per demerito proprio e non per bravura degli altri.
Vede una debolezza insita nel populismo nel formare classi dirigenti? Vale per Salvini, per la Meloni. C’è anche un problema di leadership?
Un problema di leadership è un problema diverso rispetto a quello di mancanza di classe dirigente. L’unico partito di establishment è il Pd, può sembrare più forte perché ha più capacità di attrarre persone che fanno parte di un mondo che detiene il potere politico ed economico. Il centrodestra questa forza non ce l’ha.
Però è innegabile che Salvini stia provando strade nuove o quantomeno a costruire una destra di governo. La mossa di sostenere il referendum dei Radicali va in questa direzione?
Salvini ha cercato di intraprendere nuove strade, come quella del Sud quando ha aperto una sede a Bari, ma questa strada si sta rivelando molto difficile perché ha a fare con un leader in ascesa come la Meloni. Invece ha fatto una mossa intelligente aggregandosi al referendum dei Radicali e mettendo in difficoltà sia Meloni sia il Pd, come si è visto. I Radicali sono aperti a tutti, come da tradizione sono trasversali. Invece Salvini deve conciliarle questa sua mossa con le altre posizioni del partito che non sono poi così garantiste. Tuttavia la Lega può sposare i referendum Radicali per le stesse ragioni per cui non può sposarle il Pd. Dipende dal fatto che la Lega è in un conflitto con la magistratura, come dimostrano i processi in corso, mentre il Pd ha sempre scelto una linea di non belligeranza con la magistratura, l’ha scelta sin dai tempi di Mani pulite e non può abbandonarla. Una parte del Pd garantista condivide i quesiti ma il partito non può permettersi di seguirlo.
Si dice che il progetto in campo sia quello di un’annessione di ciò che resta di Forza Italia alla Lega. Al centro si parla di un rassemblement Toti, Brugnaro, Carfagna, Renzi. Solo un’operazione di Palazzo o questa ipotesi può avere una consistenza reale nel Paese?
Non mi sembra possibile, una buona parte di Forza Italia è incompatibile con la Lega.
Anche sul piano europeo Salvini ha bisogno di uscire dall’angolo e vuole entrare nel gruppo dei conservatori e riformisti o nel Ppe dove c’è Forza Italia. Vede possibile una reunion del centrodestra italiano almeno a livello continentale?
Salvini ha il vantaggio di aver preso un partito con percentuali molto basse e di averlo portato in alto. Ma ha il problema di conciliare un partito alla Le Pen, partito nazionale, con un partito che è fortemente locale. Ha dovuto tentare di tenere tutto insieme. Adesso ha una concorrenza molto forte, non è lui a intercettare il voto in uscita dei 5Stelle al Sud, sarà Meloni. E se la strategia lepenista non funziona più, lui deve trovare una nuova collazione anche in Europa. Ciò per cui lavora Giorgetti, ovvero il passaggio ai popolari, non mi sembra vada bene. Le due cose sono strettamente legate.
Il governo Draghi è un passaggio epocale per le forze politiche. In parecchi dicono: è sempre successo che il centrodestra si divide sul governo, ma poi si rimette insieme quando c’è da andare a votare. Anche lei la fa così facile?
Sì, io penso di sì. Alla fine la convenienza sarà di andare uniti, anche perché questa legge elettorale favorisce le alleanze. Ma non è detto che poi il centrodestra andrà a governare insieme o che quel governo duri tutta la legislatura.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
FA SPONDA A SALVINI MA IN FORZA ITALIA MOLTI SONO CONTRARI, A PARTIRE DA GELMINI E CARFAGNA
“Sono di nuovo con voi, mi sento in famiglia”. Silvio Berlusconi apre così il video-collegamento con i vertici del suo partito che durerà due ore e mezzo. Lasciati alle spalle i guai di salute, pensa al futuro: promette interviste, colloqui su Zoom a tu per tu. E poi: “Valutiamo l’idea di federazione del centrodestra” lanciata da Salvini in un’intervista al “Giornale” di casa.
E’ un attimo e la prospettiva per Forza Italia cambia: il progetto a cui il Cavaliere si era sempre fieramente opposto adesso è “preso in considerazione”. Nessuna annessione – rassicura l’ala moderata – Nessun appiattimento sulla linea leghista: “Saremo sempre la guida culturale del centrodestra con i nostri valori europeisti, garantisti, liberali, riformisti”.
E in Europa, la strada resta quella del Ppe, perché – è il succo – Washington e Bruxelles non lasceranno mai governare i sovranisti.
Insomma, si vedrà, si pondererà, si convocheranno gli organismi. A tempo debito. I gruppi unici non sono all’ordine del giorno, tantomeno a giugno come vorrebbe il Capitano.
La suggestione però è in campo, ed è potente. Berlusconi la accarezza, la orienta, chissà se la manipola come abilmente in passato: dopo aver divorato più figli di Crono è tentato di lasciare l’eredità politica al “ragazzo”, ritagliarsi il ruolo del padre nobile – presidente onorario, sussurra più d’uno – di un grande rassemblement dei moderati, sganciarsi dal partitino rissoso e balcanizzato che è diventato il suo.
Sia pure consegnando le chiavi di casa al “Matteo redento”, con cui i rapporti sono “ottimi” e la telefonata “amichevole”: il leader che regala rosari, dispensa rose, e soprattutto blinda Draghi fino al 2023.
Un po’ come nelle aziende: il presidente mediatore e “garante” con i mondi di riferimento; il Ceo frontman, cui toccano beghe e grane.
L’ex ministro dell’Interno spalanca le braccia: è impaziente, chiama a sé Toti e i centristi, disegna le stanze della “casa comune”, studia iniziative condivise.
Certo, il partito unico resta tabù: evocato e poi smentito.
Gianni Letta, dicono, contrarissimo. Lo spettro della “fusione a freddo” aleggia. Eppure, una forza di massa sullo stampo dei Repubblicani Usa, un Great Old Party tricolore come avrebbe dovuto essere il Pdl, resta il sogno nel cassetto berlusconiano. Insieme alla vocazione del “federatore”, tanto che nel ragionamento la sinergia si estenderebbe a FdI, che però si chiama fuori: “Operazione giusta ma non riguarda chi sta all’opposizione”.
L’effetto dell’annuncio è deflagrante. Lo stato maggiore azzurro si divide plasticamente: Bernini, Cattaneo, Mulé sono pronti a discuterne.
Le ministre Gelmini e Carfagna restano fredde, fiutano il pericolo di finire inglobati. Vogliono difendere “valori, identità e storia” di Fi, ora che a insidiarli dal versante centrista è arrivato Brugnaro con le sue disponibilità economiche.
La titolare del Sud si spinge a chiedere il congresso. I parlamentari si dividono tra scetticismo sulla fattibilità dell’operazione e speranza di un futuro: se la legge elettorale non cambia, le liste comuni sarebbero la manna ma già l’alleanza con la Lega salverebbe i collegi del Nord.
I rumors raccontano del gruppo al Senato più favorevole mentre la maggior parte dei deputati sarebbe perplessa. Nessuno fa le barricate, molti predicano cautela. Solleticano l’orgoglio di Berlusconi, spingono sul rilancio del “suo” partito. Giacomoni sta organizzando i gazebo per la raccolta firme sulla riforma fiscale. Si tratta di tornare alle origini: il partito delle imprese, meno tasse per tutti. Vincerà l’originale che col piccolo schermo sedusse i moderati e oggi è precipitato sotto le due cifre, o l’emulatore che flirta con Orban e fa le capriole sui licenziamenti ma guida il primo partito italiano?
Non è quella la vera partita: “Questo è il nuovo predellino di Salvini – ragiona l’ex forzista Napoli, che ha già fatto le valige in direzione Toti – per evitare il sorpasso della Meloni. Se riesce, FdI resterà seconda forza della coalizione”.
Con la benedizione del Cavaliere. Se sono rose, come quelle offerte dal Capitano a Lilli Gruber, fioriranno. In anticipo sulla prossima primavera.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
RINNOVATE PERPLESSITA’ SUL “GOVERNO DEI MIGLIORI”
In un Movimento 5 stelle a cavallo tra una guida ombra e l’ombra di una guida
torna a deflagrare una linea di frattura dilaniante, che non più di quattro mesi fa ha portato una robusta scissione all’interno del partito: ha senso sostenere Draghi?
“Ormai è chiaro che lo spin Doctor di Conte è Travaglio”, ringhia un deputato che spiega come il suo non sia uno sfogo isolato: “Qui alla Camera siamo tutti sconvolti, quel che sta succedendo non ha nessun senso”.
È attribuita proprio al leader perennemente in pectore la primogenitura delle rinnovate perplessità sul governo dei migliori. Ricordano che il suo piano è stato da subito quello di andare al voto, sin dai giorni crepuscolari e traballanti del Conte 2, scottato dalle promesse del Pd, “o Conte o morte”, del “giammai al governo con la Lega”, tradito e frustrato dagli alleati verso i quali con non poco sforzo personale aveva traghettato i 5 stelle.
È il solito intreccio di politica, soldi e rivendicazioni personali. Il campanello d’allarme a Montecitorio è suonato già alla prima assemblea con i parlamentari alla presenza dell’ex premier.
In quella sede aveva da un lato stroncato le correnti – nel mirino le “Parole guerriere” di Dalila Nesci &co. – dall’altro ventilato l’apertura alla società civile. Raccontano che Conte abbia iniziato a intrecciare rapporti con manager, imprenditori e professori per allargare il giro pentastellato e includere energie fresche.
Un giro destinato a fare le scarpe agli oltre 300 eletti, che si ridurranno della metà della metà al prossimo giro, complici percentuali da tempo non più stellari e il taglio dei parlamentari che avrà un effetto dirompente sui numeri.
“Forse sostenere Draghi non è più necessario”, esce allo scoperto Angelo Tofalo, già sottosegretario alla Difesa, che ha annunciato che porrà il tema a Conte e ai ministri M5s.
La fronda contiana è robusta al Senato, si ripropone una vecchia dicotomia, quella tra Camera alta e Camera bassa – che è una costante che ha attraversato carsicamente tutta la vita parlamentare M5s. Perché a Palazzo Madama i senatori si sono già scottati le dita con la vicenda responsabili, e perché è il Senato il bacino di consenso più robusto sul quale l’avvocato di Volturara Appula può far conto.
È Mario Turco l’eminenza grigia che sta tenendo i contatti dentro e sta allargando la rete fuori, quest’ultima una fonte parlamentare la ritiene già evoluta al punto tale che “almeno nella sua Puglia alle prossime elezioni non entrerà più nessuno dei nostri”. Turco che Conte volle con sé a Palazzo Chigi da sottosegretario, Turco definito “Il Gianni Letta” dell’ex premier, Turco che ancora oggi tesse la tela nelle retrovie, oggi che è tutto una retrovia perché la sedia di comando che aspetta il nuovo capo politico continua a rimanere vuota.
È dunque a Palazzo Madama che serpeggiano più malumori, che le riflessioni maturano più in fretta. I vertici del gruppo parlamentare hanno solide consuetudini contiste, dalla vicepresidente dell’Aula Paola Taverna al capogruppo Ettore Licheri, dal di lui predecessore Gianluca Perilli all’ex sottosegretario Gianluca Castaldi.
Sono giorni che emergono qua e là segnali, che vengono riportati spifferi, i deputati sono furiosi di un’assenza totale di smentite, di una presa di posizione che stronchi il vociare. “E ormai è comunque troppo tardi – dice un parlamentare – siamo andati troppo in là, qualunque smentita apparirebbe una conferma. Una dicotomia che riguarda anche il vecchio staff di Palazzo Chigi, parte ricollocato alla Camera, parte al Senato. Nessun problema a Palazzo Madama, frenate su frenate a Montecitorio, dove Davide Crippa ha bloccato per ora il reintegro di Rocco Casalino.
“Problemi di budget”, spiegano dal gruppo, ma anche problemi politici relativi allo spin Doctor del futuro capo, il cui peso specifico ingombrante sta facendo storcere il naso a molti onorevoli, preoccupati di vedersi imporre una linea politica che non è la loro.
“C’è stato il tempo in cui abbiamo messo in discussione tutto per provare a ricostruire il paese su nuove basi, ora non è più quel tempo”, risponde a brutto muso Sergio Battelli. Che continua: “Non è più il tempo del muoia Sansone con tutti i filistei, perché questo è quello che succederebbe se il M5s abbandonasse la coalizione portando anche questo governo a una fine prematura”.
Una situazione paradossale, nella quale più di qualcuno mette in luce che Conte non ha mai incontrato Draghi, nonostante le sollecitazioni in questo senso pervenute dalla compagine governativa.
“La verità è che con Draghi non ha nessun rapporto – spiega uno dei colonelli pentastellati – e questo ci penalizza, né si può nascondere dietro il dito che non è stato formalmente scelto come capo, perché è una sua decisione”.
Di Maio e Patuanelli predicano calma e provano a mediare, intestandosi le ragioni dell’ala governista che improvvisamente viene messa in discussione. Il pericolo sembrava svanito dopo aver assorbito il colpo della scissione dei vari Lezzi, Morra e Di Battista, quest’ultimo che apre a un ricongiungimento qualora i suoi vecchi compagni lo seguissero sulla strada del no a Draghi, e invece ritorna prepotentemente reale.
“E l’alleanza con il Pd? E la prospettiva strategica?” Si chiedono i parlamentari smarriti dall’ennesimo tramestio, si sentono tagliati fuori da scelte e decisioni, alla deriva di un partito che non sa dove vuole andare. In pochi parlano con l’ex premier, tra questi Alfonso Bonafede, un rapporto privilegiato, che intesse con lui un filo quotidiano di confronto sulla riforma della giustizia e chissà su cos’altro.
L’ex Guardasigilli si è defilato da quando ha lasciato il ministero, anche su di lui si annuvolano sospetti, un clima a un passo dalla degenerazione.
Conte aspetta e aspetta, qualcuno spiega che fino a settembre di una discesa in campo vera e propria non se ne parla. Se le intenzioni che gli attribuiscono di voler logorare Draghi non fossero veritiere, lasciare acefalo il partito di maggioranza relativo è un fattore di logoramento per l’esecutivo oltre che per il Movimento che sta nei fatti a prescindere dalle intenzioni.
Sempre che a logorarsi non sia l’avvocato del popolo, come ritiene un esponente di governo: “Già adesso siamo in queste condizioni, veedrete sui decreti pesanti: sarà un tutti contro tutti”.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
SAREBBERO 36 MILIONI IN MENO RISPETTO ALLE PREVISIONI DI GIUGNO
Flessibilità è il nuovo credo del commissario Francesco Paolo Figliuolo per le vaccinazioni in vista delle ferie. “Ho appena firmato – ha annunciato ieri il generale – una lettera per tutte le Regioni per dire di trovare delle soluzioni di massima flessibilità per le prenotazioni, penso alle classi più giovani che nei mesi estivi si sposteranno. Già in fase di prenotazione dovrà essere possibile trovare la data migliore per il richiamo e far sì, con la flessibilità, che già in quella fase sia possibile spostarlo eventualmente in un altro giorno nel range dei 42 giorni o delle 4-12 settimane. E’ fattibile, ci vorranno i tempi tecnici di adeguamento dei sistemi informatici su cui la struttura è pronta a dare una mano”.
Da ieri le somministrazioni del vaccino sono aperte a tutti gli over 12 senza nessuna distinzione di fascia d’età e sono iniziate le somministrazioni in azienda. Ma mancano all’appello oltre 36 milioni di dosi di quelle previste entro giugno e troppi over 60 non sono ancora vaccinati. E’ l’Sos che arriva dalla Fondazione Gimbe.
Al 2 giugno, il 40,3% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino (23,8 milioni) e il 20,7% ha completato il ciclo vaccinale (12,3 milioni).
Ma, “mentre iniziano a salire le coperture nelle fasce d’età 50-59 e 40-49 anni, ci sono ancora oltre 3,3 milioni di over 60 ad elevato rischio di ospedalizzazione e decesso che non hanno ricevuto nemmeno la prima dose di vaccino”.
Inoltre, “nonostante l’incremento di consegne nell’ultima settimana, per rispettare le forniture previste dal Piano vaccinale entro fine giugno mancano ancora 36,3 milioni di dosi,”. La Fondazione precisa anche come “il mancato decollo delle consegne condizioni il numero di somministrazioni”.
Figliuolo ha annunciato che a giugno le Regioni riceveranno oltre 20 milioni di dosi ma si tratta di un quantitativo che – segnala il report – chiuderebbe il consuntivo delle forniture trimestrali con circa 15 milioni di dosi in meno rispetto alle previsioni. Rispetto alla copertura delle categorie prioritarie, l’81,5% degli over 60 ha ricevuto almeno la prima dose di vaccino ma se Puglia, Umbria, Lazio, Lombardia, Veneto e Molise superano l’85%, la Sicilia resta sotto il 70%. In particolare, degli oltre 4,4 milioni di over 80, circa 3,7 milioni (83,4%) hanno completato il ciclo vaccinale e 386.700 (8,6%) hanno ricevuto solo la prima dose.
Dei 5,9 milioni di 70-79enni, 2,1 milioni (35,4%) hanno completato il ciclo e 2.9 milioni (48,4%) hanno ricevuto solo la prima dose. Degli oltre 7,3 milioni di 60-69enni, 2,1 milioni (28,7%) hanno completato il ciclo e 3,3 milioni (44,7%) hanno ricevuto la prima dose.
Sorvegliata speciale nelle prossime settimane sarà la fascia dei giovanissimi. “La vaccinazione della fascia 12-15 è importante ed anche se non è obbligatoria è molto raccomandata. Dico ai genitori di avvicinarsi in maniera totale alla scienza e alla vaccinazione perché servirà molto all’apertura delle scuole. Bisogna mettere in sicurezza i ragazzi, i giovanissimi, i maturandi”, ha detto Figliuolo.
(da agenzie)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
“ABBIAMO LEVATO I FRENI PRIMA DEL DOVUTO, PIACCIA O MENO E’ LA VERITA'”
Ieri sera Matteo Salvini ha criticato il professor Andrea Crisanti per avere
paragonato l’azzardo consapevole di chi non ha attivato i freni alla funivia al Mottarone con le riaperture. Secondo il virologo si tratta di una pari dimostrazione di imprudenza. E oggi replica all’attacco social del leader della Lega
Il post di Salvini diceva: “In diretta TV il ben noto Crisanti paragona le riaperture del 26 aprile alla funivia del Mottarone operata senza freni. Senza vergogna. Senza parole”.
E Crisanti replica e non si tira indietro: “Ribadisco al 100% le mie parole. Fanno male, colpiscono al cuore, ma non c’è replica possibile. La realtà è proprio questa ed è tutta qui. E giustamente può scioccare. La mia risposta a Salvini è molto semplice: noi in Italia abbiamo intrapreso un’azione senza nessun presupposto scientifico. La via giusta era quella indicata dall’Inghilterra. Punto. Abbiamo corso un rischio inutile e sono morte 7mila persone dal 26 aprile ad oggi: a me sembra che non ci sia nessun elemento da festeggiare”.
Quel parallelismo non se lo rimangerebbe. “Confermo tutto”, dice all’Adnkronos Salute. Cosa aveva detto ieri sera Crisanti, ospite di ‘Piazza Pulita’ su La7? “Supponiamo che alla funivia del Mottarone non fosse successo niente, era giusto levare il freno? La risposta è no. Abbiamo levato i freni prima del dovuto, dovevamo aspettare 3-4 settimane”. E alle critiche risponde: “Io irriducibile? Certo. E il suo problema è gente come me”, replica Crisanti citando l’aggettivo usato da Salvini per definirlo.
“Come Italia abbiamo dato un esempio pessimo. In cosa? Nel non aver privilegiato la minimizzazione dei rischi, che è una pratica che informa qualsiasi attività clinica e di salute pubblica. La cosa più importante è la minimizzazione dei rischi”, è la tesi del virologo.
Il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova difende la scelta di aver citato il Mottarone. “E’ un esempio che ha permesso di visualizzare come stanno le cose, purtroppo capisco che sia devastante”.
Settemila morti si potevano evitare? “A posteriori non si possono fare speculazioni – puntualizza Crisanti – Ma in questo Paese non c’è nulla da festeggiare. Ripeto, sono morte 7mila persone. Poi che i casi di Covid siano in diminuzione siamo tutti contenti”, ma quel numero delle vittime del virus non si cancella, assicura l’esperto.
“Ci stupiamo se l’Australia o altri Paesi ai primi pochi casi chiudono tutto? E’ quella la strada giusta”, osserva. Quanto alla reazione di Salvini, “vuol dire che l’ho colpito”, ragiona. A chi parla di ottimismo o pessimismo, giudicando le sue parole e quelle di altri esperti, Crisanti obietta: “Sono valori, parole sbagliate perché hanno una connotazione di valore. Qui si tratta di essere prudenti o non prudenti. E se Salvini se la prende per quello che dico, è forse perché gli ho smontato la sua politica”, conclude.
(da agenzie)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
UDIENZA GUP FISSATA PER IL 25 GIUGNO
La procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per Ciro Grillo e i suoi tre amici nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza italo norvegese. I fatti risalgono al luglio del 2019 e sarebbero avvenuti nell’abitazione di Grillo a Porto Cervo. La ragazza allora aveva 19 anni.
Due giorni fa Ciro Grillo è stato interrogato dai carabinieri di Genova su delega della Procura di Tempio Pausania. Il figlio del Garante dei Cinque Stelle, assistito dal suo avvocato (il cugino Enrico Grillo) ha reso dichiarazioni spontanee e secondo quanto trapela ha ricostruito la sua versione dei fatti.Il giovane è stato ascoltato da un maresciallo del Nucleo Operativo della Compagnia di San Martino.
Hanno invece rifiutato l’interrogatorio gli altri due indagati che avevano chiesto di essere sentiti, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta. A quanto pare i loro avvocati difensori avrebbero gradito che a sentirli fossero il procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, e il suo sostituto Laura Bassani. Francesco Corsiglia (il quarto indagato) invece non aveva avanzato alcuna richiesta dopo la chiusura del secondo Acip depositato il 3 maggio scorso e la cui scadenza è stata il 23.
(da agenzie)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
NON DEVE PAGARE IMPOSTE GRAZIE ALLA RESIDENZA IN UN PARADISO FISCALE
La consociata irlandese di Microsoft ha registrato l’anno scorso quasi 315 miliardi
di dollari (quasi 260 miliardi di euro) di profitti, staccando dividendi alla casa madre per oltre 55 miliardi di dollari (oltre 45 miliardi di euro) senza pagare nemmeno un centesimo di tasse, grazie alla residenza in un paradiso fiscale. È il caso della Microsoft Round Island One, denunciato dal quotidiano britannico The Guardian, che cita le cifre depositate dalla stessa controllata della multinazionale digitale presso l’Irish Companies Registration Office, il registro delle imprese irlandese.
Fino al giugno del 2020, l’azienda aveva riportato 314,7 miliardi di dollari (259,5 miliardi di euro) di profitti su cui il colosso fondato da Bill Gates non ha pagato tasse, avendo sede legale in Irlanda ma residenza fiscale alle isole Bermuda, dove non si applicano imposte sui redditi delle società. Non solo: nell’arco dello stesso esercizio finanziario, l’azienda ha pagato alla casa madre americana un dividendo da 24,5 miliardi di dollari (20,2 miliardi di euro) e un ulteriore dividendo straordinario da 30,5 miliardi di dollari (25,15 miliardi di euro).
Il dato risulta vieppiù impressionante paragonato al Prodotto interno lordo (Pil) irlandese dello scorso anno, pari a circa 357 miliardi di euro. Insomma nell’ultimo anno la consociata di Microsoft ha registrato profitti pari a oltre il 72 per cento del Pil dell’Irlanda, senza pagare le relative imposte. Ed è tutto legale.
Microsoft Round Island One, la cui sede si trova presso gli uffici dello studio legale Matheson, lungo il fiume Liffey nel centro di Dublino, afferma nei propri conti di non avere “altri dipendenti oltre agli amministratori”. “Poiché la società è fiscalmente residente alle Bermuda, nessuna imposta è addebitabile sul reddito”.
La denuncia arriva a poche ore dalla riunione prevista oggi e domani a Londra tra i ministri delle Finanze del G7, in cui si discuterà un nuovo accordo internazionale contro l’elusione fiscale delle multinazionali e la proposta statunitense di imporre una tassa minima a livello globale, in vista dell’incontro dei capi di Stato e di governo dei sette atteso alla fine del mese in Cornovaglia.
Secondo uno studio pubblicato a fine maggio dalla britannica Fair Tax Foundation, negli ultimi dieci anni i colossi tecnologici americani Amazon, Facebook, Alphabet (proprietaria di Google), Netflix, Apple e Microsoft hanno risparmiato 96 miliardi di dollari (79,29 miliardi di euro) di tasse, sfruttando la possibilità di trasferire la propria residenza in paradisi fiscali.
Tra il 2011 e il 2020, queste sei multinazionali digitali hanno pagato 219 miliardi di dollari (180,6 miliardi di euro) di imposte sui redditi, pari al 3,6 per cento dei loro ricavi complessivi, superiori a 6 mila miliardi di dollari (oltre 4.950 miliardi di euro).
(da agenzie)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
ONDE EVITARE CHE L’ITALIA CONTINUI A SPUTTANARE SOLDI
Il ritorno del patto di stabilità, le critiche alle misure di protezione sociale e una vecchia quanto insistente proposta che puzza di commissariamento. È il quadro che emerge negli ultimi mesi in Europa dove, con particolare riferimento all’Italia, si torna a discutere di disciplina di bilancio, riduzione del debito e ritorno a una normalità in cui le percentuali del deficit dominano le scelte di politica economica, come se la crisi innescata dalla pandemia di Covid fosse già conclusa e non appena all’inizio.
Nel giro di poco meno di un mese, si sono susseguiti una serie di segnali indirizzati al nostro Paese (e non solo) e al presidente del Consiglio, Mario Draghi.
A partire dalle previsioni economiche di primavera divulgate nella prima metà di maggio dalla Commissione europea, da Bruxelles e oltre si moltiplicano gli allarmi sullo stato di salute dell’economia italiana e le valutazioni sulle scadenze delle misure di sostegno.
Tra le raccomandazioni approvate collegialmente dalla Commissione figura ad esempio una critica al blocco ai licenziamenti voluto dal governo di Giuseppe Conte, considerato “superfluo” e dannoso per certe categorie, e l’appoggio alla linea dell’attuale esecutivo volta a superare gradualmente il provvedimento, offrendo un assist a Confindustria.
Inoltre, secondo la Commissione, il nostro Paese continua a soffrire di “eccessivi squilibri macroeconomici” dovuti a un elevato livello del debito, alla bassa produttività e a un mercato creditizio in sofferenza.
Di fatto, pur figurando tra gli Stati membri in maggiore difficoltà dal punto di vista macroeconomico, grazie alla sospensione del Patto di stabilità finora l’Italia ha potuto evitare di incorrere nella procedura di infrazione ma deve comunque fare attenzione alle finanze pubbliche nonostante la sospensione delle regole di bilancio confermata anche per il 2022.
In questo clima, la scorsa settimana il vicepresidente lettone della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha paventato il ripristino del Patto di stabilità nel 2023, mentre sono arrivati i primi avvertimenti a Italia, Cipro e Grecia ad usare prudenza nello spendere i fondi europei, a “limitare la crescita delle spese”, favorendo gli investimenti “in ricerca, istruzione e infrastrutture pubbliche” in luogo della spesa corrente. Il ritorno alle regole di bilancio, nelle intenzioni del commissario all’Economia ed ex premier Paolo Gentiloni, sarebbe comunque accompagnato da una volontà di riforma del Patto, considerato “troppo complesso” e di fatto ormai obsoleto nel quadro creato dalla pandemia, un progetto però già avversato da diversi Paesi membri, tra cui Austria, Germania, Finlandia e Svezia.
A questo punto riemerge una vecchia proposta, che suona quasi come una minaccia di commissariamento, rimessa sul tavolo dall’ex ministro delle Finanze tedesco e attuale presidente del Bundestag Wolfgang Schaeuble che, citando espressamente l’Italia e il presidente del Consiglio Mario Draghi, dalle colonne del Financial Times ha riproposto “un patto di riscatto del debito per la zona euro” sul modello dello storico fondo di ammortamento istituito da Alexander Hamilton nel 1792 per gli allora nascenti Stati Uniti, un’idea già presentata a metà maggio sulle pagine de Il Sole 24 Ore.
Il politico tedesco prende le distanze dalla propria reputazione di falco dell’austerity, ricordando di aver sempre avuto soltanto a cuore il tema della sostenibilità del debito. “Prendere a prestito in tempi di crisi per stabilizzare l’economia ha senso, purché non si dimentichi la questione del rimborso”, scrive Schaeuble. In quest’ultimo caso, secondo l’ex ministro, si rischia di alimentare una continua espansione del debito sovrano e quindi di accrescere le pressioni inflazionistiche.
Dopo aver citato l’economista John Maynard Keynes e le sue valutazioni sull’inflazione come potenziale fattore in grado di “rovesciare le basi esistenti della società”, il presidente del Bundestag prosegue il ragionamento collegando l’eccessivo debito pubblico ai rischi “per la tenuta del tessuto sociale“. “La maggior parte dei creditori degli Stati sono individui ed entità benestanti. Il debito pubblico aumenta la loro ricchezza, allargando il divario tra ricchi e poveri”, sottolinea l’ex ministro tedesco, secondo cui il divario tra “abbienti” e “meno abbienti” rappresenta un’enorme minaccia per la coesione sociale.
La soluzione proposta da Schaeuble è il ritorno “alla normalità monetaria e fiscale”, ossia al Patto di stabilità aumentando però i controlli, magari attraverso un’istituzione ad hoc con nuovi poteri. “L’esperienza mostra che i bilanci in pareggio nei Paesi con alti livelli di debito sono quasi irraggiungibili, senza pressioni esterne”, afferma il politico tedesco, che indirizza esplicitamente il discorso all’Italia.
“Ho discusso più volte di questo ‘azzardo morale’ con Mario Draghi. Siamo sempre stati d’accordo che, data la struttura dell’Unione monetaria europea, la competitività e le politiche finanziarie sostenibili siano responsabilità degli Stati membri. Sono sicuro che intende sostenere questo principio come Presidente del Consiglio italiano. È importante per l’Italia e per l’Ue nel suo insieme”, scrive l’ex ministro tedesco, che prosegue con un avvertimento. “Altrimenti avremo bisogno di un’istituzione europea con poteri in grado di far rispettare le regole concordate insieme. Ciò richiederebbe delle modifiche ai trattati. Eppure, anche senza queste ultime, la Commissione europea sta assumendo maggiore importanza in questo ambito”.
Al di là della risibile quanto orribile idea che per tutelare la coesione sociale si debba adottare uno strumento coercitivo della sovranità finalizzato a far rispettare “una disciplina di bilancio più rigorosa”, il cui effetto primario è stato storicamente proprio il ridimensionamento della spesa per il welfare, le ultime righe sembrano alludere a una sorta di commissariamento. Si tratta in realtà di una proposta di dieci anni fa del Consiglio degli esperti economici della Germania, il cosiddetto “European redemption pact“.
L’iniziativa prevede l’istituzione di un Fondo europeo di rimborso a cui tutti i Paesi membri dell’Ue dovrebbero conferire la quota di debito eccedente la soglia del 60 per cento prevista dal Patto di stabilità, assumendosi l’obbligo di rimborsare le somme erogate entro 25 anni e impegnandosi a non oltrepassare ulteriormente tale livello di indebitamento. Il vantaggio per gli Stati molto indebitati è che pagherebbero tassi di interesse inferiori sulla quota trasferita al Fondo, obbligandosi in cambio a rispettare una serie di condizioni, come l’accantonamento del gettito di una specifica imposta per assicurare il rimborso dei debiti, il deposito di determinate garanzie e l’adozione di una serie di riforme strutturali.
Insomma ben più di un semplice strumento finanziario. Come ha scritto Schaeuble sulle colonne del Financial Times, “non è un semplice problema economico”, ma una questione politica e di primaria importanza. Prima di impegnare il Colosseo, o meglio una quota delle riserve del Paese, dovremmo forse guardare il calendario. Non siamo più nel Settecento.
Nonostante le inquietanti pulsioni verso la progressiva contrazione della rappresentanza, alimentate in Italia da quasi tre decenni di martellanti campagne per la presunta “governabilità” e il “voto utile” a tutto discapito del principio elementare “un cittadino, un voto”, non possiamo riportare il dibattito a un salotto frequentato da gentiluomini à la Alexander Hamilton, Benjamin Constant o John Stuart Mill.
Il caso storico citato dal presidente del Bundestag riguarda un fondo di ammortamento del debito concepito come uno degli strumenti di una politica di mutualizzazione delle responsabilità volta alla nascita di uno Stato federale e non un semplice metodo di riscossione dei prestiti. Un mezzo politico deve presupporre un fine politico e se fosse questo il caso un tale salto istituzionale richiederebbe ben più della modifica di qualche trattato.
Come ricordato qualche anno fa da Mario Draghi in audizione al parlamento dei Paesi Bassi, citando il pensiero di uno dei padri dell’integrazione europea quale Jean Monnet, la zona euro si fonda su due principi fondamentali: la convergenza e la fiducia.
Assolvendo l’ex ministro delle Finanze tedesco da qualsivoglia intento di supremazia di una nazione sulle altre mascherata da commissariamento di uno o più Stati membri per il bene di tutti, l’idea di fondare semplicemente “un’istituzione europea con il potere di far rispettare le regole” sulla base dell’assunto che “senza pressioni esterne, è pressoché impossibile realizzare bilanci equilibrati nei Paesi ad alto debito” non va nella direzione dell’integrazione, al contrario.
Se il processo di convergenza dei Paesi europei segue la strada tracciata dalla nascita del mercato comune e dall’aver coniato una moneta unica per concludersi idealmente con un’unione politica (non ancora raggiunta), ogni forzatura promette solo di aumentare i rischi di disgregazione proprio perché mina la fiducia. Ed è questo il punto: la fiducia di chi? Non dei mercati, degli Stati o dei creditori ma degli europei.
Il problema del “controllo politico” a livello comuntario, che sia del debito o di altro, è intrinsecamente legato alla questione di un’adeguata rappresentanza dei cittadini, a cui oggi è privilegiata quella degli Stati. Un principio decisamente non garantito dall’organo citato dall’ex ministro delle Finanze tedesco, quella Commissione europea che starebbe “assumendo maggiore importanza nel far rispettare le regole” e di cui non si riesce nemmeno ad assicurare l’elezione indiretta del presidente attraverso le consultazioni per il Parlamento europeo.
Unico organismo quest’ultimo veramente eletto e sottoposto per lo meno all’andamento del consenso ma con poteri molto limitati rispetto alla propria controparte, quel Consiglio europeo che decide effettivamente le sorti dell’Unione e in cui i ministri (nelle sue varie configurazioni) e i leader dei singoli Stati membri (nella sua composizione anomala) governano di fatto l’Ue.
Ammesso che i popoli europei abbiano intenzione di dare vita a un progetto confederale o addirittura federale, la convergenza degli indicatori politici, economici, civili e sociali dei singoli Paesi andrà accompagnata all’aumento della fiducia dei cittadini nelle nuove istituzioni, un obiettivo che potrà essere raggiunto soltanto attraverso la progressiva partecipazione e un salto di qualità nella rappresentanza, ad esempio riequilibrando ulteriormente i poteri tra Parlamento e Consiglio e magari trasformando in seggi elettivi i voti controllati in questa sede da ciascuno Stato con la proporzionale riduzione dei parlamentari.
Eppure nessuna di queste ricette potrà mai funzionare né sarà possibile un vero rilancio del progetto europeo senza due fattori fondamentali: la crescita e la giustizia sociale. È solo questa la soluzione principe ai problemi del debito come del consenso all’integrazione continentale, non certo la coercizione ma i diritti.
Per la maggior parte degli oltre 446 milioni di cittadini europei infatti la politica è limitata al lavoro e alla salute, la cui garanzia resta imprescindibile per il successo dell’Unione europea e in generale di qualsiasi comunità politica.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 4th, 2021 Riccardo Fucile
SE TI OPPONI ALL’EX AGENTE DEL KGB SEI UN “ESTREMISTA” E NON HAI DIRITTO A PRESENTARTI CANDIDATO
Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato la legge che impedisce
temporaneamente alle persone associate all’attività di organizzazioni estremiste e terroristiche di candidarsi a tutti i livelli alle elezioni in Russia. La misura è stata definita “anti-Navalny“, dal nome del noto avvocato Alexei.
Il provvedimento colpirà infatti tutto l’organigramma nazionale del movimento che fa capo all’oppositore russo, se l’organizzazione sarà dichiarata estremista in un processo in corso.
In questo modo, tutte le persone che abbiano lavorato, collaborato, o anche solo sostenuto o effettuato donazioni, in favore del movimento saranno escluse dalle elezioni parlamentari russe che si terranno a settembre.
Il controverso provvedimento era stato approvato il 2 giugno scorso in via definitiva dal Senato, dopo l’ok della Duma a fine maggio. La promulgazione di Putin arriva proprio nel giorno del compleanno di Navalny, tanto che su Twitter la portavoce dell’oppositore russo, Kira Yarmish, l’ha definita sarcasticamente “un augurio speciale dal Cremlino”.
Navalny, considerato l’avversario principale di Putin, è stato arrestato a gennaio, non appena è rientrato in Russia dalla Germania, dove era stato curato dopo un avvelenamento che aveva fatto temere per la sua vita e per il quale sono sospettati i servizi segreti del Cremlino.
Il capo del servizio federale degli ufficiali giudiziari, Dmitri Aristov, ha dichiarato all’agenzia Interfax che gli ufficiali giudiziari russi stanno cercando eventuali beni e fondi dell’oppositore russo in carcere Alexiei Navalny per pagare debiti, multe e risarcimenti per 29 milioni di rubli (circa 327mila euro) imposti dai tribunali russi al dissidente.
(da agenzie)
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