Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
FDI 20,7%, LEGA 20,3%, PD 18,8%, M5S 16,6%, FORZA ITALIA 7%
Cambio al vertice del sondaggio Swg relativo all’orientamento di voto degli italiani.
Stando all’ultima indagine svolta, Fratelli d’Italia sale al 20,7 per cento superando così la Lega di Matteo Salvini che cala dello 0,3 per cento portandosi così al 20,3 per cento: il partito Giorgia Meloni diventa così la prima forza politica del Paese.
La settimana presa in esame va dal 21 al 28 giugno.
La forza politica che cresce di più in questo arco di tempo è il Movimento 5 Stelle che, nonostante la crisi interna tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo, guadagna uno 0,6 per cento rispetto a sette giorni fa.
La terza forza politica del Paese rimane il Pd, che sale al 18,8 per cento (+0,2).
Stesso tasso di crescita anche per Forza Italia che si attesta al 7 per cento nell’ultima settimana.
Lieve miglioramento nei sondaggi anche per il partito Azione di Carlo Calenda (che passa dal 3,8 al 3,9 per cento) e per Sinistra Italiana, che guadagna lo 0,2 per cento arrivando non oltre il 2,7 per cento.
Tra gli altri partiti, perdono terreno Italia Viva e +Europa rispettivamente al 2,1 per cento (-0,2) e all’1,8 per cento (-0,1). Seguono i Verdi (1,5 per cento) e Coraggio (1 per cento) entrambe in calo di 0,3 punti.
(da agenzie)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
VIOLENZE NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE: “LI ABBATTIAMO COME VITELLI”…QUESTI SAREBBERO RAPPRESENTANTI DELLO STATO?
I Carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari emesse dal gip su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di agenti della Polizia penitenziaria e dirigenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria coinvolti negli scontri con i detenuti che avvennero il 6 aprile 2020, in pieno lockdown, nel carcere dello stesso comune del casertano.
Una protesta innescata da centinaia di carcerati dopo la notizia di un caso di positività al Covid-19 tra le mura dell’istituto, dove per sedare la sommossa vennero inviati da Napoli contingenti dei Reparti speciali della Penitenziaria
Complessivamente sono stati notificati 8 arresti in carcere, 18 arresti ai domiciliari, 3 obblighi di dimora e 23 interdizioni dall’esercizio del pubblico ufficio.
I reati contestati, a vario titolo, sono concorso in torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti (per 41 agenti), maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Le perquisizioni riguardarono 292 detenuti nel Reparto Nilo.
Dall’indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere è emerso che i detenuti furono costretti a passare in un corridoio di agenti, con caschi e manganelli, fatti inginocchiare e colpiti di spalle per tutelare l’anonimato dei picchiatori.
Nell’ordinanza il gip definisce l’episodio una “orribile mattanza” ai danni dei detenuti: alcuni sono stati denudati e 15 anche portati in isolamento con modalità del tutto irregolari e senza alcuna legittimazione.
Tra i detenuti in isolamento, uno perse la vita, il 4 maggio, quasi un mese dopo la perquisizione, per l’assunzione di un mix di oppiacei. In relazione a questa morte, è stato spiegato, ritenendo quel gesto conseguenza delle torture, la Procura ha contestato il reato di morte come conseguenza di un altro reato (la tortura, appunto). Una impostazione non condivisa dal gip che invece ha ritenuto di classificare l’evento come suicidio.
“Li abbattiamo come vitelli”; “domate il bestiame” prima dell’inizio della perquisizione e, dopo, quando la perquisizione era stata completata, “quattro ore di inferno per loro”, “non si è salvato nessuno”, “il sistema Poggioreale”, forse in riferimento a una metodologia di contenimento. Sono alcuni messaggi trovati dagli inquirenti nelle chat degli agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nell’inchiesta.
(da agenzie)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
MILANO EGEMONIZZATA DAI PRIVATI GRAZIE ALLA POLITICA COMPIACENTE DELLA REGIONE
La Lombardia è l’unica Regione italiana che ha stabilito per legge parità di diritti e
doveri fra soggetti pubblici e privati convenzionati che operano all’interno del servizio sanitario.
Le intenzioni della norma n. 31 voluta nel 1997 da Roberto Formigoni sono quelle di promuovere la competitività tra strutture per soddisfare meglio i bisogni dei pazienti, che possono scegliere dove farsi curare, e accorciare le liste d’attesa.
E la Regione rimborsa indifferentemente gli uni e gli altri (all’interno di tetti di spesa contrattati).
Ma la sanità lombarda presa spesso anche come esempio da esportare in altre regioni, ha davvero un sistema pubblico-privato in grado di garantire cure più tempestive?
I dati, forniti dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) e che per la prima volta è possibile rendere pubblici, permettono di capire come funziona nella realtà il modello.
L’analisi riguarda le tipologie dei ricoveri e degli interventi chirurgici eseguiti nel pubblico e nel privato e la corrispettiva entità dei rimborsi ottenuti dal sistema sanitarioQuel che emerge non è una conseguenza dell’intasamento degli ospedali causato dal Covid, perché è stata fotografata la situazione considerando i numeri del 2019. Dopo è andata solo peggio.
Posti letto a confronto
I posti letto totali sono 29.308, 70% pubblici e 30% privati. Vuol dire che di tutti i tipi di ricoveri, oltre 1,2 milioni, il 70% è pubblico e il 30% privato.
Intanto su 100 posti letto in un ospedale pubblico, 45 sono occupati da chi entra per un’emergenza passando dal Pronto soccorso. Su 100 posti nel privato, solo 20 pazienti arrivano dal Ps. Per gli altri 80, le strutture accreditate possono programmare per tipologia i ricoveri. Per accedere in ospedale chi ha bisogno di un intervento chirurgico deve prenotarsi la visita specialistica: per le strutture pubbliche c’è un sistema di prenotazione trasparente dove il contact center regionale dice dov’è possibile andare e in che tempi. Per quelle private, invece, bisogna rivolgersi alle singole strutture accreditate che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno mai voluto mettere a disposizione pubblicamente le loro agende, nonostante siano state sollecitate a farlo già a partire dal 2016.
Quali prestazioni offre il privato?
Per una lunga lista di ricoveri e interventi chirurgici il rapporto pubblico-privato 70 a 30 s’inverte, con alti volumi in una serie di prestazioni. Vediamo quali. Primo: gli interventi ben pagati, spesso a rischio inappropriatezza perché il medico ha ampia discrezionalità nel decidere se è utile o meno eseguirli. Sono quelli per obesità, che le strutture accreditate eseguono per il 74,5%, con un rimborso di 5.681 euro; sulle valvole cardiache, che valgono 21.882 euro e sono svolti dal privato per il 51% (a Milano per il 66,2%); le artrodesi vertebrali, dove vengono inchiodate le vertebre della schiena, fatte per oltre l’80% dal privato. Nell’agosto 2019 il rimborso da 19.723 euro è stato tagliato di quasi il 40% dall’allora direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo, proprio per renderli meno redditizi e tentare di limitare gli interventi inutili.
Interventi più remunerativi
Secondo: le prestazioni più remunerative delle specialità di cardiologia/cardiochirurgia e ortopedia. Si tratta di interventi che prevedono l’impianto di protesi, dove le strutture private già hanno margini di guadagno elevati perché negli acquisti hanno meno vincoli e standard del pubblico. A Milano, dove sono concentrati i colossi della Sanità accreditata, i privati impiantano il 60% dei defibrillatori (rimborso 19.057 euro), il 68% delle valvole cardiache (17.843 euro), l’88% dei bypass coronarici (19.018 euro). Inoltre: il 90% degli interventi sulle articolazioni inferiori (12.101 euro), e il 68% delle sostituzioni di anca e ginocchio (8.534 euro). Nell’intera regione comunque, per gli stessi tipi di intervento, la percentuale di prestazioni svolte dal privato supera il 40%, con punte che arrivano al 77%. Terzo: su oltre 500 tipi d’intervento, il privato fa la metà del suo fatturato con 25 prestazioni, il pubblico 43. Segnale evidente che l’attività si concentra in ambiti di specialità più convenienti. Le più diffuse riguardano le malattie degenerative del sistema nervoso, che valgono l’8,8% del fatturato, la sostituzione di articolazioni maggiori o il reimpianto degli arti inferiori (8,5%), le diagnosi del sistema muscolo-scheletrico (3,7%), e gli interventi sul sistema cardiovascolare (4,4%).
Milano: dominio del privato
Su Milano, se si prendono in considerazione anche i pazienti da fuori Regione, la sanità privata, rispetto ai grandi ospedali pubblici, raggiunge percentuali tra l’85 e il 97% degli interventi e ricoveri di cardiologia, cardiochirurgia, ortopedia, e quelli ad alto fatturato, ma a rischio di inappropriatezza. È la stessa Regione Lombardia ad ammettere: «La Sanità privata si è concentrata su alcune specifiche linee di attività che, tuttavia, impongono controlli incisivi in termini di appropriatezza» evitando che «gli erogatori si concentrino su attività caratterizzate da buona redditività e da non verificata necessità epidemiologica» (qui il documento).
Cosa fa il pubblico?
Gli interventi molto costosi e rischiosi, a partire dai trapianti, che può farli solo l’ospedale pubblico. E poi l’80% delle emorragie cerebrali, l’87% delle leucemie, l’82% delle neoplasie dell’apparato respiratorio, il 75% dell’ossigenazione extracorporea. I neonati gravemente immaturi sono curati per l’87,2% nelle strutture pubbliche. Oltre a tutti quegli interventi poco remunerativi, ma molto comuni: parti (81,8%), aborti (90%), calcoli (80%), polmoniti (78%), appendiciti (83,9%), tonsille (79,3%). Le operazioni per tumore al seno sono, invece, equamente ripartite.
A conti fatti gli ospedali pubblici sono in perdita, con la Regione che ogni anno deve ripianare i bilanci: 44 milioni il Policlinico di Milano, 58 il San Paolo e il San Carlo, 87 i Civili di Brescia, 75 il Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Mentre i gruppi privati fanno utili importanti: 27 milioni il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, 66,9 l’Humanitas di Gianfelice Rocca, 6,7 la Multimedica di Daniele Schwarz. Certo, il pubblico sconta inefficienze, mentre il privato è più manageriale, ma non basta a spiegare un divario di questa portata.
Le liste d’attesa restano
Le linee guida nazionali danno i tempi: nel caso di rischio di aggravamento rapido della malattia l’intervento chirurgico deve essere eseguito entro 30 giorni.
In Lombardia per un intervento chirurgico oncologico bisogna aspettare 66 giorni nel 36% dei casi; per uno non oncologico 83 giorni nel 23% dei casiIn Regioni comparabili per offerta sanitaria, vediamo altri numeri: in Veneto solo il 6% delle operazioni urgenti sui tumori non viene eseguito entro i 30 giorni, per gli altri interventi gli sforamenti sono del 9%. In Emilia Romagna sono rispettivamente del 22% e del 15%. E questo era l’andamento fino ad attimo prima dell’arrivo della pandemia. Va detto che in quei mesi durissimi, con le strutture pubbliche al collasso, il privato ha messo a disposizione il 40% dei posti letto per pazienti Covid.
Modello da riformare
Tirando le fila, il modello non garantisce nei fatti quella «parità» di diritti e doveri prevista dalla legge regionale, non risolve le liste d’attesa, ma porta pian piano al deperimento del pubblico e all’accaparramento dei medici migliori. A quel punto sarà difficile tornare indietro. Infatti è in discussione un piano di riforma che in autunno dovrà sfociare in una legge, considerata dall’assessore al Welfare Letizia Moratti una delle priorità del proprio mandato. Nelle linee di indirizzo allo studio, l’assessore scrive che è necessario «un miglior governo dell’offerta». Dovrebbe voler dire: ti accredito per fare di più quello che serve e non solo quello che ti conviene. Vedremo se dalle parole si passerà ai fatti
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
PER OLTRE UN SECOLO 150.000 BAMBINI INDIGENI COSTRETTI A FREQUENTARE SCUOLE CATTOLICHE TRA ABUSI E VIOLENZE… CENTINAIA DI CORPI SONO STATI TROVATI IN FOSSE COMUNI
Con le due di ieri diventano quattro le chiese cattoliche bruciate nella regione della Columbia Britannica in Canada. E il collegamento con il ritrovamento delle tombe senza nome di bambini nativi nelle ex scuole di rieducazione appare palese.
Mentre il premier Justin Trudeau ha chiesto a Papa Francesco di fare chiarezza e ha paventato azioni legali nel caso in cui la Chiesa non fornisse i documenti in suo possesso.
Intanto però nessuna rivendicazione del gesto è arrivata, mentre le Giubbe Rosse, la polizia a cavallo del Canada, parlano per ora di indagini che procedono «in tutte le direzioni».
Le chiese bruciate in Canada e le tombe dei bambini nativi
Il 26 giugno in meno di un’ora le fiamme sono state appiccate nella chiesa di Sant’Anna e in quella di Chopaka ed entrambe sono state distrutte, secondo quanto ha raccontato il sergente Jason Bayda della polizia canadese a cavallo.
Lunedì, in occasione della Giornata nazionale dei popoli indigeni, ne erano bruciate altre due, a Penticton e Oliver (Sud Okanagan). Per adesso i bilanci degli incendi non riportano feriti ma tutti i luoghi di culto, alcuni dei quali erano edificati in legno, sono andati completamente distrutti.
E i vigili del fuoco hanno ritrovato una bottiglia di liquido incendiario nei pressi di una delle due chiese distrutte lunedì.
Gli incendi sono arrivati subito dopo le richieste alla Chiesa di scusarsi formalmente per il proprio ruolo nel sistema scolastico canadese. Per oltre un secolo, fra il 1863 e il 1998, 150 mila bambini indigeni, in gran parte Inuit e Metis, sono stati costretti a frequentare scuole cristiane come parte di una strategia politica per assimilarli nella società canadese. Le scuole erano gestite da chiese finanziate dal governo federale e, scrive l’agenzia Ansa, gli abusi fisici e sessuali erano all’ordine del giorno.
Le tombe dei bambini nativi nei collegi di rieducazione in Canada
Il Guardian ha scritto che secondo i documenti storici, i Missionari Oblati di Maria Immacolata hanno gestito la metà delle scuole residenziali del Canada, inclusa quella di Kamloops, la più grande del paese.
Finora gli Oblati si sono rifiutati di rilasciare i documenti in loro possesso per aiutare a identificare i resti trovati. Il primo ritrovamento di tombe senza nome risale a un mese fa, quando i resti di 215 minori sono stati rinvenuti presso la Kamloops Indian Residential School, nella Columbia Britannica.
Si trattava di un collegio per l’accoglienza e la “rieducazione” dei figli dei nativi. La Chiesa l’ha gestito per conto del governo dal 1890 al 1969. Nei giorni scorsi sono stati ritrovati i resti di altri 761 bambini in un’ex scuola residenziale, la Marieval Indian Residential School gestita dalla chiesa nell’area di Saskatchewan.
L’agenzia di stampa Ansa ricorda che nel 2008 Ottawa istituì una commissione per far luce sui numerosi bambini indigeni che, dopo la scuola, non sono mai tornati nelle loro comunità. Le conclusioni degli esperti sono state shockanti quasi quanto i ritrovamenti: è stato genocidio culturale.
Gli abusi e le condizioni di vita particolarmente dure erano già stati denunciati dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, anche se molti punti restano ancora da chiarire. Quello che si sa, in base al rapporto, è che i bambini venivano spesso alloggiati in strutture mal costruite, poco riscaldate e antigieniche. Molti non avevano accesso a personale medico qualificato e sono stati soggetti a punizioni dure e spesso abusive. Le squallide condizioni di salute – afferma ancora il rapporto – erano in gran parte determinate dalla volontà del governo di tagliare i costi. Gli abusi fisici e sessuali hanno portato alcuni a scappare. Altri sono morti di malattia o per incidenti in mezzo a tanta negligenza. Ancora nel 1945 il tasso di mortalità per i bambini delle scuole residenziali era quasi cinque volte superiore a quello di altri scolari canadesi. Negli anni ’60, il tasso era ancora il doppio di quello della popolazione studentesca generale. Alcuni sopravvissuti – riporta la Bbc – hanno parlato di bambini nati dai preti delle scuole, che sarebbero stati sottratti alle loro madri e gettati nelle fornaci.
(da Open)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
COLPITO CON UN COCCIO DI BOTTIGLIA DOPO INSULTI OMOFOBI… PRESO A PUGNI L’AMICO CHE ERA CON LUI
Prima le offese di stampo omofobo accompagnate da minacce, poi uno sfregio al
viso dall’angolo della bocca all’occhio con un coccio di bottiglia: è l’aggressione omofoba subita alle 4 del mattino fra venerdì e sabato – come riporta oggi Il Corriere della sera – da un ragazzo di 24 anni, barista in un locale della zona del Lazzaretto, a Milano, alla vigilia del Gay Pride, che si è tenuto sabato.
Il ragazzo aveva finito il suo turno di lavoro e si era fermato in zona, ritrovo amato dai giovani, insieme a un amico, quando sono stati avvicinati da 4 persone che hanno iniziato a insultarli.
Il barista e l’amico hanno tentato di allontanarsi ma sono stati seguiti e bloccati: uno è stato ferito con un pugno, il barista – che secondo il Corriere ha intenzione di sporgere denuncia contro ignoti – sfregiato al volo con un coccio di bottiglia. Un ferita curata al pronto soccorso del Fatebenefratelli con dieci punti di sutura.
“Dove sono le autorità? Dove sono i controlli. E non venite a dirci che non si tratta di omofobia. In una città come Milano, o altrove, questi attacchi non devono più accadere”: così sui social il titolare del bar dove lavora il giovane cameriere sfregiato nella notte tra venerdì e sabato, commenta l’episodio di omofobia avvenuto alla vigilia del Pride milanese.
“Ieri sera, alla vigilia del pride Milano, un nostro dipendente, dopo 8 ore di estenuante lavoro – scrive sui social il titolare del noto locale -, viene prima insultato con epiteti… e poi preso a bottigliate da un gruppo di schifosi. Finisce in ospedale, punti di sutura sul viso, la macchia di sangue è ancora visibile tra il Lazzaretto e Viale Tunisia”.
“Fate girare – è l’invito rivolto dagli avventori del locale – perché un giorno potreste essere voi oggetto di un’aggressione omofoba. Il Ddl Zan serve eccome e subito!”. Tanti i commenti di solidarietà e le condivisioni del post.
(da agenzie)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
DOPO I CONDONI, ENNESIMO FAVORE AGLI EVASORI FISCALI… IL TRACCIAMENTO DEI PAGAMENTI HA AVUTO TROPPO SUCCESSO PER NON DARE FASTIDIO AI SOLITI NOTI
L’iniziativa del Cashback dovrebbe essere sospesa, almeno per sei mesi, a partire dal 30 giugno.
È quanto è stato deciso, secondo diverse fonti di maggioranza, durante la riunione della cabina di regia a Palazzo Chigi.
Quindi non ci sarà, almeno per ora, un secondo semestre e l’operazione si fermerà alla scadenza del 30 giugno con il pagamento delle somme accumulate con i pagamenti delle carte di debito e credito e con il «superpremio» da 1.500 euro ai maggiori utilizzatori.
Niente cambia per chi ha maturato il diritto al «premio»: dal primo luglio partirà infatti la procedura di accredito dei rimborsi accumulati.
Ad oggi sono 7,86 milioni i cittadini con transazioni valide per un totale di 726 milioni di transazioni elaborate e sono 5,9 milioni le persone che hanno già raggiunto i requisiti per il rimborso statale (almeno 50 operazioni valide con «moneta elettronica»).
Dal 1° luglio dunque la misura potrebbe fermarsi: finora era prevista per tre trimestri fino a giugno 2022.
(da agenzie)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
NON C’E’ PIU’ NULLA CHE RICORDI IL MITO FONDATIVO DEL PARTITO DI GRILLO
Per chi come me ha studiato e osservato da vicino la nascita e i primi sviluppi del
Movimento 5 Stelle la conferenza stampa di Conte è sembrata una campana a morto. Nelle parole di Conte non c’è nulla ma proprio nulla che ricordi il mito fondativo del partito di Grillo.
Non c’è il pathos, non c’è il linguaggio, non c’è l’aggressività, non c’è lo sberleffo, non c’è la folle utopia (qualcuno si ricorda il pianeta Gaia?), non c’è l’antilingua (il Vaffa, gli zombie, gli psiconani), non c’è il carisma violento, virtuale e allo stesso tempo terrigno di Grillo.
C’è la politica istituzionale, c’è un leader molto rispettabile che è immerso nel sistema fino al collo, che propone uno statuto al non-statuto, scuole di formazione all’uno-vale-uno del cittadino qualunque, il dialogo con la società civile al posto della Rete come metodo di lavoro.
Quando poi si arriva ai “forum tematici” … capiamo che lì la fine del Movimento spacca-tutto è proprio vera.
E si capisce in modo plastico che tra il comico e il prof non può esserci diarchia, ma nemmeno civile convivenza.
E’ il classico caso degli opposti che non si attraggono; da un lato il guru che si è inventato una creatura politica nel giro di pochi anni, a colpi di teatro e di canotto, urlando lo schifo nei confronti del sistema, capace di raggiungere il 32% dei consensi, dall’altro un cultore del diritto amministrativo, che ha fatto molto bene alla guida del paese nella fase più emergenziale della pandemia, che studia, legge, negozia, riesce a muoversi tra Salvini e Speranza e che si proietta con onestà verso un partito tradizionale dall’impianto moderato.
Mentre uno attraversa a nuoto (o quasi) lo stretto di Messina, l’altro passa il tempo a studiare gli statuti dei partiti sia italiani che stranieri.
Mentre uno voleva fare “una rivoluzione culturale di fronte a un paese in liquefazione”, l’altro sostiene di voler parlare con i moderati.
Le incompatibilità sono dunque tante, ma forse quella più importante ha a che vedere con il posizionamento politico che intravvediamo.
Se la post-ideologia grillina prevedeva di andare oltre la destra e la sinistra, con l’unico obiettivo di portare il popolo puro a sostituire i politici corrotti nell’ambito di una cittadinocrazia incontaminata e senza colori, la proposta di Conte si situa saldamente al centro dello spazio politico seppure con lo sguardo rivolto a sinistra, alle diseguaglianze sociali, alla transizione ecologica e alla sostenibilità equa.
Per il Partito democratico questa è una buona notizia; Conte vuole stare nel campo progressista, e conferma di vedere con favore l’alleanza progressista contro i partiti della destra radicale.
Anche se, una eventuale lista o partito guidato da Conte avrà inevitabilmente molte aree di sovrapposizione con gli eletti e gli elettori democratici, con il rischio di cannibalizzazione reciproca.
Vedremo cosa risponderà Beppe Grillo; se rimarrà intrappolato nell’Opa lanciata da Conte, leader oggi tra i più popolari, e finirà per rassegnarsi e cedere in toto la leadership del M5S o se la respingerà.
E vedremo anche se l’ex Primo Ministro avrà la forza, come pare di capire, di intraprendere un cammino alternativo.
Sta di fatto che ci ricorderemo a lungo della conferenza stampa di oggi; quella in cui Conte ha messo definitivamente la parola fine al Movimento 5 Stelle.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
“NON POSSO IMPEGNARMI A UN PROGETTO A CUI NON CREDO”
Nel rapporto con Beppe Grillo “è emerso un equivoco di fondo. Io credo che non abbia senso imbiancare una casa che necessita di una profonda ristrutturazione. Beppe mi è sembrato ritenere che tutto vada bene così com’è salvo moderati aggiustamenti. Ma io ‘ho detto fin dal primo incontro: non mi sarei mai prestato a un’operazione di facciata, di restyling. Serve un profondo cambiamento. Non posso prestarmi per un’operazione politica che nasce invischiata tra vecchie ambiguità e timore di procedere a una svolta”. Cosi’ l’ex premier Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa al Tempio di Adriano.
Conte ha sottolineato chiaramente come abbia l’intenzione di rifiutare una leadership “dimezzata”.
“Non sarò leader dimezzato o prestanome. Una diarchia non sarebbe funzionale” ha affermato. “Ho avuto un fittissimo scambio di mail con Beppe Grillo che mi ha fatto delle osservazioni buona parte delle quali ho accolto. Altre non posso accoglierle perché alterano il disegno e creano confusione di ruoli e di funzioni” ha spiegato. “Rivolgo un appello a Beppe Grillo e all’ intera comunità M5s – ha aggiunto Conte – A Beppe dico che non ne faccio una questione personale, lui sa bene che ho avuto e ho rispetto per lui. Ma non possono esserci ambiguità, spetta a lui decidere se essere il genitore generoso che lascia crescere la sua creatura o il genitore geloso. Per lui c’è e ci sarà sempre il ruolo di garante, ma ci deve essere distinzione di funzioni tra la filiera di garanzia e quella di decisione. Una forza politica che ambisce a guidare il Paese non può affidarsi a una leadership politica dimezzata”.
“Io non potrei mai essere un prestanome. La leadership politica deve essere chiara e deve avere anche i pieni poteri della comunicazione” ha affermato Conte, che ha chiarito però come i leader fin qui succedutisi non siano secondo lui “prestanome”. L’ex premier ha fatto sapere che domani mattina consegnerà i documenti frutto del suo lavoro dapprima a Grillo e poi a Vito Crimi, chiedendo che siano diffusi. “Sono condizioni imprescindibili del mio impegno” ha affermato Conte. L’ex presidente del Consiglio ha anche chiarito che incontrerà presto i parlamentari del Movimento.
L’ex premier ha dichiarato poi che nel suo statuto non esiste uno scudo legale per il garante. “Non c’era prima e non c’è adesso. Ma io non voglio pregiudicare in alcun modo la figura del Garante”.
Conte ha specificato che anche nel nuovo statuto “il garante avrà la possibilità di sfiduciare il leader politico del Movimento, sottoponendo la richiesta al voto ovviamente”.
L’ex premier, viste le divergenze con Grillo, ritiene che debba essere la base del Movimento a scegliere il leader. “Io ho parlato con tutti, sono passati 4 mesi, la comunità M5S ormai non ce la fa più, è sfibrata, dobbiamo mettere un punto fermo” ha detto l’ex premier. “Non mi basterà una maggioranza risicata ed auspico che il prima possibile ci si esprima sul nuovo statuto del Movimento cinque stelle” ha detto l’ex presidente del Consiglio. “Io il lavoro l’ho fatto pur incontrando difficoltà oggettive, ma ora i dati degli iscritti ci sono e dunque si può procedere a questa valutazione e mi auguro che gli organi competenti attivino questo percorso il prima possibile” ha aggiunto.
L’ex presidente del Consiglio ha anche chiarito come, non abbia “alcun piano B” nel caso in cui Grillo non accogliesse le sue richieste sullo statuto del M5S. Nessuna idea di fondare un nuovo partito. “Chi mi conosce sa che non ho doppie agende: non ho nel cassetto alcun ‘piano B. ’” ha detto Conte. Conte ha anche spiegato di avere un chiaro progetto politico. “Vogliamo proporre un progetto di società credibile e serio più solido e competitivo di quello che proporrà la destra. Se questo progetto partirà “si continuerà a lavorare fianco a fianco con il Pd” ha aggiunto.
Conte ha anche fatto riferimento al momento in cui ha promesso la sua presenza ai membri del M5S e ha rievocato il momento in cui Grillo gli ha chiesto di diventare leader politico del Movimento. “Quando dissi agli amici del M5S ’io ci sono e i ci sarò. Confesso che non avevo un’idea di impegno preciso. Fu una frase di affetto e riconoscenza per la lealtà e la reciproca fiducia tra noi. Pochi giorni dopo Beppe Grillo mi chiese di entrare nel Movimento. Poi mi invitò al Forum, dove rifiutai di entrare nel M5S ritenendo che una mia investitura a freddo fosse un’operazione del tutto inadeguata” ha affermato.
In questi 4 mesi, l’ex premier ha studiato attentamente il Movimento, le sue origini e la sua storia. “Ho letto tutto quello che c’era da leggere sulle origini e sulla storia del M5S, ho studiato gli statuti stranieri, ho fatto tantissimi incontri, ho ascoltato suggerimenti di parlamentari, consiglieri, sindaci, singoli iscritti” ha spiegato.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 28th, 2021 Riccardo Fucile
ZERO REGIONI VINTE, UN PARTITO CHE E’ CROLLATO OVUNQUE… PRESENTARSI COME “FORCE TRANQUILLE” NON FUNZIONA
Non più tardi di un mese fa ci si chiedeva quante regioni poteva vincere, o almeno
contendere voto per voto ai vecchi partiti. Almeno sei, secondo sondaggi e giornali. La riposta degli elettori per Marine Le Pen è stata zero.
Ma non basta, perché il suo Rassemblement National è crollato ovunque, da nord a sud. L’elezione presidenziale della primavera 2022 sarà tutt’altra cosa, con i leader in campo, testa a testa, duelli all’ultimo sangue e Marine tornerà in campo.
Ma intanto queste elezioni regionali e dipartimentali segnate dall’astensione record (65 per cento) mettono la Le Pen di fronte al suo destino.
La figlia del demonizzato Jean-Marie, erede di un partito estremista, nostalgico, bandito dalla liturgia repubblicana francese, negli ultimi cinque anni ha fatto di tutto per rompere il cordone sanitario che la avvolgeva.
Un processo di “dédiabolisation” (traduciamo con normalizzazione) per legittimarsi come contendente al tavolo della grande politica.
Ha compiuto acrobazie ideologiche inimmaginabili, chiudendo la campagna in Costa Azzurra, ha persino citato Mitterrand usurpando lo slogan vincente del presidente a socialista nell’1981: “Oggi siamo noi la force tranquille”.
E compiuto un impavido esercizio di riesumazione del generale De Gaulle (che suo padre trattava da “traditore”) osando una citazione dall’appello del 18 giugno 1940 contro i nazisti invasori: “Non tutto è perduto per la Francia!”.
Ne era evidentemente così convinta che un paio di mesi fa in un’intervista alla televisione Bfmtv aveva detto con sfacciata serenità: “tra un anno sarò eletta presidente e il mio compito è quello di rassicurare la Francia”.
Nessun sondaggio l’ha mai data vincente, ma le percentuali che le venivano attribuite erano molto generose: ad appena quattro-cinque punti da Macron e in vantaggio rispetto all’ipotesi (al momento inesistente) di un faccia faccia con la sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo.
Se nel 2015, alle precedenti regionali, il Front National (allora non aveva ancora cambiato nome in Rassemblement National, vagamente di rassicurante evocazione gollista) effettivamente sfiorò il successo al Nord (Lille) e al Sud (Marsiglia Costa Azzurra), quest’anno non c’è nemmeno andato vicino.
Allora erano in campo Marine e la nipotina Marion e il nome Le Pen aveva avuto certo un maggior richiamo di quello dei figuranti candidati domenica scorsa.
Ma alla fine, tutto questo gran battage mediatico, in concreto ha portato nel 2020 alla conquista del sindaco di Perpignan che si è aggiunto a qualche municipio decentrato come Béziers o Henin Beaumont.
Tutto qui? Sì, ed è evidente che nel partito si prepara una stagione di coltelli, il “doppio gioco irrita gli elettori”, ha già avvertito ieri Ėric Zemmour, popolarissimo polemista tv, che molti vorrebbero candidato nel vuoto dell’estrema destra creato dalla normalizzazione di madame Le Pen.
Marine deve quindi aggiornare in fretta il suo discorso, tanto più che il ritorno dei vecchi partiti confermati e vincenti ovunque (sette regioni ai gollisti, cinque a socialisti e verdi) le tolgono quello spazio immaginario privo della dialettica destra-sinistra dove tutto è possibile e dove nel 2017 si era affermato l’uomo nuovo Emmanuel Macron.
Se ritorna ad essere Le Pen, Marine rischia il tran tran del vecchio padre che fungeva da spaventapasseri ad ogni elezione presidenziale e viveva di rendita (lo stato francese è molto generoso con i rimborsi delle spese elettorali) nel castello di Montretout, a Saint-Cloud, con vista su Parigi, ricevuto in dono da un erede di una ricchissima famiglia di collaborazionisti.
Se invece decide di procedere sulla strada della normalizzazione, troverà il terreno degli elettori moderati rioccupato dai vecchi proprietari gollisti (“Le vieux monde est de retour”, scrive con evidente soddisfazione il direttore del Figaro nell’editoriale di oggi) che con queste elezioni si candidano a riprendersi l’Eliseo nel 2022.
La campana è suonata ieri, più ancora che per Marine, per Emmanuel Macron, il cui partito “La République en marche” è svanito sotto il peso della propria inconsistenza, una specie di Cinque stelle chic, spuntato dal nulla nel 2017 quando si celebrarono con troppo anticipo i funerali dei vecchi partiti.
Visti i risultati di ieri, per la sfida dell’Eliseo segnatevi questi nomi: Xavier Bertrand, eletto trionfalmente nell’Alto Nord, ex ministro di Chirac, che già parla da candidato presidente; Valérie Pecresse, confermata al vertice dell’Ile de France (la regione di Parigi); Laurent Wauquiez, il più destro di tutti (certo, oggi, più della Le Pen), rieletto in Alvernia-Rodano-Alpi.
Che poi l’85 per cento dei giovani tra 18 e 35 anni non sia andato a votare, è un’altra storia: se la Le Pen non fa più paura, gli altri non mettono nessuna voglia.
(da Huffingtonpost)
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