Destra di Popolo.net

SENZA VERGOGNA: DURANTE LA VISITA DI GIORGIA MELONI E URSULA VON DER LEYEN, IL SOTTOSEGRETARIO BIGNAMI (CHE RICORDIAMO PER IL SUO TRAVESTIMENTO DA NAZISTA) HA CHIAMATO PIANTEDOSI PER LAMENTARSI DI UN GRUPPO DI ALLUVIONATI CHE PROTESTAVA PACIFICAMENTE IN PIAZZA

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

I RESPONSABILI DELL’ORDINE PUBBLICO NON HANNO POTUTO FARE NULLA VISTO CHE LA MANIFESTAZIONE NON MINACCIAVA LA SICUREZZA…I SINDACATI DI POLIZIA: “HA PROVATO A LIMITARE LE PROTESTE E CI HA DATO DEGLI INCOMPETENTI”

È un vero e proprio caso, quello provocato dal comportamento del viceministro meloniano ai Trasporti Galeazzo Bignami rispetto alle manifestazioni di protesta che si sono svolte mercoledì scorso nel corso della visita di Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen a Forlì.
Secondo l’Associazione nazionale dei funzionari di polizia, l’atteggiamento di Bignami – uomo forte di Fratelli d’Italia in Emilia Romagna – può “apparire e/o essere interpretate come un tentativo di limitare questo diritto fondamentale, soprattutto considerando la natura pacifica della manifestazione e l’importanza pubblica degli alluvionati”.
Ma ricostruiamo i fatti.
La notizia viene rivelata da Repubblica. Durante la visita di Meloni e della presidente della Commissione europea von der Leyen a Forlì, Bignami viene avvistato mentre si lamenta – di fronte a diversi presenti – con i funzionari responsabili dell’ordine pubblico della gestione della piazza. In particolare, il sottosegretario – visibilmente contrariato – protesta per il fatto che la manifestazione di piazza disturberebbe l’arrivo delle due leader.
In realtà, i manifestanti si trovavano confinati dietro alcune transenne nel centro di piazza Aurelio Saffi, a diverse decine di metri dall’evento e in piena sicurezza. Troppo poco, comunque, per Bignami. Il meloniano – riporta Repubblica – prima chiede di chiudere il portone per evitare che l’eco delle proteste – amplificato anche dai portici – possa disturbare l’ingresso di Meloni e von der Leyen, poi pretende di serrare le finestre del salone al primo piano (dalle quale i giornalisti presenti riprendevano i manifestanti), quindi telefona a un interlocutore, chiamandolo “Matteo” e “ministro”.
Si rivelerà essere il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. A lui invia anche le foto della manifestazione, ma ottiene in cambio soltanto il gelo e il richiamo al legittimo diritto di manifestare, nel rispetto della legge. Quello di Bignami, scrive oggi sul sito del sindacato il segretario nazionale dell’Associazione nazionale funzionari di Polizia, Enzo Marco Letizia, è un comportamento che “solleva questioni importanti che riguardano il diritto alla libera espressione, la partecipazione civica e la responsabilità dell’ordine pubblico”.
(da La Repubblica)

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TORINO, NEI CAF LA RIVOLTA DEI TRADITI DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

SENZA SUSSIDIO MIGLIAIA DI 50-60 ENNI DISOCCUPATI

Qualche giorno fa, a Domodossola, l’addetta di un Caf è stata presa a schiaffi da un cinquantenne; l’hanno dimessa dal pronto soccorso con cinque giorni di prognosi.
A Casale Monferrato una donna si è barricata dentro gli uffici del patronato. E poi, Torino, Alessandria, Vercelli, Borgosesia e altri comuni del Piemonte: aggressioni, minacce, insulti, urla.
«Stiamo diventando una frontiera, come gli ospedali: uno di quei presidi nei quali chi si sente tradito scarica la propria rabbia sugli operatori», spiega Stefania Magrassi, a capo dei Caf della Cgil nelle province di Asti e Alessandria.
A Nord di Roma il Piemonte è la regione con il più alto numero di percettori del reddito di cittadinanza: nel 2023, 70 mila famiglie, 129 mila persone, assegno medio di 526 euro al mese secondo i dati Inps. Solo la Lombardia ne ha di più (180 mila) ma ha anche quasi il triplo degli abitanti.
Nei Centri di assistenza fiscale (Caf) da qualche giorno si vive quasi come in trincea. È scattata la corsa all’Isee, il modulo che serve per richiedere allo Stato bonus e sussidi: dai contributi per le bollette di luce e gas fino all’assegno di inclusione, la misura che ha rimpiazzato il reddito di cittadinanza.
Ma le regole sono cambiate: fino allo scorso anno chi aveva più di 25 anni e viveva da solo faceva domanda sulla base di un Isee che considerava solo la propria situazione; adesso viene incluso nel nucleo famigliare. Non è una differenza da poco. Migliaia di donne e uomini di 50 e più anni, che vivono soli ma hanno perso il lavoro e sono a reddito zero, saranno associati ai genitori anziani, i quali hanno la pensione e spesso una casa di proprietà. E una pensione, un immobile e qualche risparmio portano in fretta l’Isee sopra i 9 mila euro. Addio al sussidio.
«La stretta voluta dal governo rischia di tagliare fuori migliaia di persone. E molti, in questi giorni, messi di fronte a una situazione che ignoravano capiscono che perderanno l’unica fonte di reddito e crollano – dice Daniele Caputo, a capo della rete dei Caf della Cgil a Cuneo e provincia -. Il livello di tensione si è alzato enormemente. Chi sta agli sportelli vive in uno stato d’agitazione e anche d’angoscia, perché ci troviamo davanti persone alle quali dobbiamo spiegare che non riceveranno più un euro». C’è chi scoppia in lacrime, chi protesta, chi urla, chi insulta. E chi aggredisce.
Come a Domodossola, quattro giorni fa. O come in altre città dove è stato necessario l’intervento delle forze dell’ordine o quello dei colleghi accorsi dagli altri uffici. «Ci danno dei farabutti, danno in escandescenza – rivela Mauro Casucci, coordinatore dei Caf e dei patronati della Uil in Piemonte -. Anche a Torino, nella nostra sede principale di via Bologna, ci sono stati momenti di tensione. E gli operatori cominciano ad avere paura: i nostri sono uffici aperti, non ci sono barriere né tantomeno vigilanza; dipendenti e collaboratori stanno correndo dei rischi».
In alcune sedi sono stati rivisti i turni in modo che nessun addetto resti solo o che ci sia una sorveglianza da parte dei colleghi degli altri uffici o meglio ancora degli addetti al servizio d’ordine dei sindacati. «Sta diventando un problema di sicurezza – rivela Stefania Magrassi -. Mai successo qualcosa del genere: certo, c’erano episodi sporadici, ma ora arriva una segnalazione al giorno. Siamo molto preoccupati». E avviliti. «Per tanti quei soldi sono lo spartiacque tra sopravvivere e sprofondare – racconta Lucia Decorato, responsabile dei Caf nel Vercellese -. Noi siamo un avamposto, quelli cui tocca dare una notizia terribile. Leggiamo lo sconforto nei loro volti, l’umiliazione di chi a quell’età deve dipendere dai genitori». Non è un problema di ordine pubblico, spiega il segretario piemontese della Cgil Giorgio Airaudo: «Dalla sanità alla scuola al contrasto alle povertà, assistiamo a un arretramento dello Stato che peggiora la condizione economica di migliaia di persone e indebolisce il tessuto sociale. C’è una questione sociale che il governo sta alimentando con le proprie scelte».
Ci sono territori dove certe decisioni pesano più che altrove. Come il Piemonte, regione con molti beneficiari di sussidi e moltissimi single. «E come spieghi a una donna di 60 anni che ora deve chiedere a sua mamma di pagarle l’affitto con la pensione? O a un cinquantenne rimasto senza lavoro che deve presentarsi a casa dei genitori, farsi dare l’estratto del conto corrente e tutti i dati patrimoniali per venire qui a fare l’Isee sapendo che quasi certamente non avrà diritto a nulla? – dice Lucia Decorato -. Queste persone vengono umiliate». «I nostri utenti sono fragili, vivono di quell’assegno – ragiona Cristina Barbero, responsabile regionale del patronato Cisl -. Da noi non si sono verificati episodi di violenza ma la situazione è tesa, per questo stiamo facendo l’impossibile per garantire un appuntamento ai tanti che lo chiedono».
Il clima si è fatto critico anche perché le persone che hanno bisogno di aiuto aumentano. Ridurre le misure di sostegno, o renderle meno accessibili, rischia di dilatare la faglia. «Faccio questo lavoro dal 1996, so riconoscere al primo sguardo chi prova a fare il furbo – racconta Lucia Decorato -. Ma in questi giorni io vedo solo disperati». Alberto Tomasso è stato segretario piemontese della Cgil, ora è a capo dei Caf. La sua è una riflessione cupa: «C’è chi pensa che due poveri facciano un ricco; invece fanno un povero al quadrato». Difficile dargli torto.
(da La Stampa)

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LA SANITÀ PUBBLICA? È APPALTATA A SOCIETÀ PRIVATE: MILENA GABANELLI SVELA IL FIUME DI MILIONI CHE LO STATO SPENDE PER PAGARE LE SOCIETÀ DI CONSULENZA

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

DOVREBBERO “SOLO” AIUTARE LE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE MA, IN REALTÀ, MUOVONO LE FILA DELL’INTERA MACCHINA DECIDENDO LA POLITICA SANITARIA… LA CORTE DEI CONTI CHIEDE, GIUSTAMENTE, PERCHÉ PAGARE LE SOCIETÀ PRIVATE QUANDO, PER AIUTARE LE REGIONI, CI SONO I TECNICI STIPENDIATI DALLO STATO DELL’AGENAS?

Partiamo da un dato incontrovertibile: uno Stato per gestire le sue risorse nell’interesse dei cittadini deve disporre di personale qualificato in grado di valutare le necessità, analizzare i mutamenti in corso, prendere decisioni conseguenti e assumersene la responsabilità. Da una quindicina d’anni questi compiti vengono sempre più spesso esternalizzati.
Prendiamo la politica sanitaria: dopo mesi di lettura di documenti, gare di appalto, accordi quadro e raccolta di informazioni da fonti qualificate, si scopre che a muovere le fila dell’intera macchina sono i big della consulenza globale.
Il ricorso al loro supporto dovrebbe essere straordinario e circoscritto ad acquisire competenze per poi procedere in autonomia. Avviene l’esatto contrario e, infatti, i loro contratti vengono reiterati costantemente. Vediamo con quali costi e risultati e come, in definitiva, i consulenti finiscono per sostituirsi non solo ai manager interni all’istituzione, ma all’istituzione stessa. Sullo sfondo una domanda: la pubblica amministrazione è piena di incapaci o non vuole assumersi responsabilità?
Nel 2005 viene stabilito per legge che le Regioni con i conti sanitari in rosso devono rientrare e hanno l’obbligo di farsi certificare i bilanci da un advisor. In campo entra la società di revisione contabile americana Kpmg, prima scelta dal Mef senza gara, poi con tre gare nel 2011, 2014 e nel 2018, e con l’ok del Mef le Regioni gli affidano anche la riorganizzazione della spesa sanitaria.
Kpmg lavora anche in cordata con altri due colossi: Ernst&Young e Price Waterhouse Coopers (PwC). Dal 2007 al 2019 Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise e Sicilia sborsano in consulenza 85,4 milioni di euro. Il 12 gennaio 2021 la Corte dei conti scrive: perché pagate Kpmg quando per aiutare le Regioni a spendere meglio i soldi c’è l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) che ha i tecnici competenti dedicati? Per tutta risposta, con la gara del 14 novembre 2022, scatta un nuovo affidamento a Kpmg per altri 8,17 milioni euro per Lazio, Campania, Calabria, Sicilia; e a Intellera (costola di PwC) per 3,16 milioni di euro per Abruzzo e Molise.
I risultati? I conti migliorano, ma vediamo come. Per esempio, il Lazio passa da un debito di 1,2 miliardi a un attivo di 84 milioni, però nello stesso periodo riceve dallo Stato 2,49 miliardi in più. La Campania da un debito di 917 milioni va in attivo per 27 milioni, ma dallo Stato arrivano 1,6 miliardi in più. E via così. Nonostante le consulenze, al 2020 Abruzzo, Molise e Calabria non sono riuscite nemmeno ad azzerare il disavanzo e anche le altre sono ancora in Piano di rientro.
Uno degli assi strategici del Pnrr è la transizione digitale. Per la Sanità vuol dire rinnovare i sistemi informatici di ospedali e Asl. Per farlo il Pnrr dà 2,1 miliardi così divisi: 1,45 miliardi di euro per la digitalizzazione dei Dipartimenti di Emergenza, Urgenza e Accettazione; 600 milioni per lo sviluppo del fascicolo sanitario; 80 milioni per la formazione di competenze digitali e 30 milioni per la reingegnerizzazione del Nuovo Sistema Informativo Sanitario a livello locale.
Per tutto il sistema sanitario pubblico vuol dire digitalizzare le informazioni sanitarie sui pazienti (cartella clinica e fascicolo sanitario) e organizzare il lavoro di conseguenza. Nel 2021 la cordata formata da Kpmg, McKinsey, Ernst & Young si aggiudica la gara per la consulenza. Spesa: 185 milioni di euro. Le Regioni (tranne Valle d’Aosta e Basilicata) chiedono a queste società di fornire esperti per istruire il personale sanitario e operatori indipendenti per monitorare l’avanzamento lavori nelle singole Asl. Ma leggendo i piani dei fabbisogni si scopre che è richiesta anche la parte strategica e di governance e, cioè, stabilire cosa serve, come gestire i progetti, e analizzare i flussi informativi per rendere l’assistenza più efficiente. Cosa vuol dire in concreto?
I Big data, con le caratteristiche degli assistiti e le prestazioni erogate, devono essere raccolti e analizzati per monitorare e programmare le cure: per farlo vengono richiesti studi di fattibilità per la creazione di database regionali e reportistica sulla situazione attuale. In sintesi: è nelle loro mani la definizione dei nuovi modelli organizzativi delle cure che fanno seguito alla digitalizzazione, compreso il fabbisogno di medici e infermieri e l’individuazione dei criteri in base ai quali definire i tetti di spesa. Detto in parole povere: i consulenti decidono la politica sanitaria.
Le attività delle «Big Con» si svolgono all’interno degli uffici e delle direzioni sanitarie o delle Asl. Sono ammessi sub-appalti: vuol dire che le stesse società di consulenza vanno a cercare sul mercato le competenze che non hanno. Del resto la loro esperienza primaria è quella di revisori contabili. Quindi le Regioni pagano un consulente che poi ingaggia altri consulenti e si tiene pure il know how, oltre ad una mole di informazioni sanitarie dal valore inestimabile per disegnare strategie di marketing.
Sempre per la digitalizzazione, nel 2022 per 28 milioni di euro si affidano a Kpmg, McKinsey e Ernst & Young anche il Dipartimento per la trasformazione digitale e il ministero della Salute. Nonostante sia un compito istituzionale del ministero definire e programmare la direzione di marcia del servizio sanitario nazionale, con linee guida e decreti, il lavoro viene fatto svolgere a soggetti privati facendoli entrare nel cuore del sistema sanitario nazionale.
L’oggetto specifico di questi servizi di supporto non è individuabile se non per i macro-ambiti; non si conosce (perché non risulta pubblicato) di che cosa specificamente questi consulenti si siano occupati in concreto, né risulta pubblicato alcun report sugli esisti delle attività svolte. E non è la prima volta. Dal 2007 il ministero della Salute paga 7,4 milioni a Pricewaterhouse per farsi dire quali prestazioni offrono e a chi le assicurazioni sanitarie, per fare previsioni sui bisogni di salute del futuro incrociando i dati che arrivano da varie piattaforme e per sviluppare, in generale, il sistema informativo sanitario. Altri 4,6 milioni vengono dati nel 2023 a Intellera, Deloitte e Arthur Andersen sempre per fare previsioni sui bisogni di salute futuri.
Lo svuotamento di competenze
Eppure il ministero ha i suoi direttori generali, i dirigenti, i funzionari, gli uffici legali, come pure le Regioni, che dal Veneto alla Campania, passando per Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Puglia hanno pure le società in house con centinaia di esperti e informatici. A cosa servono, se le decisioni poi vengono delegate alle società di consulenza per sfornare il pacchetto completo? E se va male non è colpa di nessuno.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
per il “Corriere della Sera”

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COME FACCIAMO GIUSTIZIA SE I BRACCIALETTI ELETTRONICI NON FUNZIONANO? -DAI 5700 SISTEMI ATTIVI IN ITALIA, OGNI GIORNO ARRIVANO FINO A 30 FALSI ALLARMI

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

I CARABINIERI SCRIVONO AL GOVERNO PER CHIEDERE UN INTERVENTO SUI TROPPI MALFUNZIONAMENTI NEI DISPOSITIVI, USATI PER PER CONTROLLARE DETENUTI AI DOMICILIARI O STALKER: “LO STRUMENTO, CONCEPITO PER MIGLIORARE LA SICUREZZA, RISCHIA DI PEGGIORARLA, E PROVOCA UN DISPENDIO DI RISORSE CHE NON POSSIAMO PERMETTERCI”

Ogni giorno in Italia, di falsi allarmi dai 5.700 braccialetti elettronici attivati per controllare detenuti ai domiciliari o stalker, ne suonano continuamente. Centinaia, denunciano i carabinieri aderenti all’Unione sindacale militare interforze, che hanno scritto ai ministri di Giustizia, Interno e Difesa.
«Un dispositivo malfunzionante è in grado di provocare fino a 30 falsi allarmi al giorno — spiega Carmine Caforio, segretario generale dell’Usmia, ma anche comandante di una delle squadre del Radiomobile di Roma —. E questo provoca un dispendio di risorse che non possiamo permetterci. Ogni volta che un dispositivo suona, la pattuglia delle forze dell’ordine che ha in carico il controllo della persona deve subito intervenire, deve anche accompagnare il tecnico dell’ente gestore per l’eventuale verifica. Un’operazione che impiega almeno un’ora e che distoglie le pattuglie dal controllo del territorio, con tutto quello che ne deriva. A parte le conseguenze psicologiche per la potenziale vittima di una violenza di genere ».
All’interno dei braccialetti elettronici c’è una scheda telefonica che chiama in tempo reale la centrale operativa ad ogni spostamento dall’area in cui dovrebbe rimanere. Ci sono quelli dotati di geolocalizzatore, dunque in grado di seguire gli eventuali spostamenti sospetti della persona controllata, e ci sono quelli semplici, senza Gps.
Nel caso in cui vengono utilizzati per garantire la sicurezza di donne minacciate, sono tarati su una distanza minima a cui lo stalker deve attenersi e un dispositivo gemello viene consegnato alla vittima perché possa essere avvisata in tempo reale di una ipotetica minaccia. «Se non verranno adottati urgenti rimedi il dispositivo, concepito per migliorare la sicurezza, rischia di peggiorarla, diventando uno strumento poco credibile e soprattutto incontrollato — sottolinea Caforio».
In Italia, a dicembre, il numero di braccialetti attivi era di 5.695. Di questi, 1.019 sono utilizzati per casi di stalking, 671 sotto il controllo dei carabinieri, 348 dalla polizia. A gestire il servizio ormai da molti anni è Fastweb, la compagnia telefonica che a febbraio 2022 ha nuovamente vinto la gara d’appalto bandita dal Viminale aggiudicandosi per 15,6 milioni di euro la fornitura e il monitoraggio dei braccialetti elettronici richiesti dall’autorità giudiziaria. Spesso dalla richiesta all’effettivo montaggio del dispositivo passa anche una settimana. Ai rilievi mossi nella lettera del sindacato dei carabinieri, Fastweb ha preferito rispondere con un «no comment».
(da agenzie)

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GERMANIA FUORI DALL’UNIONE EUROPEA: CON QUESTA PROPOSTA I NEO-NAZI DI AFD E’ LA VOLTA CHE PRENDONO DUE CALCI IN CULO NELLE URNE

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

LA “DEXIT” VEDE FAVOREVOLE SOLO IL 10% DEI TEDESCHI, META’ DEL LORO ELETTORATO

Dopo la Brexit, arriva la Dexit. O almeno questo è il sogno di Alice Weidel, leader del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) che ha annunciato la volontà di organizzare un referendum per votare l’uscita della Germania dall’Unione europea.
Sono giorni complessi per il Paese: nel weekend è stato travolto da numerose manifestazioni partecipate da centinaia di migliaia di cittadini che hanno riempito le piazze di tantissime città per contestare AfD e denunciare le rivelazioni sui piani di deportazione di massa per le persone migranti. Ciononostante, il partito non ha intenzione di fare alcun passo indietro, anzi va alla carica. Weidel, in un’intervista al Financial Times, ha definito la Brexit «assolutamente giusta» e ha dichiarato che farà in modo di realizzarla anche in Germania.
La Dexit (che non piace ai cittadini)
«Un modello per il nostro Paese»: così l’ha definita a colloquio con Guy Chazan del Ft. Per riuscirci ritiene che sia necessario «riformare l’Unione europea» e rimuovere il «deficit democratico» limitando i poteri della Commissione europea, che taccia come «un esecutivo non eletto». Ma – ci tiene a precisare – «se una riforma non è possibile, se non riusciamo a ricostruire la sovranità degli Stati membri dell’Ue, dovremmo lasciare che sia il popolo a decidere, proprio come ha fatto la Gran Bretagna. E potremmo indire un referendum sulla ‘Dexit’, ovvero l’uscita della Germania dall’Ue». Si tratta di una scelta attualmente rischiosa: secondo un sondaggio della Konrad Adenauer Stiftung, il think tank della Cdu, «solo il 10% dei tedeschi sarebbe a favore».
(da agenzie)

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PASTIFICIO RUMMO, LA VISITA DI SALVINI E’ UN BOOMERANG, SUI SOCIAL SCATTA IL BOICOTTAGGIO

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

IL PATRON: “NON CAPISCO”… SE NON CAPISCI CHE NON SI PERMETTE A UN INDAGATO PER SEQUESTRO DI PERSONA DI ENTRARE A CASA TUA PROVA A CHIEDERE IN GIRO

Non esattamente il migliore dei testimonial possibili.
La visita di Matteo Salvini al pastificio Rummo, esibita dal vicepremier anche sui propri profili social, si rivela un boomerang per il politico e per la stessa azienda campana.
Da alcuni giorni i profili social dell’azienda sono infatti diventati bersaglio di critiche di molto accese, con tanto di hashtag dedicato #boicottaRummo.
Una beffa per l’azienda che solo alcuni fa, proprio grazie al tamtam sui social in seguito al disastroso alluvione che l’aveva colpita nel 2015, aveva invece beneficiato di un grosso sostegno popolare, con tanto di petizione su change.org per spingere le scuole ad acquistare il prodotto del pastificio per sostenere l’impresa in difficoltà.
Otto anni dopo però il clima sembra cambiato e gli utenti si mostrano ora indignati, contestando all’azienda di avere dato spazio “promozionale” al politico leghista, nella sua vita politica precedente peraltro non tenerissimo con il Mezzogiorno.
Un reazione che il patron dell’azienda Cosimo Rummo non riesce a spiegarsi. “Sono letteralmente senza parole”, ha detto in una intervista al Corriere del Mezzogiorno. “Il ministro delle Infrastrutture chiede di venire a visitare lo stabilimento, non capisco cosa vogliano: dovevo chiudergli la porta in faccia? Non capisco”, ha aggiunto.
Ecco bravo ti sei dato la risposta: notificargli che non è persona gradita
(da agenzie)

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SOLTANTO IL 42% DEGLI ITALIANI È D’ACCORDO CON GLI AIUTI MILITARI A KIEV

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

I PIÙ FAVOREVOLI A SOSTENERE LA RESISTENZA SONO GLI ELETTORI DEL PD (56%), MENTRE TRA I PARTITI DI GOVERNO QUELLI DELLA LEGA (48%) SONO PIÙ D’ACCORDO DI QUELLI CHE VOTANI I TURBO-ATLANTISTI FDI E FI (45%)… TRA I GRILLINI SOLO UN TERZO VUOLE DARE LE ARMI A ZELENSKY… LE DIFFERENZE PER ETÀ

Il consenso degli italiani verso la decisione del governo di inviare aiuti militari in Ucraina, dopo l’intervento della Russia nel febbraio 2022, ha fatto osservare diverse variazioni, nel corso dei mesi seguenti, come emerge dai sondaggi condotti da Demos-LaPolis (Università di Urbino).
Così, nell’ultimo anno, abbiamo assistito a variazioni continue nell’orientamento dei cittadini, che hanno, comunque, dimostrato un consenso sempre elevato. Anche se mai dominante. All’inizio, nella primavera del 2022, infatti, appariva – di poco superiore al 50%. E, comunque, non è mai sceso al di sotto del 40%.
È, peraltro, significativo come il sostegno all’invio di aiuti militari, dopo aver toccato livelli molto alti, durante l’estate del 2023, sia sceso in modo significativo, in autunno. Quando l’attacco di Hamas a Israele e la conseguente reazione, concentrata sulla Striscia di Gaza, hanno spostato altrove, cioè verso Medio Oriente, il baricentro dell’attenzione e delle preoccupazioni
Tuttavia, le divisioni, nella società, a questo proposito, nel corso dei mesi sono divenute profonde ed evidenti. In particolare, sotto il profilo politico. E attraversano all’interno gli stessi partiti. Distanziando i gruppi dirigenti dalla loro base. Nonostante che in Parlamento, nei giorni scorsi, il Pd si fosse astenuto sulla consegna di armi a Kiev, i suoi elettori sembrano orientati diversamente.
Sugli aiuti militari all’Ucraina, infatti, il maggior grado di favore è espresso proprio dagli elettori del Pd: 56%. Mentre, simmetricamente, la base dei partiti del governo di centro-destra, al proposito, manifesta un consenso più limitato e di misura analoga. Fra il 45% (FdI e Fi) e il 48% (Lega). In fondo a questa graduatoria, troviamo il M5S. Poco più di un terzo, fra i suoi elettori, infatti, si dice d’accordo sugli aiuti militari a Kiev. Un altro aspetto che sottolinea e marca le differenze fra i cittadini, oltre alla posizione politica, è l’età.
Il massimo grado di approvazione verso i provvedimenti del governo, e quindi verso il sostegno militare all’Ucraina, si osserva nelle classi di età “opposte”.
Fra i più giovani, sotto ai 30 anni (46%), e, soprattutto, fra gli anziani, oltre i 65 anni (50%). Se associamo l’età alla professione, questa distinzione “comune” diviene ancora più evidente, in quanto il sostegno più elevato caratterizza gli studenti (52%) e i pensionati (50%). Queste “analoghe diversità” contribuiscono a spiegare come le differenze di atteggiamento riflettano un comune problema.
L’in-sicurezza. Che, naturalmente, pervade gli anziani, i quali vedono e hanno di fronte un futuro “corto”. E i giovani, che, invece, hanno davanti un futuro “lungo”. Un “orizzonte ampio”, Ma, al tempo stesso, “oscuro”. Senza certezze. “In tempo di guerre” l’insicurezza assume colori politici e tratti generazionali definiti. E contribuisce ad accentuare il disincanto verso i Paesi teatro di invasioni, come l’Ucraina. Soprattutto, ma non solo, fra gli elettori di centro-destra. Di generazioni opposte. Fra i più giovani e i più anziani.
(da La Repubblica)

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L’ITALIA E’ IL PAESE DEGLI INFLUENCER: OGNI 100 PERSONE CHE VIVONO IN ITALIA, IL 2.22% FA QUESTO MESTIERE O QUANTOMENO CI PROVA

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

NEL 2023, L’UPA, CHE RACCOGLIE GLI INSERZIONISTI PUBBLICITARI PIÙ RILEVANTI, HA STABILITO CHE LA SPESA SOCIAL NEL NOSTRO PAESE VALE 323 MILIONI

Fosse un programma della Rai, lo chiameremmo L’eredità . Se la Ferragni capitolerà per aver tradito il tratto di spontaneità proprio del pianeta influencer, una porzione del suo fatturato milionario passerà di mano. Alcune aziende la abbandoneranno. E nuovi influencer – oggi acerbi – si infileranno nel vuoto di magnetismo che la sua caduta può creare.
In questo scenario incerto, la pubblicità via social (l’influencer marketing) conosce il primo terremoto della sua giovane storia. I due anni di pandemia, con milioni di persone costrette in casa dal coprifuoco sanitario, hanno spinto il commercio elettronico e, di conseguenza, anche le fortune degli influencer. Nel 2021, una ricerca De-Rev Lab ha stimato in 280 milioni i soldi che le imprese girano alle celebrità dei social – ma anche alle figure emergenti – perché promuovano i loro prodotti: più 15% rispetto all’anno prima.
Nel 2023, l’Upa – che raccoglie gli inserzionisti pubblicitari più rilevanti – ha fissato la spesa social in 323 milioni in Italia: più 10%. Ora la crescita a due cifre deve misurarsi con una doppia insidiosa incognita: la crisi Ferragni e la perdita di credibilità complessiva di questa forma di pubblicità.
Se le imprese della moda – da Dior a Calzedonia – hanno speso tanto nelle campagne via social, soprattutto su Instagram, è perché hanno trovato in Ferragni un’ambasciatrice popolare. Prendiamo le più rilevanti campagne per due tipi di prodotto (moda e cura della persona). Tra gennaio e settembre 2023, nessun influencer ha funzionato quanto lei su quella piattaforma.
Sono bastati 5 post della Ferragni (5, quasi niente) con il brand “Passione unghie” per scatenare oltre 2 milioni 444 mila di interazioni dei suoi “seguaci”: un like al suo post, una condivisione, un viaggio verso il sito della marca per comprare.
Analizziamo più da vicino 7 campagne: Atelier Emé per i suoi abiti da sposa, Dior, Calzedonia, Louis Vuitton, Gucci, Intimissimi e Ghd (piastre per i capelli). Questi brand hanno messo in campo 88 influencer per spingere i loro prodotti: un esercito.
Eppure nessuno ha garantito più interazioni di Ferragni. Per ogni euro che investe in pubblicità social, oggi un’impresa ottiene un ritorno medio di 1,21 euro. In che misura il Roi, il ritorno economico dell’investimento pubblicitario, si confermerà nell’era post-Ferragni e della perdita dell’innocenza per l’influencer marketing?
In uno scenario di luci e ombre, un’altra parola chiave si fa largo così in questo mondo: certificazione. È urgente che la popolarità di un influencer sia validata con una metodologia credibile e da un soggetto indipendente. Un problema nel problema è che le piattaforme social – da Facebook a TikTok – talvolta hanno numeri gonfiati. Permettono ancora che una persona o un’impresa compri falsi follower, robot capaci anche di produrre falsi commenti e like per puntellare la popolarità di un personaggio. Se ne è accorta la nostra Autorità Antitrust che, a novembre 2023, ha contestato a Meta (Facebook, Instagram) una vigilanza ancora blanda sul fenomeno.
La buona notizia per l’Italia è che il pianeta infuencer vanta un serbatoio di nuove leve importante. Abbiamo il maggior numero di influencer e creativi via social dei Paesi comunitari rispetto alla popolazione residente. Ogni 100 persone che vivono in Italia, il 2.22% fa questo mestiere o quantomeno ci prova, avendo più di 18 anni e almeno 1000 seguaci.
(da la Repubblica)

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DOCENTI SOTTO STRESS, I CASI DI BURNOUT E DI SUICIDI SONO IN AUMENTO TRA I DOCENTI ITALIANI

Gennaio 22nd, 2024 Riccardo Fucile

LA TENSIONE FISICA E MENTALE DEI NOSTRI PROFESSORI È SUPERIORE A QUELLA VISSUTA DAI COLLEGHI IN EUROPA. I MOTIVI? ALUNNI INDISCIPLINATI, GENITORI AGGRESSIVI E CARICHI DI LAVORO ECCESSIVI… I PROFESSORI SONO SEMPRE PIU’ “VECCHI” E FANNO FATICA A STARE AL PASSO CON LE TECNOLOGIE

Aumenta lo stress degli insegnanti italiani. Alunni sempre più indisciplinati e genitori troppo esigenti mettono in difficoltà i prof della scuola italiana. A dirlo è l’Ocse in uno dei suoi ultimi rapporti […]. Un paio di mesi fa, Vittorio Lodolo D’Oria, il più autorevole esperto a livello nazionale di burnout degli insegnanti, ha pubblicato una nuova ricerca che ha evidenziato un dato allarmante: negli ultimi dieci anni, tra i docenti italiani si sono registrati oltre 100 suicidi.
LE SFIDE DEL MONDO CHE CAMBIA
In Italia, “mantenere la disciplina in classe” è fonte di stress per il 43% dei docenti di scuola media. Percentuale che sale di un paio di punti nelle scuole svantaggiate. In quartieri a rischio. Nel Regno Unito la percentuale scende al 30% mentre in Francia sale al 59%.
L’AGGRESSIVITÀ DEI GENITORI
L’altra fonte di tensione fisica e mentale riguarda i genitori le cui preoccupazioni e gli attacchi creano problemi al 39% dei docenti italiani. Ed è nelle scuole bene che questa percentuale sale di un punto. In 11 paesi europei su 18 le cose, in questo senso, vanno meglio che in Italia. Una classe docente sempre più vecchia, come quella italiana, mantenuta a forza in servizio dalla legge Fornero, fa fatica a tenere il passo con le tecnologie […] Il 41% dei prof ammette che fa fatica a “stare al passo con le mutevoli esigenze”.
IL CARICO DI LAVORO
C’è poi la responsabilità di ciò che accade in classe, dove gli alunni ormai sono imprevedibili. A stressarsi di questo aspetto un docente italiano su tre. Anche se nella quasi totalità dei paesi UE questo aspetto è al centro delle preoccupazioni di un numero maggiore di docenti. E c’è poi il carico di lavoro. Un insegnante italiano su cinque si lamenta di svolgere troppe lezioni in classe, più di uno su tre non sopporta l’eccessivo carico di lavoro amministrativo e un quarto dei docenti interpellati lavora troppo anche a casa per la preparazione delle lezioni. Ma all’estero il carico di lavoro domestico sembra proprio maggiore.
E c’è poi l’aspetto legato agli alunni speciali: disabili, con i disturbi dell’apprendimento (Dsa) e con bisogni educativi speciali (Bes). Quattro docenti italiani su dieci incontrano difficoltà ad adattare le loro lezioni per questi alunni. Nel Regno Unito e in Spagna, i docenti si lamentano meno di questo aspetto. In Francia e Portogallo si stressano di più.
(da La Repubblica)

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