Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
A SCONFESSARE LA NARRAZIONE DELLA “PRIMA NAZIONE D’EUROPA” È LA RAGIONERIA GENERALE DELLO STATO… SE LA REALIZZAZIONE DEI PROGETTI NON AVANZA, BRUXELLES TAGLIERÀ I FONDI
Un affanno da 650 milioni in media al mese. Meno di 4 miliardi spesi, tra gennaio e giugno. Altro che Pnrr dei record, come ama definirlo Giorgia Meloni: il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha le ganasce ai piedi.
A sconfessare la narrazione della «prima nazione d’Europa» sono i numeri della Ragioneria generale dello Stato. L’ultimo monitoraggio di giugno rivela che sono stati messi a terra appena 49,5 dei 102,5 miliardi incassati fino ad oggi. Neppure la metà.
Ecco il pantano. Nonostante la revisione festeggiata come lo sprint salvifico, dopo il passo lento imputato al governo Draghi. Nonostante l’accentramento di poteri a Palazzo Chigi che, ripete il ritornello della destra, «ottimizza e velocizza». Nonostante i post sui social per festeggiare l’incasso delle rate. Nonostante le cabine di regia del «facciamoci un applauso perché siamo stati bravi».
A due anni dalla scadenza, la questione che sta precipitando sulle scrivanie della premier e del fedelissimo ministro-regista del Piano Raffaele Fitto non è più come recuperare i ritardi accumulati. Il rischio va addirittura oltre la necessità di capire come mantenere il ritmo, sempre più incessante, per incassare le rate semestrali.
Non che sia un problema da poco: per portare a casa la decima e ultima tranche bisognerà centrare 120 target, quattro volte di più rispetto a quelli che sono serviti per richiedere la sesta. Il pericolo, adesso, è ritrovarsi a fine corsa con le opere a metà e senza soldi per completarle. Perché questo recita il patto economico e politico stretto con Bruxelles: l’impegno va portato a termine nei tempi concordati, con una sequela di passaggi intermedi da rispettare.
E se il Piano non avanza, i soldi non arrivano. Fin qui tutto bene o quasi. Ma se le risorse portate a casa non vengono via via spese, allora i cantieri non avanzano come dovrebbero. Alla scadenza Bruxelles tirerà una linea: se il numero dei posti negli asili nido piuttosto che quello delle ferrovie da realizzare sarà inferiore a quello stabilito, allora l’Italia riceverà un saldo più basso. Tagli.
Uno scenario avverso che la spesa lenta sta già iniziando a prefigurare. E che impatterebbe anche sul Pil, ridimensionando la promessa, messa nero su bianco nell’ultimo Def, di una crescita aggiuntiva del 3,4% al 2026. Sull’onda dell’entusiasmo per il via libera della Commissione europea alla revisione del Piano, l’azzardo si è fatto addirittura più consistente rispetto al 3,1% stimato qualche mese prima.
Ma l’ultimo report della Ragioneria ha spento l’euforia. Non quella di Meloni, che si fa forte delle richieste di pagamento e degli incassi messi in fila. Anche Fitto non mostra segnali di cedimento. Invita tutti alla stanga. Si dice sicuro che i Comuni e i ministeri hanno fatto molto di più di quello che emerge dall’analisi dei tecnici del Mef.
Chi è preoccupato e insofferente è invece Giancarlo Giorgetti. Nelle scorse ore ha letto il report della Ragioneria. E ha preso atto che il burrone è a vista. Così allarmato, il ministro dell’Economia, da decidere di uscire allo scoperto. Lancia avvisi ai colleghi: «Spendete tanto e subito», altrimenti i conti non tornano. All’Europa deve garantire il rispetto della traiettoria di spesa indicata all’Italia per i prossimi anni come prova di fedeltà al nuovo Patto di stabilità.
In casa, invece, i conti li deve fare per la prossima manovra: il Pnrr a rilento significa meno Pil. All’ultima riunione della cabina di regia ha presentato il conto: «Se non spendete quest’anno i soldi del Pnrr che dovete spendere come previsto, allora dovrò rivedere al ribasso la stima per la crescita».
Ma il titolare del Tesoro sa che non basta. Per questo è ritornato a insistere sulla necessità di allungare la scadenza del Pnrr, portandola oltre il 2026. «Sarebbe stato più razionale prevedere tempi più normali, non ho paura ad affermarlo nelle sedi europee», le parole dell’arrembaggio. Sa, Giorgetti, che le soluzioni sono due: avere più tempo per spendere oppure ridurre gli impegni. La seconda via è di fatto vietata
Resta la prima opzione, ma la premier non è d’accordo. Non ora, almeno, che si è scoperta debole in Europa. E quindi ciak, si gira: nuova rata, nuovo video. Anche se intanto il «Pnrr dei record» si è trasformato in un film horror.
(da la Repubblica)
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Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
I TOTIANI SI DICONO SICURI: “FINO A SETTEMBRE NON SUCCEDE NIENTE, NEL NOSTRO INTERESSE E IN QUELLO DEGLI ALLEATI A LIVELLO NAZIONALE”… SI ANDREBBE A VOTARE A NOVEMBRE, INSIEME A EMILIA ROMAGNA E UMBRIA, ALTRE DUE REGIONI DOVE IL CENTRODESTRA NON PARTE FAVORITO. SE LE PERDESSE TUTTE E TRE, SAREBBE UN DISASTRO PER LA MAGGIORANZA
Molti totiani della prima ora si avviano verso Palazzo Ducale per «Invecchiare
bene», convegno con il ministro della Salute Orazio Schillaci, che nei molti politici liguri presenti suscita un interesse relativo, diciamo così. Infatti, la prima e unica domanda che viene rivolta a Piana riguarda la longevità, ma non quella degli umani. «La nostra giunta è destinata a durare, abbiamo intenzione di andare avanti».
Tra il pubblico, non si sussurra certo di problemi geriatrici. I consiglieri regionali degli altri partiti di maggioranza discutono tra loro di eventuali candidature, da pensare anche in fretta, dati i chiari di luna. Gli uomini di Toti fanno conciliabolo a parte, e si consolano come possono. «Fino a settembre non succede niente, nel nostro interesse e in quello degli alleati a livello nazionale» sostengono, rallegrandosi di questa convergenza. A farla breve, il ragionamento-panacea è il seguente.
Le carte sarebbero ancora in mano a Toti, perché se decidesse di dimettersi adesso, in Liguria si terrebbero le elezioni a novembre, insieme a Emilia-Romagna e Umbria, anch’esse due regioni dove il centrodestra non parte con il favore del pronostico. Fosse uno 0-3, sarebbe Caporetto. Quindi, prendere tempo, che più tardi si vota, meglio è. Tutti al mare e dopo si vedrà, che poi non c’è molto altro da fare, e da sperare.
(da agenzie)
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Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
“ANDREOTTI È STATO UN GRANDISSIMO STATISTA MA DI POLITICA NON CI CAPIVA NULLA. LA STORIA DEL BACIO CON TOTÒ RIINA? SE SOLO STRINGEVI LA MANO A GIULIO, LA RITRAEVA SCHIFATO. FIGURIAMOCI UN BACIO”
Cirino Pomicino, che ragazzo è stato prima di diventare «’o ministro»?
«Quinto di sette fratelli. Fino a me, tutti maschi. Poi, visto che mio padre voleva la femmina, nel 1942 nacque finalmente Maria Rosaria. Presa dall’entusiasmo, la donna di servizio uscì sul balcone sventolando il tricolore. Giù si radunò una piccola folla, iniziarono a gridare “è fernuta la guerra!” e noi da sopra “ma quando mai, è nata la creatura!”. Ci rimasero malissimo».
Tutti democristiani?
«Sei fratelli, sei partiti, sei squadre di calcio diverse. Io ero l’unico democristiano e l’unico milanista.
Dolori?
«Mio fratello Mariano morì a 33 anni per un male al cervello. Toccò a me dirlo a nostra madre. Lei guardò la Madonna di Pompei e le sussurrò: Madonna, non ti capisco, ma te lo affido».
Religioso?
«Tutte le sere dico il rosario. Quello da quindici poste, il più lungo».
Scaramantico?
«Nel 1992, a ridosso della riforma delle pensioni, Guido Carli andò da Andreotti per dimettersi da ministro delle Finanze. Io, che ero ministro del Bilancio, corsi da lui e gli dissi che non poteva farlo perché per me era una questione di vita o di morte».
Perché?
«Perché l’unica volta che nella storia della Repubblica si era dimesso un ministro delle Finanze, Silvio Gava, il ministro del Bilancio, Ezio Vanoni, era morto subito dopo. Carli non si dimise».
Pure lei ha rischiato di morire più volte.
«Il primo infarto fu nel 1979, durante una riunione di medici. Sei anni dopo ci fu Sigonella: con la crisi del governo Craxi finalmente andai a Parigi a fare quella visita di controllo che rinviavo da tempo. L’esito della coronarografia fu spietato: 90 per cento del circolo coronarico occluso, pochissimo tempo a disposizione, volo a Houston per l’operazione d’urgenza. Al Gemelli, qualche anno dopo, un giorno mi diedero tre ore di vita: avendo detto a Di Pietro che dopo tutte quelle indagini su di me avrebbe dovuto fare lui la mia orazione funebre, mia figlia gli telefonò, lui si precipitò al mio capezzale e, convinto che stessi per morire nel giro di pochi minuti, quasi piangendo si mise a fare un elogio della Dc».
E poi?
«E poi non sono morto. Un’altra sera entro al pronto soccorso, mi accomodo tranquillo su una sedia a rotelle, chiamo un infermiere: “Ho un infarto in corso, mi porti in corsia”. Quello mi guarda come se fossi pazzo: “Ma che cosa sta dicendo?”.
E io: “Infarto in corso, spinga la carrozzina e mi accompagni in corsia”. Risultato: infarto in corso. Dopo le elezioni del 2006, mi trasferisco a Milano perché, essendo in attesa del trapianto, devo stare a meno di un’ora dall’ospedale di Pavia. Mi tocca il cuore di un cinquantaduenne. Il mio vicino, col cuore di un trentaduenne, è morto».
Si ricorda chi era?
«Impossibile dimenticarlo: era Giorgio Tosatti, il grande giornalista sportivo. Tardò ad autorizzare il drastico intervento d’urgenza che aveva suggerito il primario. Fu impressionante vedere come passò dalla vita alla morte nel giro di pochissimi minuti, davanti ai miei occhi».
Dicono di lei: uno degli artefici del debito pubblico italiano.
«Sciocchezze. Certo, non si ha idea di quanti soldi abbia portato io a Napoli negli anni 80… ma per cose concrete: la metropolitana, il centro direzionale. È dimostrato, ad esempio dall’economista della Bocconi Tommaso Nannicini, che è stato senatore del Pd e non è di certo un mio amico, che l’esplosione del debito pubblico non fu dovuta all’aumento della spesa pubblica ma alla bassa pressione fiscale».
Potevate far pagare le tasse.
«Nell’Italia dello scontro sociale e del terrorismo? Il consenso ci serviva. Con noi, l’Italia divenne uno dei Paesi più ricchi del mondo. Prima che la svendessero, pezzo per pezzo».
Chi?
«Nel 1985 mi telefona Romano Prodi, presidente dell’Iri. E mi fa: “Ti volevo avvertire che sto per annunciare la vendita della Sme”. E io: “Ah sì? Stai vendendo? Perché, è tua? E quando te l’eri comprata?».
Le privatizzazioni.
«Secondo me dietro c’era un accordo segreto franco-tedesco sui Paesi del Mediterraneo. Vi siete chiesti come mai nessuna azienda tedesca si sia mai affacciata in Italia, mentre i francesi tutti? La fine del primato della politica è cominciata lì, con danni incalcolabili».
Secondo lei, Meloni non comanda?
«Ma che deve comandare? Comanda la finanza».
Le piace la presidente del Consiglio?
«Chi toglie la libertà al Parlamento prima o poi la toglie anche al Paese. Come fece Mussolini».
Non è diventata moderata?
«Una volta si diceva “gratta il cosacco e troverai il russo”. Qua gratti i Fratelli d’Italia e trovi i post-fascisti».
Andreotti comandava?
«Dirò una cosa che darà un dispiacere ai suoi tanti detrattori. Andreotti aveva un grande senso dello Stato ed è stato un grandissimo statista. Ma di politica non ci capiva nulla”.
Sta scherzando?
“Prima che arrivassi io, nella Dc la corrente andreottiana pesava il 5%. C’era giusto nel Lazio e in Sicilia. Poi ci fu l’allargamento alle altre regioni d’Italia, arrivammo noi giovani».
Mal sopportati dalla vecchia guardia?
«Sbardella, “lo Squalo”, disse che voleva fare il coordinatore. Gli risposi: “Caro Vittorio, tu vuoi fare il coordinatore, ma noi non vogliamo essere coordinati».
E la mafia?
«La mafia era nemica di quella Dc. Alla fine degli anni Ottanta, un giorno che avevo appuntamento con Andreotti, vidi coi miei occhi uscire dal suo studio due persone assieme: erano Salvo Lima e Giovanni Falcone».
La storia del bacio con Totò Riina?
«Bacio e Andreotti non possono stare nella stessa frase: se solo gli stringevi la mano, la ritraeva schifato. Figuriamoci un bacio».
Lei ha ispirato in parte Il Divo di Sorrentino, che ad Andreotti non piacque.
«Ero ricoverato e Sorrentino, prima di finire la sceneggiatura, venne a trovarmi in ospedale. Ma le feste a casa mia e i balli scatenati di Carlo Buccirosso, che nel film interpreta il sottoscritto, non ci sono mai stati. Anche se io amo le feste, e amo ballare».
Le riunioni di corrente?
“Robetta. I Dorotei si riunivano a Sirmione, la sinistra Dc a Chianciano, noi al massimo andavamo a mangiare ai Castelli romani”.
In decine di inchieste due condanne se l’è beccate, Pomicino.
«Per la tangente Enimont. Venne da me il figlio di Ferruzzi insieme al cognato, Carlo Sama. Dissero che se De Benedetti finanziava la sinistra e Berlusconi i socialisti, loro volevano contribuire all’attività della corrente del presidente del Consiglio in carica. E chi ero io per rifiutare?».
S’è arricchito?
«Un giorno venne a trovarmi Raul Gardini. Voleva convincermi a dargli una mano a far entrare due sue società nell’operazione Enimont. Allargai le braccia, dissi che doveva vedersela altrove quella faccenda. E cioè con De Mita».
Le garanzie che Gardini diceva di aver ottenuto da De Mita e dal Pci per gli sgravi fiscali a Montedison caddero nel vuoto, con il relativo decreto legge.
«Se avessi dato una piccola mano in quella vicenda, sono certo che sarei diventato miliardario».
È povero, quindi?
«Rifiutai con grande fatica l’offerta di denaro generosissima che Berlusconi mi fece alla fine degli anni Novanta, pur di avermi come suo ghost writer. Scrivere i discorsi per un altro, per giunta Berlusconi, avrebbe significato abbandonare la politica; e un medico mi aveva detto che, dei tanti modi di morire, farlo in modo malinconico sarebbe stato il peggiore».
Ha mai pensato a mettere insieme Berlusconi e Andreotti?
«Non solo l’ho pensato; l’ho fatto. Alla fine del 2000 vennero da me assieme, accompagnati l’uno da Gianni Letta e l’altro da Sergio D’Antoni e Ortensio Zecchino. Facemmo anche l’accordo: Andreotti sarebbe stato il leader ombra di un partito di centro che si sarebbe alleato col centrodestra berlusconiano alle elezioni del 2001».
Democrazia Europea, però, si presentò da sola alle elezioni. Che cosa successe?
«Il giorno dopo Andreotti ci ripensò. “Non me la sento di fare un’alleanza con Berlusconi…”. Le ripeto: grande statista e grande senso dello Stato; ma la politica-politica non è mai stata il suo forte».
Lei ci rimase male?
«Gli dissi “preside’, lei è senatore a vita e sta a posto; ma a quei due, D’Antoni e Zecchino, me li manda in mezzo a una strada!».
Lei è ancora qui, Pomicino.
«Credo sia la mia ultima intervista. Non sto bene, sto per ricoverarmi di nuovo. Anche per questo vorrei dare una risposta a tutti quelli che mi chiedono che cosa farei, oggi, nella situazione in cui si trova l’Italia, se fossi ancora ministro del Bilancio come ai vecchi tempi».
(da Corriere della Sera)
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Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
LA FIGLIA DEL CAVALIERE DELUSA DALLO SCARSO COINVOLGIMENTO NELLE SCELTE DEL PARTITO E DALL’APPIATTIMENTO ALLA LINEA POLITICA DEI SOVRANISTI
La primogenita di Silvio Berlusconi non gradirebbe più la leadership di Antonio
Tajani. Secondo quanto ricostruisce il Fatto quotidiano, i rapporti tra il segretario del partito e la famiglia del Cavaliere si sono raffreddati. Per varie ragioni. Innanzitutto, Marina Berlusconi lamenterebbe un mancato coordinamento tra Tajani, lei e i fratelli: nonostante siano i parenti più stretti del fondatore di Forza Italia a garantire – economicamente – l’esistenza del partito, l’attuale vicepremier avrebbe smesso di considerarli nelle scelte più importanti. Marina Berlusconi criticherebbe anche l’allineamento di Tajani alla linea politica di Giorgia Meloni. Mentre non si sarebbe ancora ricucito lo strappo tra la famiglia del Cavaliere e la presidente del Consiglio, dopo che quest’ultima volle far approvare dal governo la tassa sugli extraprofitti bancari.
La distanza con Meloni
La distanza con Meloni è stata recentemente rimarcata da Marina Berlusconi in un’intervista al Corriere, quando l’erede del Cavaliere biasimò l’estrema destra in materia di diritti civili. Fonti interne a Mediaset, sempre al giornale diretto da Marco Travaglio, avrebbero rivelato che lo scetticismo di Marina Berlusconi è forte, nonostante l’ottimo risultato elettorale alle Europee: a Tajani sarebbe rimproverato di non aver restituito un’identità chiara a Forza Italia. Mentre su molti temi, le posizioni assunte dagli azzurri sarebbero troppo simili a quelle dei meloniani. Anche sulla giustizia, ad esempio, Marina Berlusconi si sarebbe aspettata più coraggio per una riforma più impattante, come l’avrebbe voluta suo padre.
Il casting di Confalonieri
Mentre trapelano queste indiscrezioni, pare che Fedele Confalonieri starebbe cercando nuovi esponenti politici da far comparire sulle reti Mediaset. Lo scrive Repubblica. Nella tv di Cologno sarebbero in corso dei cambiamenti importanti, come l’uscita di Mauro Crippa. Aleggia il diktat di Pier Sivlio Berlusconi: niente giornalisti e conduttori che gravitano nell’orbita di Fratelli d’Italia. Contestualmente, Pier Silvio Berlusconi starebbe valutando una sua discesa nel campo politico: avrebbe avviato una serie di incontri con imprenditori ad Arcore e Villa Grande e, in aggiunta, avrebbe commissionato sondaggi sul suo gradimento personale.
L’aeroporto
Tutto ciò sta avvenendo in una delle settimane più importanti per la memoria e la celebrazione del fondatore di Forza Italia. È stato intitolato a Silvio Berlusconi l’aeroporto di Milano Malpensa, con un atto rivendicato soprattutto da Matteo Salvini. Di fronte all’esultanza del ministro delle Infrastrutture, avrebbe sorpreso il silenzio di Tajani. Dal segretario di Forza Italia non sono arrivate dichiarazioni sull’argomento. Piuttosto, ha lasciato che la gioia fosse espressa da altri parlamentari del suo partito e dal mondo social azzurro. Comunque, la mancanza di esternazioni di Tajani potrebbe essere letta come un tentativo di non riconoscere la vittoria del segretario leghista, il cui dicastero è competente in materia di aeroporti.
(da Open)
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Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
PUO’ COMINCIARE A USCIRE DOPO AVER SCONTATO 26 ANNI DI PENA
Il detenuto Chico Forti potrebbe avere la libertà condizionale tra due anni. Ovvero nel 2026, quando avrà scontato almeno 26 anni di prigione. Ma l’inchiesta sulle minacce a Marco Travaglio, Selvaggia Lucarelli e una terza persona (che sarebbe il sindacalista Di Giacomo) potrebbe far saltare tutto.
Forti è detenuto per l’omicidio di Dale Pike dal 2000. L’articolo 176 terzo comma del Codice Penale dice che l’ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena.
Il Fatto Quotidiano però spiega oggi che l’indagine della procura di Verona che ipotizza il reato dell’articolo 115 del Codice Penale (Accordo per commettere un reato) può far decidere al giudice di sorveglianza di negare la libertà condizionale.
L’articolo 115
L’articolo 115 del Codice Penale non prevede alcuna pena. Ma «qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato di istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misure di sicurezza». Come la libertà vigilata per chi è a piede libero. Oppure le restrizioni della libertà per chi è già detenuto.
Il procuratore di Verona Raffaele Tito ha chiesto una relazione approfondita sulle visite ricevute da Forti in carcere. Il fascicolo, senza indagati né ipotesi di reato, è affidato al pubblico ministero Gennaro Ottaviano. I magistrati vogliono sapere sia con quali detenuti si è intrattenuto l’ergastolano, sia chi lo ha visitato in questi mesi nel carcere di Montuorio a Verona.
L’accoglienza
Ad accoglierlo a Pratica di Mare dopo il suo arrivo in Italia c’era Giorgia Meloni. Ha ricevuto visite dal deputato di Fratelli d’Italia Andrea Di Giuseppe. Gli ha reso visita anche il presidente del Consiglio della provincia autonoma di Trento Roberto Paccher.
«Gli avevo promesso di andare a visitarlo in Italia. Chico oggi ha voluto invitarmi a mangiare i canederli con la sua famiglia quando sarà a Trento in permesso per salutare l’anziana mamma, permesso che ha già chiesto alla direzione del carcere veronese». E che gli verrà concesso dopo pochi giorni dal suo arrivo a Verona.
(da Open)
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Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
GLI EREDI DEL CAV SONO STANCHI DI VEDERE IN TV SEMPRE LE STESSE FACCE (I VARI BARELLI E GASPARRI). E STANNO FACENDO SCOUTING, COME AI TEMPI DI SILVIO
La ricerca di facce nuove era un pallino del papà e un titolo che quasi si scriveva da
solo, di tanto in tanto: “Forza Italia, lo scouting di Berlusconi”. E poi si scivolava nei racconti dei casting ad Arcore, le fisse estetiche del padrone di casa, i consigli, i fugaci innamoramenti, le intuizioni e gli abbagli (chi si ricorda del mitico Gianpiero Samorì?). Adesso tutto questo è un ragionamento dei figli maggiori, Marina e Pier Silvio, con l’aggiunta dei preziosi consigli di Fedele Confalonieri.§Attenzione: non è una trama oscura della “famiglia” contro Antonio Tajani che al contrario ha avuto il merito di rivitalizzare, voti e percentuali alla mano, un partito dato per morto dopo “la scomparsa del nostro Maradona”.
E’ la ricerca di un “fatto nuovo”, di uno slancio, di brio che fa riflettere gli eredi di Berlusconi. E questo esula, forse sì o forse no, anche dal clima che si respira dentro Forza Italia: il partito è vivo e dunque non mancano le complessità e gli annessi veleni.
Come chi si lamenta e poi lo dice “ai Figli” dell’eccessiva e totalizzante esposizione mediatica di un ristretto pacchetto di mischia tajaneo: Barelli-Nevi-Gasparri. Pier Silvio e Marina, in attesa che uno fra loro faccia una nuova discesa in campo, si interrogano “sulla squadra”.
Nell’ultimo periodo hanno incontrato anche parlamentari azzurri e del centrodestra in generale. Più imprenditori e manager. Normali rapporti di stima e vecchie consuetudini tra politica e impresa. Però insomma parlando parlando il ragionamento è uscito fuori: come intervenire, con chi e quando per dare una scrollata all’albero?
Tajani, che è vicepremier e ministro degli Esteri in una congiuntura bestiale, non è che non abbia il suo bel daffare: ha dovuto gestire gli incendi scoppiati al sud con l’Autonomia differenziata, le mosse di traverso dei governatori, i viceré Roberto Occhiuto e Renato Schifani, ma anche il ritorno di Letizia Moratti al nord. Le piccole e grandi rivalità interne e poi appunto un discreto traffico in entrata, segno di vitalità, ma che va gestito
A partire dai parlamentari di Azione che si guardano attorno, pronti a tutto pur di non diventare una forza organica al centrosinistra. Per esempio raccontano che Tajani sia possibilista, con diverse sfumature, su Enrico Costa e Mariastella Gelmini, ma categorico nei confronti di Mara Carfagna. Tutto si muove, nel presente.
E proprio il leader azzurro ha capito che non può crogiolarsi al sole delle europee: ecco perché adesso si è messo in testa di stringere patti territoriali con forze civiche o con una forte impronta locale. E’ successo in Sicilia e in Trentino, accadrà forse anche in Sardegna con i Riformisti. Aggrega per fare massa critica, Tajani. E prenota per Forza Italia la Campania.
(da agenzie)
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Luglio 13th, 2024 Riccardo Fucile
“IL GOVERNO MELONI COSTRUISCE UNA GIUSTIZIA PER I POTENTI E UNA PER IL POPOLO”
Con il ddl Nordio, approvato dal Senato e diventato definitivamente legge, in Italia non esiste più il reato di abuso d’ufficio. È una riforma che i sindaci di diverse parti politiche chiedevano da tempo, e che il centrodestra ha salutato come un cambiato in direzione garantista, contro un reato che causava moltissime indagini – con annessa gogna mediatica – poi archiviate. Per Roberto Scarpinato, ex magistrato antimafia e oggi senatore del Movimento 5 stelle, la situazione è ben diversa. Scarpinato aveva già raccontato a Fanpage.it come nelle riforme del governo Meloni ci fosse un disegno mirato a creare un sistema di giustizia che privilegia i potenti. Con l’approvazione della legge Nordio, secondo il senatore, “l’Italia è diventata la patria della corruzione”.
L’abolizione del reato di abuso d’ufficio è così grave?
È un grave acceleratore della decadenza di questo Paese. Siamo in un nuovo feudalesimo. Nel feudalesimo esistevano tribunali speciali che erano riservati ai ceti privilegiati, e il tribunale comune che era riservato al popolo. Ora stanno realizzando, attraverso complesse operazioni tecniche che l’opinione pubblica fatica a capire, un doppio regime.
Uno per i privilegiati e uno per gli altri?
Un diritto penale per i colletti bianchi – che sono autorizzati a fare quello che vogliono, non devono pagare nessun prezzo per i loro abusi e sono sottratti alla possibilità di un controllo penale – e un diritto penale riservato alla gente comune, che è spietato. Lo stesso Nordio che ha fatto una crociata contro le intercettazioni, poi ha firmato il disegno di legge che prevede le intercettazioni per il reato di accattonaggio, o anche il reato di rave.
Che effetto avrà, concretamente, il ddl?
È come mettere il turbo alla macchina del voto di scambio, cioè l’abuso del potere pubblico per favorire quelli che mi portano voti e per penalizzare quelli che non me ne portano. Dò l’appalto all’imprenditore che mi vota, dò la commessa per la mensa scolastica a quello che mi vota: così prolifera chi utilizza il proprio potere esclusivamente per coltivare la propria clientela.
E ancora, assumo nella pubblica amministrazione non per meritocrazia, ma per nepotismo e clientelismo. Quel sistema che ha contribuito alla caduta di qualità della classe dirigente di questo Paese. È anche uno schiaffo in faccia a tutti i giovani che studiano e si impegnano ma sono penalizzati rispetto a quelli che hanno protezioni da parte di lobby e amici degli amici.
Non ci sono altri reati per punire chi, ad esempio, assegna gli appalti in cambio di voti?
No, perché non è corruzione se non c’è scambio di denaro. Tutti questi comportamenti, e potrei fare decine di esempi, venivano sanzionati tramite l’abuso di ufficio. E a questo bisogna aggiungere il traffico di influenze, che hanno ridimensionato. Così, i cittadini cominceranno a sperimentare lo Stato individuandolo nei volti di centinaia e centinaia di funzionari che potranno prevaricarli, se non li votano o non seguono le loro richieste.
Con il dl Carceri il governo ha reintrodotto il reato di peculato per distrazione. È una ‘pezza’ per compensare la cancellazione dell’abuso d’ufficio?
Per come l’hanno introdotto, lascia impunita tutta una serie di reati.
Ad esempio?
Oggi se uno utilizza la macchina dell’ufficio per andare a fare la spesa commette un reato, ma non lo sarà più. Perché hanno previsto che è reato solo se uno viola una legge di rango primario. Ma siccome il modo in cui vengono utilizzate le macchine in ufficio viene regolato da circolari, e non da leggi di rango primario, non sarà più reato. E ancora: il reato c’è soltanto se tu distrai del denaro. Se invece prendi una squadra di operai per aggiustarti la villetta, non è reato.
In più con questa riforma il peculato per motivi egoistici, in cui l’amministratore distrae i soldi pubblici dalle finalità istituzionali per finalità private, invece di essere punito da 4 a 10 anni di carcere potrà essere punito da 6 mesi a 3 anni, come hanno evidenziato professori di diritto penale sentiti come esperti. Come dicevo, procedono attraverso questi tecnicismi difficilissimi da cogliere per l’opinione pubblica. E costruiscono una giustizia per i potenti e una giustizia per il popolo. Questo spiega anche perché la crisi delle carceri è irreversibile.
Qual è il collegamento con le carceri?
Le nostre carceri sono popolate esclusivamente da persone che appartengono ai ceti più bassi della nostra società: i colletti bianchi hanno costruito un diritto che consente loro di non entrare mai in carcere. Se vogliamo rendere il carcere civile, dobbiamo metterci anche colletti bianchi. Com’è possibile che in Italia non ci sia una quota statisticamente rilevante di colletti bianchi? Abbiamo un quinto di quelli che ci sono in Germania. È chiaro che fino a quando ci sono soltanto i poveri li lasceranno a marcire in condizioni di invivibilità, perché tanto il problema loro se lo sono risolto.
Cancellare il reato aumenta i rischi di infiltrazioni mafiose nei Comuni?
È un semaforo verde per le mafie. Prima i sindaci e pubblici amministratori potevano dire ai mafiosi o alle lobby che avevano le mani legate dalla legge. Ora le mafie sanno che hanno il potere di fare quello che vogliono, e non potranno più opporre resistenza. Naturalmente, le mafie cercheranno di mettere le mani su tutti i centri di spesa. In un piccolo Comune bastano 400-500 voti per avere un assessorato, in una Regione ne bastano 8-9mila.
A proposito di spesa pubblica, in questi anni l’Italia ha ricevuto e continuerà a ricevere miliardi di euro di fondi legati al Pnrr. Senza abuso d’ufficio potrebbe aumentare la corruzione?
Se finora la quota di risorse pubbliche che va ad alimentare la corruzione è del 25%, adesso potremmo anche arrivare al 40%. Dobbiamo cominciare a pensare che dei fondi strutturali europei e del Pnrr il 40% finirà a finanziare il voto di scambio, la corruzione… per questo dico che è un acceleratore della decadenza del Paese.
Adesso migliaia di indagini e processi si chiuderanno, perché non hanno più un reato da perseguire.
Non solo: dovremo riabilitare 3.600 abusatori di potere pubblico che sono già stati condannati in via definitiva. Del resto siamo il Paese che ha elevato a personaggio simbolo di virtù repubblicane Berlusconi, per cui è stato dichiarato il lutto nazionale e a cui viene dedicato un aeroporto.
Proprio a Berlusconi è stata dedicata anche l’approvazione della legge Nordio, da parte di Forza Italia. Sostengono che sia una vittoria per il garantismo.
Questa norma va molto al di là di una polemica tra giustizialisti e garantisti. Anche perché ormai si è capito che questa contrapposizione è falsa. Una classe politica che indossa la maschera del garantismo quando si tratta di colletti bianchi, e poi diventa spietatamente giustizialista quando invece si tratta di reati della gente comune, dimostra che ha creato una giustizia castale.
(da Fanpage)
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