Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
IL MARESCIALLO DEI CARABINIERI SUI SOCIAL SI DEFINISCE “FASCISTA” E SI DA’ LA ZAPPA SUI PIEDI… MA UN “SEDICENTE” FASCISTA PERCHE’ ALLORA GIURA FEDELTA’ ALLA REPUBBLICA?
Dopo la vicenda del forno di Ascoli Piceno, che ha subito due controlli da parte delle
forze di polizia per aver esposto uno striscione antifascista per il 25 aprile, scoppia un nuovo caso legato alle celebrazioni dell’80esimo anniversario della Liberazione.
L’episodio si è verificato al corteo del 25 aprile a Mottola, in provincia di Taranto, dove un maresciallo dei carabinieri in servizio avrebbe cercato di impedire ad alcuni cittadini di intonare i canti della Resistenza, ‘Bella ciao’ e ‘Fischia il vento’.
Alla fine ci sarebbero stati dieci manifestanti identificati, per i quali i carabinieri avrebbero fatto partire delle denunce, stando a quanto ha scritto Taranto Today in un suo articolo uscito il 29 aprile. Gli inni partigiani sarebbero stati ritenuti inopportuni, visti gli inviti alla ‘sobrietà’ da parte del governo, in concomitanza con i cinque giorni di lutto proclamati per la morte di Papa Francesco. Il maresciallo dei carabinieri avrebbe richiamato disposizioni emanate dalla questura, per giustificare il divieto.
L’onorevole Fratoianni ha annunciato anche un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Piantedosi, chiedendo spiegazioni “su questa vicenda surreale e nello stesso tempo gravissima”, e ha chiesto che vengano presi provvedimenti nei confronti del militare.
Fanpage.it ha ascoltato la testimonianza di uno dei partecipanti al corteo, per provare a ricostruire quanto accaduto. Alla manifestazione a Mottola per la Festa della Liberazione era presente Sergio Maglio, 69enne di Mottola e
studioso di storia locale, il quale ha raccontato cosa è successo quel giorno.
Maglio ha riferito di non sapere il nome delle persone ‘identificate’: “Da quello che sappiamo non c’è stata una vera e propria ‘identificazione’, anche perché a Mottola ci conosciamo tutti, non è necessario un passaggio formale. Credo ci sia stata, al termine della manifestazione, la trasmissione di una notizia di reato alla Procura, da parte dei carabinieri. Ma la notizia è stata divulgata solo da Taranto Today, che ha scritto che ‘dopo aver identificato i protagonisti dell’episodio, i carabinieri hanno proceduto alla denuncia del gruppo’”.
Il corteo era partito come sempre da piazza XX Settembre, dove c’è la sede del Comune, e i manifestanti dovevano percorrere poco meno di un chilometro per raggiungere il Monumento ai Caduti. “Come è accaduto anche l’anno scorso, con le persone presenti al corteo, abbiamo chiesto ai rappresentanti dell’amministrazione comunale, il vice sindaco e gli assessori presenti, di far eseguire dalla banda musicale ‘Bella ciao’. Ci è stato detto che non era possibile, per via di una disposizione della prefettura, di cui però non ci è stato detto nulla di più preciso. E così, come è avvenuto anche l’anno scorso, abbiamo iniziato a intonarla lo stesso, anche senza accompagnamento musicale. Eravamo circa una ventina”, ha raccontato a Fanpage.it Maglio.
“Poi, una volta arrivati quasi al Monumento dei Caduti, abbiamo cominciato a cantare anche ‘Fischia il vento'”, ha proseguito Maglio. A quel punto un carabiniere in servizio si sarebbe piazzato al centro della carreggiata, per vietare l’esecuzione del canto partigiano. “Con un fare quasi da bullo, il maresciallo dei carabinieri ci ha detto: ‘La prima ve l’ho fatta cantare, ma questa non ve la concedo’. A quel punto ci siamo fermati, e dopo un breve confronto verbale, siamo arrivati al Monumento dei caduti, dove si è tenuta la cerimonia, con gli interventi del vice sindaco, delle scuola, e delle associazioni. A quel punto abbiamo cantato di nuovo ‘Bella ciao’, e poi è terminata la manifestazione. Ma c’era una norma che ci vietava di cantare quell’inno, oltre al personale gusto musicale del carabiniere?”.
L’iniziativa insomma si è conclusa senza particolari scontri o violenze, per cui non è chiaro chi e perché abbia fatto trapelare la notizia della denuncia e dell’identificazione, e in che modo sia stata motivata l’eventuale segnalazione. Il dubbio è che possa essere un modo per lanciare un messaggio d’avvertimento
alle persone che marciavano al corteo del 25 aprile. “Da dove viene questa fuga di notizie?”, si è domandato Maglio.
In teoria, secondo la normale procedura, il carabiniere dovrebbe trasmettere l’eventuale notizia di reato al pm, il quale dovrebbe poi valutare se andare avanti o meno. Invece su Taranto Today è apparsa la notizia di cinque uomini e cinque donne, dai 30 ai 50 anni, che sarebbero stati denunciati. E fino ad ora non c’è stata alcuna smentita da parte dell’Arma dei carabinieri.” Ma non c’erano neanche cinque donne al corteo a cantare ‘Bella ciao’ – ha commentato lo studioso a Fanpage.it – È un fatto strano, sembra quasi una prova muscolare da parte delle forze dell’ordine”, solo alla scopo di far circolare la notizia che i partecipanti alla celebrazione avrebbero ricevuto addirittura una denuncia e far scoppiare un caso mediatico.
In pratica, basterebbe cantare un brano che non piace alle autorità, per beccarsi un’iscrizione nel registro degli indagati. Ma delle due l’una: o la notizia dell’identificazione è nient’altro che un’intimidazione, oppure c’è stato davvero un salto di qualità nella limitazione della libertà di espressione. Per sciogliere questo dubbio si aspetta una spiegazione da parte del Viminale.
Non solo non è arrivata una smentita ufficiale da parte dei carabinieri, ma sui fatti del 25 aprile a Mottola è intervenuto Nicola Magno, segretario generale regionale del sindacato Unarma, in difesa dei militare, dopo le affermazioni del vice sindaco Giuseppe Scriboni (il sindaco era assente per malattia per giorno), il quale si era schierato a favore dei manifestanti: “È inimmaginabile che qualcuno possa impedire di cantare una canzone. Prima che il corteo iniziasse, io stesso ho invitato i presenti a essere sobri, ma non mi sarei mai sognato di vietare una cosa del genere”, ha detto Scriboni alla Gazzetta del Mezzogiorno.
In risposta è arrivata la replica del sindacato: “Leggiamo con sconcerto le dichiarazioni del vicesindaco di Mottola, Giuseppe Scriboni, che sembrano suggerire una responsabilità diretta dei Carabinieri per quanto accaduto durante le celebrazioni del 25 aprile. Un’accusa grave e del tutto fuori luogo, che denota un tentativo inaccettabile di scaricare su chi serve lo Stato il peso di una gestione poco chiara degli eventi istituzionali da parte delle autorità locali”.
Secondo Unarma “i Carabinieri in servizio operano nel pieno rispetto delle direttive ricevute dalle autorità competenti e nel quadro delle disposizioni
prefettizie o di pubblica sicurezza, specie in giornate sensibili come il 25 aprile, quest’anno ulteriormente segnate dal lutto per la morte di Papa Francesco. Parlare con leggerezza di ‘divieti arbitrari’ equivale a gettare ombra sull’onorabilità e sulla professionalità di chi, ogni giorno, garantisce l’ordine pubblico in condizioni spesso complesse e delicate”.
Chi è il maresciallo dei carabinieri che ha impedito di cantare gli inni della Resistenza
E c’è un altro particolare inquietante che riguarda i fatti avvenuti a Mottola lo scorso 25 aprile. Chi è il maresciallo dei carabinieri in servizio che voleva vietare di cantare ‘Bella ciao’ e ‘Fischia il vento’?. Da quanto ha scritto anche il leader di Avs Nicola Fratoianni, del militare in questione circolano alcuni post sui social, con chiare simpatie fasciste.
Secondo quanto apprende Fanpage.it, è stato Giuseppe Tarquinio a bloccare i canti partigiani. E sono suoi i vecchi post sui social, inneggianti al fascismo. Nel 2020 il maresciallo scriveva: “Ma esiste un’applicazione che elimina in automatico la canzonetta ‘Bella ciao’?”. E ancora, sempre nel 2020, scriveva in un altro post su sfondo nero: “Facile amare la patria adesso, Noi l’abbiamo sempre Amata e ci chiamavate fascisti”.
Ancora più esplicito un post del 2025: “Né destra né sinistra, io sono fascista!!!”. Altre card condivise raffigurano un Mussolini stilizzato, con la dicitura ‘Dio, Patria, Famiglia’, in un’altra si augura una buona domenica ai “camerati”, con tanto di saluto romano, e si evoca lo ‘Stato fascista’.
(da Fanpage)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
18 MESI DI ORRORI: FAMIGLIE SPAZZATE VIA, CECCHINI CHE PRENDONO DI MIRA I BAMBINI, SPARANO ALLA TESTA, PERCHÉ, “SONO TUTTI POTENZIALI TERRORISTI DEL FUTURO”
Diciamolo pure chiaramente: gli israeliani stanno commettendo a Gaza un vero e proprio «genocidio». Basta ambiguità, basta sensi di colpa rispetto all’ombra nera dell’Olocausto, basta accettare passivi la minaccia-ricatto onnipresente dell’accusa di antisemitismo. Utilizziamo le parole adatte che aiutino a comprendere ciò che realmente sta accadendo.
Se noi critichiamo con tanta coerente chiarezza la Russia per le sofferenze causate agli ucraini, a maggior ragione occorre farlo nel contesto del conflitto arabo-israeliano. Che il governo violento e messianico di Benjamin Netanyahu avesse l’intenzione di approfittare degli orrori commessi da Hamas il 7 ottobre 2023 per mettere in atto il suo piano di espulsione-eliminazione della popolazione palestinese dai territori occupati (e più avanti anche degli arabi in Israele) è stato chiaro sin dai giorni seguenti quello che il premier stesso definisce «il più grave massacro di ebrei dai tempi della Shoah».
Nei primi tempi, tuttavia, giornalisti e commentatori sono stati in grande maggioranza molto cauti. I racconti delle efferatezze compiute da Hamas, il dramma degli ostaggi gettati nei tunnel, le immagini dei kibbutz devastati hanno portato al prevalere della narrativa israeliana sulla continuità terrificante tra antisemitismo storico, Auschwitz e terrorismo islamico. Ma da oltre un anno tutto questo non regge più. Gli attacchi indiscriminati contro i civili palestinesi, il blocco perdurante ai flussi di cibo, acqua e medicinali, gli assassini metodici di medici, infermieri, operatori umanitari anche internazionali, la morte di oltre 200 giornalisti locali (quelli esterni non possono entrare a Gaza) hanno dominato le cronache quotidiane.
Quante le vittime? Forse oltre 70 mila deceduti, circa 100 mila feriti. Tantissimi i bambini massacrati tra le macerie o sfregiati per sempre da ferite terrificanti.
Un’intera realtà urbana distrutta, annientata, volutamente ridotta in polvere per rendere impossibile la ripresa della vita come era prima. Va notato che tra le tanti voci di condanna non ci sono soltanto gli organismi dell’Onu, Amnesty International e i maggiori enti per la difesa dei diritti civili, ma ormai critiche durissime arrivano anche da intellettuali israeliani e soprattutto dal variegato e ricco mondo della diaspora ebraica. Un lavoro di primissimo piano lo fa quotidianamente il giornale liberal israeliano «Ha’aretz».
A cercare di sistematizzare il movimento di protesta contro i crimini seriali commessi da Israele con un preciso piano politico di «pulizia etnica» arriva adesso per Piemme Genocidio.
Quello che rimane di noi nell’era neo-imperiale , della giornalista Rula Jebreal, di origine palestinese, nata a Haifa nel 1973, quindi cittadina italiana e oggi docente all’università di Miami in Florida. Un libro duro, grave, ben documentato. Le sue pagine raccontano 18 mesi di orrori: famiglie spazzate via, intere comunità annientate, strutture mediche annullate, cecchini che prendono di mira i bambini, sparano alla testa, perché, come postano i soldati stessi sui social «sono tutti potenziali terroristi del futuro».
Bene ricordarlo: sappiamo tutto della tragedia della famiglia Bibas di kibbutz Nir Oz massacrata da Hamas, ma quasi niente dei singoli drammi di migliaia e migliaia di palestinesi. Il libro sottolinea che ormai da tempo i governi Netanyahu hanno annullato l’opzione dei due Stati e dunque occorre «chiudere il cerchio aperto nel 1948». La nascita dello Stato ebraico aveva prodotto la «prima Nakba», la catastrofe, come dicono in arabo: l’espulsione violenta di oltre 750 mila persone. E oggi sono gli stessi ministri e ufficiali israeliani a sostenere che «occorre finire il lavoro», in sostanza arrivare a una «seconda Nakba». E ciò comporterà presto anche la «gazificazione della Cisgiordania».
Lo sappiamo bene, sta già avvenendo, con i coloni che attaccano i villaggi, scacciano la gente da Jenin, Nablus, svuotano la valle del Giordano e con l’esercito che li sostiene e protegge come mai aveva fatto nel passato. Il tutto sempre con la manipolazione cinica dell’Olocausto, per cui i palestinesi sarebbero «i nuovi nazisti» e coloro che li difendono «i soliti antisemiti».
Jebreal da docente universitaria ha tenuto corsi sui genocidi: Ruanda, regioni della ex Jugoslavia, armeni, ovviamente ebrei. Riferendosi alla genesi del
concetto, ricorda che fu il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin a coniare il termine «genocidio», che poi condusse al dibattito all’Onu nel 1948. E non è detto che debba sempre prevalere il «modello dell’Olocausto nazista». In realtà, «ogni genocidio ha un aspetto diverso», ma per tutti vale «l’atto di distruggere deliberatamente un gruppo, in tutto o in parte, come tale». Spesso il crimine avviene per fasi e s’inizia sempre dalla «disumanizzazione del nemico».
(da Il Corriere della Sera)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
LE SOLITE PALLE DA BULLO SOVRANISTA
La pace in Ucraina? “Forse non funzionerà nulla, forse è semplicemente impossibile”.
Così Donald Trump ha risposto alle domande su un possibile accordo tra Mosca e Kiev per un cessate il fuoco. “Bisogna capire che qui (tra l’Ucraina e la Russia, ndr) c’è un odio enorme”, ha detto in un’intervista rilasciata al programma ‘Meet the Press’ della Nbc News.
Non troppo tempo fa, l’allora candidato alle presidenziali americane prometteva che una volta eletto avrebbe risolto il conflitto in Ucraina in un solo giorno. “Farò l’accordo in un giorno”, assicurava Trump durante la campagna elettorale. Ora però sembra aver cambiato idea. “Arriverà un momento in cui dirò: ‘Va bene, vai avanti, continua a fare lo stupido.’ A volte ci sono vicino, e poi succede qualcosa di positivo”, ha aggiunto oggi. “Questa è una guerra che non sarebbe mai dovuta scoppiare, è una guerra orribile. Ogni giorno in media muoiono 5.000 soldati, non sono soldati americani, sono russi e ucraini, ma voglio risolvere il problema, perché se riuscirò a salvare migliaia di vite sono felice di poterlo fare”, ha proseguito.
Sull’accordo sui minerali firmato tra Kiev e Washington Trump ha sottolineato: “Penso che ci siamo avvicinati a una parte, anche se forse non così tanto all’altra. Vedremo. Non vorrei specificare a quale parte siamo più vicini in questo momento. Ma abbiamo raggiunto un accordo che è vantaggioso per gli americani”.
Attualmente le trattative tra Mosca e Kiev sembrano aver subito una battuta d’arresto. Il no ucraino alla proposta russa di una tregua di tre giorni per celebrare il 9 maggio, giorno in cui in Russia si festeggia la sconfitta del nazismo, ha provocato nuove tensioni tra i due Paesi. Insomma per ora, le promesse di Trump sembrano ben lontane dal realizzarsi tanto da aver portato il tycoon a ritrattare.
Trump cambia idea anche sul terzo mandato
Il presidente Usa ha dichiarato che lascerà la Casa Bianca alla fine del suo secondo mandato, riconoscendo i vincoli che gli impediscono di candidarsi a un terzo mandato. “È una cosa che, per quanto ne so, non ti è permesso fare”, ha spiegato. Nelle scorse settimane infatti, sul sito ufficiale di Trump erano apparsi cappellini, magliette e altri prodotti confla scritta “Trump 2028”, che lasciavano intendere come il tycoon stesse pensando a un terzo mandato.
Il presidente americano ha citato invece, altri esponenti del partito Repubblicano che, a suo dire, sono in grado di portare avanti l’agenda Maga, quando non sarà più lui il leader eletto dei Repubblicani. A partire dal vicepresidente JD Vance, ma anche il segretario di Stato Marco Rubio: “Sarò un presidente di otto anni, un presidente per due mandati. Ho sempre pensato che fosse molto importante”, ha detto.
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
ZUPPI IN TV RACCONTO’ LO SCUDETTO DELLA ROMA DEL 2001: “MI CHIESERO DI SUONARE LE CAMPANE”
Frequentava la sezione A, “la stessa di David Sassoli”, che era un anno più giovane di lui. È da sempre un grande appassionato di calcio, ma tra una lezione e l’altra “giocava a basket nel cortile” della scuola, proprio a ridosso degli anni in cui la ricreazione era animata dalla chitarra di Francesco De Gregori. Il liceo Virgilio tifa per Matteo Zuppi: è lui, ex studente, che sperano diventi il prossimo Papa
Nato a Roma nell’ottobre del 1955, quinto di sei figli, il cardinale è dal 2015 arcivescovo di Bologna e da maggio 2022 è presidente della Cei, la Conferenza episcopale italiana, ma il suo cammino è stato segnato profondamente dall’incontro, nel 1973, con Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Una realtà al tempo ancora contenuta, ma con la quale Zuppi inizia a collaborare andando nelle scuole popolari, incontrando gli anziani e gli immigrati. Si laurea in Lettere alla Sapienza con una tesi sul cristianesimo e nel 1981 viene ordinato sacerdote e subito dopo mandato come vicario parrocchiale alla basilica di Santa Maria in Trastevere.
Una persona vicina agli ultimi e un “uomo di strada”, come in molti lo definiscono, ma anche un ex studente del Virgilio. Il liceo dal quale sono usciti politici, personaggi famosi, vip e che ora freme per inserire tra i suoi ex alunni più illustri addirittura un Papa.
E via con i ricordi. “È una brava persona”, “Facevamo parte dello stesso comitato”, racconta un altro. Una signora lo ricorda così: “Giocavo a basket con lui in cortile durante la ricreazione”. E a proposito di sport, “è romanista fracico”, aggiunge un’altra persona. Insomma: “Quanta gente è passata attraverso quel portone di via Giulia”. E chissà che, appunto, non sia anche il prossimo Papa.
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
“POCHI CONCORSI, TROPPI ENTRANO PER MOTIVI POLITICI” (C’E’ L’EX ASSESSORE DI PADOVA VICINA A FDI, LA MOGLIE DEL SENATORE MELONIANO ANDREA DE PRIAMO E LA EX COLLABORATRICE DI MANTOVANO) … SENZA CONTARE I RICCHI PREMI E L’INCREMENTO DI STIPENDIO PER I MANAGER: IL DIRETTORE DELL’AGENZIA E’ IL PREFETTO BRUNO FRATTASI, CHE FU SCELTO DA MELONI
Scenario: un’infrastruttura cruciale del paese, per esempio un ospedale, è sotto attacco
hacker. I terminali sono inaccessibili, la rete sta per crollare. Da Roma le operatrici e gli operatori del Csirt, la centrale operativa dell’Agenzia per la cybersecurity, vengono chiamati per fare quello che più volte hanno già fatto in questi mesi: e cioè intervenire su quei server, salvare un pezzo del Paese.
Questa volta potrebbero però non rispondere. Perché in protesta sindacale con quello che doveva essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione pubblica italiana e che, invece, denunciano i lavoratori che dal primo maggio sono in stato di agitazione, ha preso subito i vizi della peggiore amministrazione pubblica: «Scarsa trasparenza nei processi di reclutamento del personale e progressione di carriera del personale», «modalità di ingresso e selezione da altre amministrazioni né pubblico né chiaro». A finire, come ha raccontato Repubblica , nel mirino del Cisa-Sibc-Acn, il primo sindacato che si è creato all’interno dell’Agenzia, «il ricorso massiccio di comandi delle altre amministrazioni», dice il segretario Valerio Marone.
Troppi pochi i concorsi, dicono. E troppe persone arrivate, senza esperienza necessaria per un ruolo così delicato, da altre amministrazioni dello Stato. Acn è infatti un posto che fa gola: il contratto è lo stesso di Banca d’Italia — seppur proprio i sindacati denunciano da tempo che non tutti gli istituti sono stati mutuati — e soprattutto c’è un altissimo numero di dirigenti con stipendi assai importanti. Qualche numero: a oggi Acn ha 363 persone in servizio, di cui 288 a tempo indeterminato. La metà sono le 140 che hanno fondato l’Agenzia arrivando per lo più da altri enti. Il nucleo maggiore è arrivato dai Servizi. E poi tanti anche i militari. «Solo 123 quelli assunti con il concorso», dice il sindacato. Che segnala anche il punto dei ruoli.
Al 31 gennaio del 2024, quando in pianta organica c’erano 309 persone, 212 erano inquadrati come «manager e alta professionalità» mentre gli operativi erano soltanto gli altri 97. C’è poi il tema di chi sono le persone arrivate in Agenzia sui quali in questi mesi si sono sollevate diverse polemiche.
Qualche esempio: l’ex assessore di Padova, Marina Buffoni, vicina a FdI, Alessandra Ruggiero, moglie del senatore di Fdi Andrea de Priamo, o Eliana Pezzuto, già tra le più strette collaboratrici del sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano.
Di contro da Acn hanno risposto rivendicando sempre la massima trasparenza e spiegando che i comandi, soprattutto nella fase della start up dell’Agenzia, sono stati inevitabili perché appunto c’era da creare la base su cui lavorare.
Non a caso oltre che dal Dis, tanto sono i militari arrivati dalle varie forze armate. «E ci sono — spiegano a Repubblica fonti dell’Agenzia — a fronte di
soltanto 36 persone in comando non a tempo indeterminato concorsi banditi per più di 150 persone ».
E ancora: di alcune settimane fa la notizia di un incremento ulteriore di stipendio (che può arrivare fino al 7 per cento) che si sono riconosciuti i manager attraverso l’ «indennità di funzione ampliata».
Ma al di là del merito della questione, tutto questo certamente sta mettendo in difficoltà il direttore dell’Agenzia, il prefetto Bruno Frattasi, che fu scelto da Giorgia Meloni (e in particolare dal sottosegretario Mantovano) per prendere il posto di un maxi esperto di cyber, qual è Roberto Baldoni, e che da tempo non ha però soltanto supporters all’interno della maggioranza: prima la vicenda Equalize (anche se è stato provato che nessun server è stato bucato), poi la vicenda dei numeri di telefono delle massime cariche dello stato finiti in siti privati online (cosa, in realtà, successa anche in altri paesi), ora le polemiche sindacali, sono stati tutti elementi che hanno indebolito una gestione che viene accusata da destra di essere poco operativa. In questi mesi si sono fatti i nomi di diversi possibili successori. Ma Frattasi resiste. Almeno per il momento.
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
COME È POSSIBILE CHE IL CANTANTE CONDANNATO PER SPACCIO ED EVASIONE, NIPOTE DEL BOSS SALVATORE CAPPELLO, RIESCA A PARLARE AL TELEFONO DA DIETRO LE SBARRE?
Tira fuori lo smartphone e mostra il volto di Niko Pandetta, collegato dal carcere. Durante la sua esibizione al One Day Music Festival 2025, tenutosi giovedì 1° maggio alla Plaia di Catania davanti a circa 20.000 persone (molti giovanissimi), il trapper 23enne, il cui vero nome è Zaccaria Mouhib, ha fatto una videochiamata all’amico e “collega” Niko Pandetta.
Peccato che Pandetta, cantante catanese noto per essere il nipote del boss Salvatore Cappello, al 41 bis dal 1993, si trovi attualmente detenuto nel carcere di Nuoro dal 2022 per scontare una condanna per spaccio ed evasione.
Da notare che lo stesso Baby Gang ha precedenti penali: lo scorso marzo, la Cassazione ha confermato per lui la pena di 2 anni 9 mesi e 10 giorni nel processo sulla sparatoria avvenuta tra il 2 e il 3 luglio 2022 in via di Tocqueville, vicino corso Como, in centro a Milano, in cui rimasero feriti due senegalesi.
“È mio fratello, voglio un cazzo di casino per Niko Pandetta!“, ha urlato Baby Gang alla folla, prima di far partire il loro brano congiunto, “Italiano“, mentre sullo schermo del telefono era visibile il viso sorridente di Pandetta. U
n “siparietto” che ha scatenato l’entusiasmo di parte del pubblico, ma che ha immediatamente fatto scattare le indagini delle forze dell’ordine.
Il punto cruciale, su cui ora indagano le forze dell’ordine, è capire se si sia trattato di una videochiamata in diretta dal carcere – eventualità che aprirebbe scenari su possibili reati legati alle comunicazioni non autorizzate con un detenuto – oppure di un video registrato in precedenza e semplicemente mostrato sul palco. Dai filmati amatoriali circolati sui social, la dinamica non è del tutto chiara.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
IL MINISTERO DEGLI ESTERI TEDESCO: “IL PASSATO INSEGNA: COSTITUZIONE E STATO DI DIRITTO VANNO DIFESI” – IL SILENZIO DI MERZ CHE STA SUBENDO LE PRESSIONI DELLA SPD, ALLEATA NELLA COALIZIONE DI GOVERNO, PER METTERE AL BANDO LE SVASTICHELLE
«This is democracy». «Questa è la democrazia». Esordisce con queste tre parole, il
ministero degli Esteri tedesco, per rispondere alle accuse di Marco Rubio. E non lo fa con un comunicato, ma replicando direttamente, con il proprio account ufficiale, a un post su X del segretario di Stato statunitense.
Occorre fare un passo indietro di qualche ora, e tornare alla decisione di ieri dei servizi di sicurezza interni della Germania di classificare come «decisamente di estrema destra» il partito Alternative für Deutschland. Il rapporto dei servizi, 1.110 pagine frutto di quattro anni di indagini, resterà secretato. Non passa molto prima che Rubio intervenga sul social, dove accusa i servizi tedeschi di «avere la facoltà di spiare l’opposizione» e parla di «tirannia mascherata».
«Ad essere estremista non è l’AfD, arrivato secondo alle ultime elezioni, ma la mortale politica dei confini aperti seguita dall’establishment, cui l’AfD si oppone». Chiamato in causa, il dicastero berlinese risponde: «Questa è la democrazia. Questa decisione è il risultato di un’indagine approfondita e indipendente per proteggere la nostra Costituzione e lo stato di diritto. Saranno i tribunali indipendenti a prendere una decisione definitiva. Abbiamo imparato dal nostro passato che l’estremismo di destra deve essere fermato».
Nel frattempo, a dar manforte a Rubio sono arrivati Elon Musk e il vicepresidente JD Vance. Il primo, che è anche proprietario del social, definisce «un attacco alla democrazia» la decisione dei servizi tedeschi. Il secondo, rilanciando il post del segretario di Stato, si avventura in una azzardata analogia storica: «L’AfD è il partito più popolare in Germania. Ora i burocrati cercano di distruggerlo. L’Occidente abbatté il muro di Berlino con uno sforzo comune. Ora è stato ricostruito, non dai sovietici o dalla Russia, ma dall’establishment tedesco».
Vance e Musk, del resto, non hanno mai nascosto le proprie simpatie per il partito dell’estrema destra tedesca.
Il miliardario alleato di Donald Trump, invece, a gennaio ha dialogato con Weidel in una conversazione trasmessa in diretta su X, un’occasione in cui ha lodato il programma del suo partito e invitato i suoi seguaci a sostenere e votare l’AfD (che è poi arrivato secondo, con il 20,8% dei voti e 152 seggi). Weidel, con l’altro leader Toni Chrupalla, ha parlato di «decisione politicamente motivata» e di «colpo durissimo per la democrazia tedesca».
Il prossimo cancelliere Friedrich Merz, che entrerà in carica martedì, per ora ha preferito il silenzio. La situazione è spinosa: da un lato il governo ha il potere – insieme ai due rami del Parlamento – di denunciare il partito alla Corte Costituzionale e chiederne il bando, anche se con scarsissime probabilità di ottenerlo. Dall’altro, vanno considerate le ricadute politiche, con l’AfD che nei sondaggi è già appaiata alla Cdu di Merz.
Che intanto sta già subendo le pressioni della Spd, alleata nella coalizione di governo. Il co-presidente del partito socialdemocratico Lars Klingbeil, vicecancelliere e ministro delle Finanze in pectore, ha risposto in un’intervista alla Bild che il governo valuterà se perseguire l’esclusione dalla politica nazionale dell’AfD: «Vogliono un Paese diverso, vogliono distruggere la nostra democrazia. Abbiamo il dovere di prenderli sul serio».
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
IL FILIPPINO TAGLE, DOPO IL PRIMO PAPA LATINOAMERICANO SAREBBE IL PRIMO PONTEFICE ASIATICO MA ANCHE UN PAPA CHE, DATA L’ORIGINE PER METÀ CINESE, PORTEREBBE SUL VOLTO IL SEGNO DI UN MESSAGGIO CHE AVREBBE GRANDE IMPATTO A PECHINO, L’ULTIMO “MURO” CHE L’OCCIDENTE HA DI FRONTE
Il nuovo papa dovrà senz’altro fare i conti con i temi di Francesco, in particolare quella Chiesa che accoglie “tutti, tutti, tutti” cui si oppongono i conservatori come Camillo Ruini. Ma il nuovo papato non potrà non avere anche una cifra geopolitica importante. Non c’è dubbio che il nome di Pietro Parolin, su cui gli italiani (17 voti esclusi Pizzaballa e Marengo) sarebbero compatti, ha ampia credibilità per gestire le relazioni con il mondo essendo stato a lungo Segretario di Stato.
Ma ci sono due nomi che offrono invece un’opportunità “storica” per la Chiesa, portatori di una grande novità. Uno, Luis Antonio Tagle, è in piena continuità con Francesco mentre l’altro, Pierbattista Pizzaballa, pur proseguendo il messaggio pacifista di Bergoglio, è apprezzato anche dai conservatori. La forza geopolitica di questi due nomi potrebbe essere pari a quella di Francesco, ma anche alla forza d’urto che rappresentò Karol Wojtyla e si sviluppa in due direzioni diverse.
Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme, porta sulle spalle e nella vita degli ultimi trent’anni il segno del messaggio: è stato lui a dire che “Gerusalemme è un laboratorio che ha qualcosa da insegnare” per il suo essere al contempo “cuore e periferia del mondo”
Pizzaballa è totalmente dedito alla cura dei luoghi a lui affidati, è stato Custode in Terra Santa con gli ultimi tre papi, non ha avuto esitazioni a condannare la ferocia dei bombardamenti su Gaza, ma dopo il 7 ottobre si è offerto come ostaggio in cambio dei bambini israeliani.
È amato dai palestinesi, ma ha studiato l’ebraico e ama il Vecchio Testamento. La sua elezione a papa porterebbe il tema della pace più importante su scala globale, al centro delle attenzioni senza perdere di vista il tema delle migrazioni, “un fenomeno globale che ha bisogno dell’attenzione di tutta la comunità internazionale” per “gestirlo in maniera rispettosa della dignità della persona”.
E nel suo lavoro di incontro, mediazioni e scambio con le altre religioni sarebbe il papa che rilancia il dialogo interreligioso, a partire dall’ecumenismo a cui, non a caso, dedicò il suo intervento nello speciale dell’Osservatore Romano del 2022 dedicato al 60° del Concilio Vaticano II.
“Il dialogo ecumenico significa servire insieme il Vangelo” scriveva allora Pizzaballa e quel messaggio diventa corollario del messaggio secondo cui “la pace non è solo uno degli aspetti della vita della Chiesa”, ma “è un tratto costitutivo dell’identità e della missione della Chiesa”. Pizzaballa è una figura originale, di lui non si rintracciano dichiarazioni a proposito dei temi morali, la sua idea di evangelizzazione è sperimentata in Terra Santa e sul piano della Chiesa sinodale cara a Francesco, non sembra averla sostenuta vistosamente ma non l’ha mai osteggiata. Chi lo conosce dice che è allergico ai settori
“progressisti” più oltranzisti, come la Chiesa tedesca, è ospite gradito al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione che parteggia chiaramente per lui.
L’altro papa che sul piano geopolitico può costituire un fatto storico è Tagle. Dopo il primo papa latinoamericano sarebbe il primo papa asiatico, di una chiesa che è in forte crescita, in particolare nelle sue Filippine. Ma anche un papa che, data l’origine per metà cinese, porterebbe sul volto il segno di un messaggio che avrebbe grande impatto sul continente e nella stessa Cina. Tagle, non a caso, ha accompagnato Francesco in più viaggi asiatici ed è stato tra coloro che hanno sostenuto l’accordo con la Cina del 2018.
Un papa con quel viso, si commenta in Vaticano, non può non avere una forza evocativa anche rispetto all’ultimo “muro” che l’Occidente ha di fronte e in questo senso la missione asiatica avrebbe la stessa forza d’urto che ebbe la missione Est europea di Giovanni Paolo II. Tagle è stato uno dei collaboratori più fidati di Francesco, ha diretto il Dicastero per l’Evangelizzazione, il più importante del papato bergogliano, ha un buon carisma ma anche una certa ritrosia ad accettare l’incarico.
Dietro di lui e Pizzaballa ci sono certamente altre figure dalla vocazione internazionale: come il cardinal Fernando Filoni, che rimase a Baghdad sotto le bombe nel 2003, ha servito a lungo a Hong Kong e ha un’esperienza antica maturata con più papi. Si fa anche il nome di Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, e sul fronte asiatico anche quello di Maung Bo che ha lavorato incessantemente per la pace in Myanmar. Ma l’impatto di Pizzaballa e Tagle è certamente piu forte
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2025 Riccardo Fucile
SECONDO IL 65% DEGLI INTERVISTATI IL VATICANO INFLUENZA LA POLITICA MONDIALE … IL 65,4% DEGLI ITALIANI PROMUOVE IL PONTIFICATO DI BERGOGLIO. I PIÙ CRITICI SONO GLI ELETTORI DELLA LEGA
Il 65,3% degli italiani è convinto che oggi la Chiesa cattolica sia un’istituzione che ha
una sua influenza sulla politica italiana, sulle sue scelte e i suoi indirizzi. Per il 53,8% di questi l’importante ascendente c’è sempre stato, mentre per l’11,5% questo legame nel nostro Paese si è reso più forte proprio negli ultimi anni.
È ciò che emerge da un sondaggio di Only Numbers per la trasmissione Porta a Porta. Anche a livello mondiale il 52% dei cittadini riconosce l’influenza politica del Papa. Gli elettori di centro destra sostengono con forza que sta posizione a differenza di quelli del centro sinistra che si dimostrano più tiepidi, fino ad Alleanza Verdi e Sinistra (Avs) che per il 58,5% non crede in alcuna autorità del Santo Padre sulla politica mondiale.
Pensando agli ultimi 12 anni di pontificato (2013 – 2025), gli italiani promuovono Papa Francesco con il 65,4% dei giudizi positivi. Tra gli elettori della Lega (52.2%) si registrano le valutazioni più tiepide. Il 52,5% è convinto che Bergoglio si sia dedicato maggiormente agli “ultimi”, a chi viene dimenticato, a chi non ha voce, piuttosto che ai temi più stretti della Chiesa e alla sua unità.
Su questo punto converge il 37% degli elettori della Lega che si dichiara convinto che il pontificato di papa Bergoglio abbia diviso la Chiesa, introducendo uno stile e un linguaggio molto differente rispetto ai suoi predecessori, suscitando entusiasmo in alcuni e preoccupazioni o opposizione in altri. Papa Francesco ha messo l’accento su misericordia, accoglienza e inclusione, soprattutto verso categorie tradizionalmente emarginate nella Chiesa come i divorziati risposati, le persone Lgbtq+, i migranti, i non credenti
Sono molti i cattolici “conservatori” che hanno interpretato questi atteggiamenti come un indebolimento della dottrina o una “resa” al mondo moderno. Alcuni cardinali e vescovi hanno espresso pubblicamente disagio o dissenso sull’apertura alla comunione per i divorziati risposati “Amoris Laetitia”, sulla visione ecologica e sociale “Laudato sì” e “Fratelli tutti”, sui sinodi dedicati a famiglia e sinodalità, con il rischio percepito da alcuni di “protestantizzare” la Chiesa. Sono proprio queste tensioni che hanno fatto emergere fazioni interne, visibili mediaticamente non solo in Italia, ma in tutto il mondo, dove sono emersi vescovi molto favorevoli al Papa e altri più critici.
Il suo messaggio è considerato progressista dal 61% della popolazione e il 57,5% è persuaso che la Chiesa abbia bisogno di continuare su questo percorso. Sono i più giovani gli scettici di questo cammino che si dividono tra il desiderio di una figura conservatrice (29,3%) e di una più innovatrice (34,1%). Papa Francesco ha sicuramente sollecitato l’opinione pubblica cattolica spostando
l’equilibrio della Chiesa dal rigore dottrinale alla misericordia pastorale e dalla centralità europea a una visione più globale e sociale, creando entusiasmo in chi desiderava il cambiamento e sicura resistenza in chi temeva la perdita dell’identità cattolica tradizionale.
Ad oggi, in un’epoca percepita da molti come di smarrimento e confusione – anche dottrinale -, un italiano su tre (27,2%) crede che la Chiesa abbia bisogno di un papa italiano. Il 16,2% desidererebbe una figura europea, forse anche per rafforzare il peso dell’Unione nel dibattito internazionale. A scendere sotto il 10% le indicazioni individuano il desiderio di un possibile pontefice africano e di uno asiatico (6%).
(da La Repubblica)
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