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C’ERA UNA VOLTA LA CIA. ECCO COME TRUMP STA DISTRUGGENDO L’INTELLIGENCE AMERICANA: UN ARTICOLO DI “FOREIGN AFFAIRS” RICOSTRUISCE LE BORDATE DEL TYCOON AL SISTEMA DEGLI 007 AMERICANI

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

“GLI STATI UNITI DISPONGONO DI UNA COMUNITÀ DI INTELLIGENCE CHE IL RESTO DEL MONDO INVIDIA. MA SOTTO LA PRESIDENZA DI TRUMP, ALCUNE DELLE PATOLOGIE CHE RENDONO VULNERABILI ALL’ERRORE I REGIMI AUTORITARI STANNO AFFIORANDO ANCHE NEL SISTEMA STATUNITENSE” … LA MANCANZA DI FIDUCIA DEGLI ALLEATI, LE POSSIBILI RITORSIONI DEGLI EX AGENTI, I COMPLOTTARI AL POTERE E IL RISCHIO DI UN FALLIMENTO

«Parla chiaramente!» sbottò il presidente russo Vladimir Putin rivolgendosi al capo dei servizi segreti esterni, Sergei Naryshkin, durante una riunione del consiglio di sicurezza trasmessa in diretta televisiva alla vigilia della caotica invasione su larga scala dell’Ucraina, nel febbraio 2022.
Naryshkin era visibilmente nervoso. Solo dopo aver balbettato a lungo riuscì a esprimere il suo appoggio al riconoscimento delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk come stati indipendenti — le parole che Putin stava aspettando — e fu bruscamente invitato a sedersi, come uno studente impreparato che fallisce un’interrogazione.
L’apparente esitazione di Naryshkin ad abbracciare il pretesto bellico di Putin era probabilmente dovuta alla mancanza di un’intelligence solida che potesse garantire che l’“operazione militare speciale” avrebbe riportato Kyiv nell’orbita imperiale di Mosca.
Ma invece di esprimere dubbi, Naryshkin scelse la via della conformità e dell’obbedienza. L’intelligence poteva essere confusa, ma i rischi di contraddire Putin erano chiarissimi.
La ferrea convinzione di Putin che l’Ucraina si sarebbe arresa rapidamente rappresenta il più grave fallimento dell’intelligence nei suoi 25 anni al potere. Andò su tutte le furie quando l’invasione non si svolse come aveva previsto, arrivando a incolpare e persino a far arrestare alcuni alti funzionari della sicurezza. Ma quella trappola, Putin se l’era costruita da solo. Come molti autocrati, aveva creato un sistema in cui i subordinati gli dicevano solo ciò che voleva sentirsi dire.
Nel suo stato ideale, l’intelligence aiuta i leader politici a porre le domande giuste, a mettere in discussione le proprie convinzioni e a considerare cosa potrebbe andare storto. Sebbene gli ufficiali dei servizi abbiano la responsabilità professionale di adattarsi agli interessi, alle priorità di politica estera e allo stile di briefing preferito del leader che servono, a volte il servizio più alto che un’agenzia di intelligence può offrire è disilludere i suoi superiori da una convinzione errata ma profondamente radicata.
Gli Stati Uniti dispongono di una comunità di intelligence che il resto del mondo invidia. Ma sotto la presidenza di Donald Trump, alcune delle stesse patologie che rendono vulnerabili all’errore i regimi autoritari stanno affiorando anche nel sistema statunitense. Il suo stile populista e personalistico lo ha portato a disprezzare il valore dell’intelligence e a maltrattare le agenzie che la producono.
A fine giugno, il giorno prima di ordinare un attacco aereo statunitense contro gli impianti nucleari iraniani, Trump ha liquidato con disprezzo la testimonianza al Congresso del direttore dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, secondo cui l’Iran non era vicino a sviluppare un’arma nucleare — una
valutazione in contrasto con le sue affermazioni.
«Non mi interessa cosa dice lei», ha dichiarato Trump. Dopo i bombardamenti, ha proclamato trionfalmente che i siti nucleari iraniani colpiti erano stati «completamente e totalmente annientati», mentre un primo rapporto dell’Agenzia d’intelligence della Difesa (DIA) formulava una stima molto più prudente dei danni inflitti.
Il problema non è solo che Trump ridicolizza personalmente l’intelligence. La sua amministrazione sta anche creando le condizioni perché i funzionari modifichino le proprie analisi per compiacerlo.
Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha ripetuto le affermazioni iperboliche di Trump sull’annientamento totale, ignorando il rapporto dell’agenzia di intelligence del proprio stesso ministero.
La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato che la “presunta ‘valutazione’ è completamente sbagliata”. Gabbard e John Ratcliffe, direttore della CIA, hanno sostenuto di aver trovato una “nuova intelligence” a sostegno della versione di Trump, ma si sono rifiutati di renderla pubblica.
Sempre più spesso le agenzie di intelligence vengono guidate da lealisti politici anziché da professionisti esperti — un importante ufficio antiterrorismo del Dipartimento per la Sicurezza Interna si è ritrovato improvvisamente sotto il comando di un neolaureato senza alcuna esperienza nel settore della sicurezza nazionale.
Il rischio è che l’intelligence si politicizzi eccessivamente, non più come strumento per informare le decisioni di governo, ma per giustificarle a posteriori. Nel frattempo, gli Stati Uniti si
trovano di fronte a gravi minacce alla sicurezza nazionale, non da ultimo l’aumento del rischio terroristico da parte di gruppi legati all’Iran, in cerca di ritorsione per gli attacchi subiti.
Che si tratti di un attacco terroristico o informatico, di un errore di calcolo diplomatico o di una sorpresa militare, le conseguenze di un fallimento dell’intelligence potrebbero essere enormi. E il rischio non fa che crescere.
I fallimenti dell’intelligence sono inevitabili, anche nei sistemi più sani. Scoprire e valutare correttamente informazioni riservate è difficile persino nelle condizioni migliori; la fallibilità umana garantisce che errori nei processi e nell’analisi ci saranno sempre. Ma le distorsioni interne al sistema aumentano la probabilità del fallimento.
Il caso classico è quello di un regime autoritario, in cui il leader sicuro di sé non tollera opinioni divergenti. In questi sistemi, gli ufficiali dell’intelligence operano in un contesto in cui dire la verità al potere non è ammesso, dove la compiacenza è preferita alla competenza, l’adulazione ha la meglio sull’intuizione, e bisogna presentare “fatti alternativi” per sostenere la narrazione prediletta dal leader.
Offrire valutazioni sincere che contraddicono il punto di vista del capo è considerato un atto di slealtà, e comporta ritorsioni. Senza uno spazio per il dissenso analitico e la possibilità di esprimere valutazioni schiette e non edulcorate, i leader rischiano di ricevere e agire sulla base di un’intelligence distorta — come ben potrebbe testimoniare il malcapitato Naryshkin.
Oggi, gli Stati Uniti si trovano ad affrontare un rischio simile. Il populismo di Donald Trump è segnato da una profonda diffidenza verso le autorità accreditate e da un’intolleranza nei confronti degli esperti che presentano fatti o analisi scomode che mettono in discussione i dogmi centrali del suo movimento
Come fanno i leader autoritari, Trump si è circondato di lealisti che superano test ideologici, come affermare che le elezioni del 2020 gli siano state “rubate”. La cultura che ne risulta — fatta di analisi politicizzate, autocensura e repressione delle verità sgradite — riflette le condizioni dei regimi autoritari in cui fioriscono i fallimenti dell’intelligence.
Il criterio più importante per servire Trump non è la competenza, né l’esperienza rilevante, ma la fedeltà personale. Certo, un presidente degli Stati Uniti ha diritto ad aspettarsi un certo grado di lealtà da parte dei dipendenti federali.
Ma le aspettative dell’amministrazione Trump mettono la lealtà personale al di sopra della verità. Diversi funzionari di lunga data si sono visti chiedere per chi avessero votato, come prerequisito per occupare ruoli solitamente apolitici nell’ambito della sicurezza nazionale — una sorta di test di fedeltà che esclude funzionari competenti e invia un messaggio chiaro a chi resta: continuare a servire significa conformarsi.
Alti funzionari dell’intelligence fedeli a un populista o a un autocrate tendono a modellare le attività delle proprie agenzie sulla base di ciò che il leader vuole o non vuole sentirsi dire.
Questo può distogliere risorse da minacce reali. In qualità di direttore dell’FBI, per esempio, Kash Patel ha riorganizzato l’agenzia deviando agenti speciali e analisti verso il contrasto dell’immigrazione e della criminalità violenta, lasciando sottodimensionate le indagini su minacce più gravi per la sicurezza nazionale — come il terrorismo, il cybercrimine, o l’attività di intelligence cinese o russa negli Stati Uniti.
Sebbene ridurre la criminalità violenta sia un obiettivo condivisibile, proteggere la sicurezza nazionale richiede che l’FBI e le altre agenzie gestiscano una gamma molto più ampia di rischi.
Ma le agenzie d’intelligence non dispongono di risorse illimitate. Se sprecano tempo e mezzi su minacce inesistenti o su piani dubbi per impossessarsi del territorio di altri Paesi, saranno più vulnerabili a essere colti di sorpresa dalle reali intenzioni e strategie di avversari come Cina, Iran e Russia.
La politicizzazione palese dell’intelligence ha conseguenze che vanno ben oltre i corridoi della Casa Bianca. Durante i giorni più oscuri della spinta bellicista dell’amministrazione Bush verso la guerra in Iraq, la comunità d’intelligence statunitense perse credibilità non solo presso l’opinione pubblica americana, ma anche tra i partner internazionali. Oggi sta avvenendo la stessa corrosione della fiducia civica e dello stato di fiducia degli alleati.
Se gli alleati e partner degli Stati Uniti cominciano a considerare inaffidabile l’intelligence americana o a temere che anche la propria possa essere politicizzata, potrebbero scegliere di condividere meno informazioni con Washington — privando così le agenzie statunitensi di un indizio cruciale, magari proprio quello necessario per sventare un complotto o comprendere un’evoluzione chiave. La cooperazione con le agenzie estere è una componente centrale della raccolta d’intelligence americana. Washington dispone di enormi capacità autonome, ma non può sostituirsi all’analisi e alla raccolta fornita dai suoi partner.
Pur dichiarando pubblicamente che le sue azioni mirano a depoliticizzare le agenzie di intelligence statunitensi,
l’amministrazione Trump le ha in realtà rese ancora più politicizzate, esercitando pressioni affinché producano valutazioni funzionali alla narrazione politica preferita, scartando quelle che non si allineano, epurando il personale ritenuto sleale e vessando i dipendenti attraverso metodi come test del poligrafo a sorpresa condotti con il pretesto di indagini sulle fughe di notizie.
È ormai chiaro ai membri della pubblica amministrazione che i loro incarichi dipendono dai capricci dell’amministrazione.
Un caos amministrativo mascherato da tagli ai costi ha fiaccato il morale del personale. A marzo, l’adviser di Trump Elon Musk e il suo staff del Dipartimento per l’Efficienza del Governo hanno visitato le sedi della CIA e della NSA, facendo gelare il sangue ai funzionari di carriera.
Poco dopo, entrambe le agenzie hanno annunciato migliaia di tagli al personale, per lo più sotto forma di revoca di offerte di lavoro, licenziamenti di neoassunti, pensionamenti anticipati e uscite volontarie con incentivi economici. Quest’ultima opzione ha spinto diversi ufficiali di alto livello a lasciare il servizio pubblico; molti hanno confidato in privato che l’offerta di uscita abbia solo reso più facile da digerire una decisione già sofferta.
Non solo la loro partenza anticipata priva l’amministrazione di esperienza e competenza, ma la cancellazione delle assunzioni impedisce che vengano sostituiti da giovani promettenti, animati da passione e patriottismo.
Idealmente, le agenzie di intelligence dovrebbero accogliere e valorizzare il talento da ogni parte della società. Restringere il bacino di reclutamento priva il Paese della possibilità di sfruttare appieno il potenziale dei suoi cittadini e indebolisce il
contributo che l’intelligence può dare alla politica estera.
Nell’Unione Sovietica, solo i membri del Partito Comunista potevano entrare nel KGB, l’agenzia di intelligence principale. Questo vincolo ideologico alla purezza marxista-leninista comprometteva l’efficacia analitica del KGB: l’agenzia sottovalutava regolarmente la coesione dell’Occidente e sovrastimava la forza degli Stati satelliti sovietici e dei movimenti rivoluzionari.
Durante la Seconda guerra mondiale, l’intelligence britannica poté beneficiare del genio del decifratore Alan Turing, in parte perché teneva nascosta la sua omosessualità. Purtroppo, l’amministrazione Trump sta respingendo il talento, chiarendo che non valorizza più la diversità di prospettive nelle agenzie di intelligence statunitensi.
Invece di semplicemente riassegnare gli ufficiali che avevano lavorato temporaneamente su iniziative DEI alla CIA e all’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale, l’amministrazione li ha licenziati una volta chiusi quei programmi, mandando il messaggio che ci si aspetta conformità ideologica.
Una comunità d’intelligence statunitense che comincia a funzionare sempre più come quella di un Paese autocratico avrà difficoltà a trattenere il personale e ad attrarne di nuovo.
Al momento, il servizio pubblico non appare particolarmente attraente per le menti migliori d’America. Peggio ancora, la forza lavoro attuale è demoralizzata e distratta dalle epurazioni e dagli abusi del sistema a cui assiste. Migliaia di agenti stanno attivando i propri contatti professionali e ripulendo i propri curriculum riservati per cercare lavoro nel settore privato. Una
forza lavoro spaventata e disillusa non può certo garantire le migliori prestazioni.
La vicinanza dell’amministrazione Trump alle teorie del complotto corrode ulteriormente il rapporto con l’intelligence. Laura Loomer, il cui incontro con Trump ha portato a vari licenziamenti di alto profilo nelle agenzie, è nota per aver promosso complottismi, incluso l’infondata teoria secondo cui gli attacchi dell’11 settembre sarebbero stati “un lavoro interno”.
Altri membri dell’amministrazione Trump, come il vicedirettore dell’FBI Dan Bongino, hanno apertamente avanzato teorie complottiste, accusando il “deep state” di nascondere la verità agli americani su ogni cosa, dalla morte in carcere di Jeffrey Epstein all’assassinio del presidente John F. Kennedy. Nessun complotto è mai stato dimostrato, ma la demonizzazione delle agenzie d’intelligence percepite come parte del “deep state” ha un effetto duraturo sulla legittimità percepita del loro operato.
Demonizzare l’intelligence rende in ultima analisi gli Stati Uniti meno sicuri. Le agenzie hanno bisogno del sostegno dell’opinione pubblica per svolgere bene il proprio lavoro. Le forze dell’ordine federali, ad esempio, si basano sulle segnalazioni dei cittadini; chiamare ripetutamente l’FBI “corrotto senza rimedio” — come ha fatto il suo vicedirettore — può dissuadere la popolazione dal collaborare quando vengono avvicinati dagli agenti.
E se i media allineati a Trump continuano a ripetere retoriche populiste sulla “minaccia interna” — in particolare quella rappresentata da forze dell’ordine e agenzie d’intelligence federali ai danni delle libertà civili — i politici potrebbero trovarsi in difficoltà nel sostenere leggi necessarie per le attività
di intelligence.
All’inizio dello scorso anno, al momento di rinnovare la Sezione 702 dell’emendamento del 2008 al Foreign Intelligence Surveillance Act — una disposizione chiave che consente al governo USA di sorvegliare cittadini stranieri fuori dagli Stati Uniti — le stesse persone che oggi guidano l’FBI si sono unite ai media di estrema destra per presentare in modo fuorviante la legge come uno strumento orwelliano del deep state.
Alla fine, la disposizione è stata rinnovata per altri due anni, ma l’episodio ha dimostrato quanto siano vulnerabili gli strumenti più preziosi dell’intelligence statunitense alla retorica politica esasperata.
Donald Trump non è nato per essere un fruitore dell’intelligence. A giudicare dalla scarsità dei suoi briefing in materia — la sua agenda pubblica non ne ha mai riportati più di uno a settimana, contro i sei settimanali ricevuti in media dai suoi predecessori — sembra disinteressato ai vantaggi che una buona intelligence può offrire.
Agisce d’istinto e giustifica spesso le sue decisioni politiche come “buon senso”, un approccio euristico e populista che mal si sposa con il metodo rigoroso e analitico proprio del lavoro d’intelligence. Trump preferisce gli slogan alla sostanza, la narrazione alla complessità, e il complotto alla curiosità. Rifugge i dettagli. Le sue posizioni ideologiche si scontrano frontalmente con l’empirismo, come ha dimostrato lo scontro dell’amministrazione con gli economisti sugli effetti della sua politica dei dazi.
Trump sembra apprezzare l’intelligence solo quando conferma i suoi istinti, e non la considera uno strumento per mettere in
discussione le proprie convinzioni o esplorare alternative.
Il modo in cui la sua amministrazione gestisce il sistema d’intelligence statunitense aumenta la probabilità di un fallimento. Questo potrebbe assumere la forma di un attacco a sorpresa, una lettura errata delle intenzioni di un avversario, o l’incapacità di anticipare un evento rilevante. Trump ha già ignorato in passato degli avvertimenti: durante il suo primo mandato, ha reagito con lentezza agli allarmi sulla diffusione del COVID-19, ostacolando la risposta iniziale della nazione alla pandemia; e ha minimizzato i rischi legati al nazionalismo estremista interno, nonostante gli avvertimenti dell’FBI e del Dipartimento della Sicurezza Interna prima dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Qualcosa di simile potrebbe accadere di nuovo. Gli avvertimenti respinti con sufficienza potrebbero cessare di arrivare. L’intelligence potrebbe fallire perché informazioni cruciali non raggiungeranno mai Trump. Il timore di ritorsioni potrebbe spingere i funzionari a censurarsi o a evitare valutazioni che rischiano di scatenare reazioni ideologiche, come i rapporti sull’estremismo violento interno tra i gruppi dell’estrema destra o sulle operazioni informative della Russia.
Come ha scritto il già analista senior della CIA Brian O’Neill su Just Security il mese scorso, «il prossimo fallimento dell’intelligence non sarà una sorpresa. Sarà una scelta».
Un fallimento dell’intelligence sotto la sua amministrazione non spingerebbe necessariamente Trump a correggere le cause. Piuttosto, potrebbe accusare le agenzie di non aver fatto il proprio dovere o addirittura insinuare falsamente che siano sempre state contro di lui. Qualsiasi riforma introdotta dopo un fallimento sarebbe probabilmente finalizzata a politicizzare ulteriormente la comunità di intelligence, indebolirne l’indipendenza e rafforzare il controllo del potere esecutivo su budget, personale e autorità operative.
Una squadra sportiva di talento, anche con un allenatore mediocre, può ogni tanto portare a casa una vittoria. Se gli Stati Uniti riusciranno a evitare un grande fallimento dell’intelligence nei prossimi anni, sarà grazie all’etica professionale resiliente delle sue agenzie. Ma quelle agenzie non lavoreranno al massimo del loro potenziale: se vengono sistematicamente ignorate, mal utilizzate o politicizzate, non potranno più fornire il vantaggio informativo per cui l’intera comunità d’intelligence è stata concepita al servizio del presidente.
Trump è affascinato dalle risorse naturali degli Stati Uniti — petrolio, gas, legname, agricoltura. Ma anche l’intelligence americana, senza pari nel mondo, è una risorsa preziosa, un pilastro della “grandezza” che Trump afferma di volere. Garantire la sicurezza dell’America oggi e per le generazioni future dipende da come saprà gestire questo tesoro nazionale.
David V. Gioe and Michael V. Hayden
per foreignaffairs

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LA COMMISSIONE UE BACCHETTA IL GOVERNO SULLA NOMINA DEL NUOVO AD DI TRENITALIA: RISCHIO PROCEDURA D’INFRAZIONE

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

IL PASSAGGIO DI STRISCIUGLIO DA RFI A TRENITALIA VIOLA LE NORMATIVE SIA EUROPEE CHE ITALIANE… I SOVRANISTI NON CE LA FANNO PROPRIO A FARE UNA COSA A NORMA

Arriva l’altolà della Commissione europea alle porte girevoli fra Trenitalia e Rete ferroviaria italiana (Rfi). Lo scrive su L’Espresso il giornalista Sergio Rizzo, secondo cui l’esecutivo Ue avrebbe inviato una lettera al governo italiano in data 27 giugno. L’oggetto della mail è inequivocabile: «Possibile inosservanza della direttiva 2012/34/Ue che istituisce uno spazio ferroviario europeo unico». Tra i destinatari ci sono tre ministri dell’esecutivo Meloni: il vicepremier Matteo Salvini (Infrastrutture), Antonio Tajani (Esteri) e Tommaso Foti (Affari europei).
Il passaggio di Strisciuglio da Rfi a Trenitalia
Nella mail, il cui contenuto è stato riportato in esclusiva da Sergio Rizzo per L’Espresso, la DG mobilità e trasporti della Commissione europea bacchetta il governo italiano, accusato di aver aggirato le regole europee sul passaggio di poltrona di Gianpiero Strisciuglio da amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (la società che gestisce l’infrastruttura ferroviaria italiana) ad amministratore delegato di Trenitalia (che si occupa invece del servizio di trasporto pubblico ferroviario).
Secondo Bruxelles, la nomina di Strisciuglio viola apertamente le normative europee. Ed è proprio per questo che «in assenza di una risposta soddisfacente alle domande rivolte nella lettera su questa vicenda», continua la lettera inviata al governo italiano, «la Commissione può decidere di avviare un procedimento di infrazione».
Lo stop di 2 anni aggirato dal governo
In realtà, fa notare Sergio Rizzo, il passaggio di poltrone di Strisciuglio stride anche con la normativa italiana, non solo con quella europea. Il decreto legislativo 112 del 2015, emanato
proprio in seguito alla direttiva europea che ora la Commissione chiede all’Italia di rispettare, si stabilisce quanto segue: «I responsabili dell’adozione di decisioni sulle funzioni essenziali non possono ricoprire, per un periodo di ventiquattro mesi da quando cessano nelle proprie funzioni, alcun ruolo all’interno delle imprese ferroviarie operanti sulla relativa infrastruttura». In altre parole, devono trascorrere almeno due anni per passare da un’azienda che opera sull’infrastruttura ferroviaria a un’altra dello stesso settore. Un lasso di tempo necessario per evitare conflitti di interessi.
Le richieste di Bruxelles
Per giustificare il passaggio di Strisciuglio a Trenitalia, il governo Meloni aveva prodotto una serie di pareri inverosimili, secondo i quali l’ex ad di Rfi non avrebbe mai assunto «decisioni sulle funzioni essenziali» dell’azienda (pur essendone amministratore delegato). Evidentemente, la vicenda non è passata inosservata ai tecnici di Bruxelles, che ora chiedono spiegazioni al governo italiano e minacciano di aprire una procedura di infrazione.

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L’EUROPA, IL NANETTO DA GIARDINO DI TRUMP E XI JINPING: LA REAZIONE DA CACASOTTO DEI LEADER UE DI FRONTE AI DAZI DEL TYCOON (ACCETTIAMO I DAZI DEL 10% PUR DI NON FAR ARRABBIARE DONALD) È LA DIMOSTRAZIONE DI DEBOLEZZA DEL VECCHIO CONTINENTE, DOVE OGNI STATO PENSA AL SUO ORTICELLO E CONDANNA L’UNIONE AL FALLIMENTO

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

CON LA CINA VA PURE PEGGIO: CI SOTTRAE QUOTE DI MERCATO SUI SETTORI IN CUI ERAVAMO FORTI, E CI INONDA DI SUOI BENI CHE NON RIUSCIAMO A PRODURRE … IL RITARDO TECNOLOGICO CON WASHINGTON E PECHINO È ORMAI INCOLMABILE

L’ Europa è stretta in una morsa fra gli Stati Uniti e la Cina, ma non sembra volerlo ammettere a se stessa.
L’assenza di qualunque sostanziale reazione allo scivolamento di questi mesi ed anni rischia di passare alla storia come un esempio da manuale di declino strategico; di preferenza da parte di ciascuno dei leader per la difesa (illusoria) del proprio orticello rispetto a una reazione collettiva efficace.
Vediamo cosa sta accadendo.
L’università di Penn Wharton ha creato un simulatore che stima le entrate del bilancio americano grazie ai dazi di Donald Trump. Ai livelli attuali di circa il 15% in media, ipotizzando che i flussi del commercio si adeguino di conseguenza, nei prossimi dieci anni le tariffe produrrebbero circa 3.200 miliardi di dollari.
Coprirebbero così i tagli alle tasse (in gran parte) agli americani più ricchi, imponendo un onere sugli stranieri sotto forma di tasse all’ingresso e sul resto degli americani sotto forma di prezzi più alti dei prodotti esteri.
Gli Stati Uniti stanno importando beni per 3.200 miliardi di dollari all’anno dal resto del mondo, dunque un dazio medio al 10% (cioè più basso di oggi, ma quattro volte più alto rispetto a gennaio) genererebbe meccanicamente entrate per circa trecento miliardi l’anno e tremila in un decennio: più o meno il costo del «Beautiful Budget Bill» di Trump approvato ieri dal Congresso.
Naturalmente non è detto che vada così. Le aziende europee o cinesi potrebbero cercarsi altri mercati, praticare degli sconti, trasferirsi a produrre in America per non pagare i dazi.
E in ogni caso quei trecento miliardi di dollari in più non bastano certo a un bilancio americano che ne genera duemila all’anno di sempre nuovo deficit e deve finanziarsi o rifinanziarsi per undicimila miliardi all’anno: un decimo del prodotto lordo del mondo.
Ma ciò che conta adesso è che Trump non vede ragioni di ammorbidire il suo approccio. Anzi. L’economia americana si è ripresa e oggi non rischia più una recessione, Wall Street è risalita grazie ai colossi tecnologici ed è ai massimi.
Il presidente sa che ha bisogno di quei soldi, in pratica un’imposta sul valore aggiunto (Iva) questa sì discriminatoria, perché riservata solo al resto del mondo.
Dunque affonderà i colpi sull’Europa, perché vede che essa «non ha le carte» — direbbe lui — per ribellarsi. Lo scenario migliore prevede un dazio al 10% su tutto il nostro export, senza reazioni da parte nostra.
Ma Trump intuirà rapidamente se può andare più in là: già oggi il dazio sulle auto è al 25%, su acciaio e alluminio al 50% e gli Stati Uniti hanno aperto un’indagine sui presunti comportamenti scorretti del nostro settore farmaceutico.
A oggi non sembra probabile che la Casa Bianca si accontenti di un semplice 10% generalizzato. E ai piani alti di Bruxelles si percepisce paura e impotenza: sembra si sia concluso che oggi l’Europa non ha le risorse politiche, tecnologiche, militari e commerciali per affrontare uno scontro con gli Stati Uniti come
invece ha fatto la Cina.
Il quadro con quest’ultima non è molto diverso. L’export tedesco verso la Repubblica popolare per il secondo anno di seguito sta crollando a meno 12%, quello dell’Italia anche, mentre le vendite cinesi in Europa salgono di oltre il 6%.
Al recente Forum della Banca centrale europea a Sintra un’analista della Federal Reserve, Ana Maria Santacreu, ha mostrato cosa succede fra i due grandi blocchi: la Cina è sempre più forte nei settori un tempo dominati dall’Europa — auto, chimica, macchine utensili, robotica, presto anche aeronautica civile —, dunque ci sottrae quote di mercato nel mondo e non compra più i nostri prodotti.
Invece l’Europa è sempre più dipendente dalla Cina per i beni ad alta tecnologia, che dal 2017 abbiamo iniziato a comprare dalle sue fabbriche a ritmo crescente.
Così il ritardo tecnologico indebolisce l’Europa nei rapporti con la prima e la seconda economia del mondo. Avremmo un grande punto di forza, siamo l’unica area del pianeta ormai dove valgono lo stato di diritto, l’imparzialità dei poteri pubblici, la stabilità finanziaria. Ma la stiamo sviluppando?
Il rapporto di Enrico Letta sul mercato unico è di più di un anno fa, quello di Mario Draghi sulla competitività è di quasi un anno fa. Tutti ne hanno applaudito i contenuti, eppure per entrambi non si vede neanche l’ombra di un calendario di realizzazione.
I principali governi — Italia inclusa — agiscono spesso in senso opposto alle raccomandazioni di Letta e Draghi. A Bruxelles intanto Ursula von der Leyen ha accentrato più poteri rispetto ai
suoi predecessori e si consulta con pochissimi. Anche lei, come gli altri leader, sarà giudicata dai risultati.

(da “Corriere della Sera”)

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