Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
SPROFONDO UE: CRITICHE DA FRANCIA E SPAGNA, GERMANIA PERPLESSA
Tutti contro Ursula von der Leyen per il “suo” accordo sui dazi con gli Stati Uniti. Eppure tutti con Ursula, a cui i principali gruppi politici europei hanno appena rinnovato la fiducia.
Nel day after dell’accordo tariffario tra Usa e Ue, “il miglior accordo possibile” per il Commissario Ue al Commercio, la Francia spara a zero – “un triste giorno quando ci si sottomette” dice il premier François Bayrou – mentre la Germania sostiene che “è meglio la tempesta dello tsunami”, ma con il cancelliere Merz parla di “danni sostanziali all’economia tedesca”.
La più convinta sostenitrice dell’accordo, Giorgia Meloni, pur dicendosi soddisfatta “vuole vedere i dettagli”, e “non certo entusiasta” si dice il socialista spagnolo Pedro Sánchez. Insomma, come il Colombo di Fabrizio De André, il nucleo forte
dell’Unione sembra “abortire” la sua presidente. Ma in realtà, subito dopo, la “guarda con dolcezza” perché occorre continuare a trattare e capire come compensare le varie filiere nazionali. Il quadro europeo si muove così su due livelli: quello politico, con un giudizio negativo pressoché unanime; e quello che pensa già a come rimediare.
Sul primo livello l’attacco a Von der Leyen è servito dai contenuti del negoziato: dazi del 15% per i prodotti Ue negli Usa che mediamente saranno più alti visto il 50% su acciaio e alluminio a fronte di impegni europei astronomici su energia (750 miliardi di dollari di acquisti in tre anni di petrolio, gas Gnl, etc) e “un quantitativo rilevante di armi” come ha detto Trump; oltre a investimenti negli Usa per 600 miliardi di dollari.
Un “giorno triste” per l’Europa, dice il primo ministro francese, e la sua dichiarazione sembra divergere da quella tedesca che, con il portavoce del governo, parla di “un accordo che tiene conto degli interessi tedeschi ed europei”. Ma poi, oltre a Merz, anche gli industriali tedeschi lamentano di essere danneggiati. Il nucleo portante della Commissione, quindi, attacca mentre da destra, i Conservatori europei, gruppo di cui fa parte Fratelli d’Italia ma che non è parte della “maggioranza Ursula”, spiega che “l’accordo evita la guerra commerciale”. I “sovranisti” invece sparano a zero, soprattutto con Viktor Orbán ma anche con Marine Le Pen. Gli equilibri si misureranno in Consiglio europeo, dove l’accordo dovrà essere confermato: e qui si innesta il secondo livello della partita.
L’accordo va ancora definito in molti, e decisivi, aspetti. Ieri innumerevoli “fonti Ue” hanno tenuto a far sapere che si dovrà
discutere ancora “quote tariffarie sull’acciaio” e di “esenzioni su vino e distillati”. Hanno precisato poi che i 750 miliardi di acquisti di energie “costituiscono una stima e non un impegno”; che “l’acquisto di armi non è parte dell’intesa”; che “nessun impegno è preso in materia di digitale”, per finire con lo sfogo del funzionario Ue: “Tutti gli Stati membri sono a conoscenza del lavoro svolto dalla Commissione europea in un contesto difficile”. Impossibile, insomma, che la presidente della Commissione abbia trattato all’insaputa dei suoi principali azionisti. Gli attacchi quindi sembrano ipocriti e finalizzati soprattutto ai propri elettorati. Anche perché ora si dovrà trattare sui rimedi.
La segretaria generale della Confederazione sindacale europea, Esther Lynch, bocciando l’accordo dice che la Commissione deve garantire che l’Europa abbia la capacità di proteggere i lavoratori dal caos creato da Trump.
Di compensazioni parla il governo Meloni – ma non era l’Ue solo una ‘matrigna’? – e la stessa Elly Schein (come anche l’ex commissario Ue Paolo Gentiloni), evitando di attaccare Von der Leyen, ma prendendosela solo con Giorgia Meloni, chiedono che si metta mano a forme di intervento europeo. Se Meloni pensa soprattutto a sostegni alle imprese, la leader Pd pensa a “investimenti comuni europei per un piano industriale”.
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
MENTRE GERMANIA E FRANCIA CONTESTANO L’ACCORDO SUICIDA SUI DAZI, IL GOVERNO MELONI MINIMIZZA E CONFERMA DI ESSERE LA SERVITU’ DI TRUMP
Fatta l’intesa, bisognerà difendere l’indifendibile e trasformare nel racconto di un eroico
pareggio l’umiliazione continua degli ultimi sei mesi culminata nell’intesa di Turnberry, Scozia. L’indifendibile è ovviamente Donald Trump, il Paparino, il meme vivente vestito da Giulio Cesare, da Papa, da Superman, che abbiamo accarezzato dicendo: «Quello che dice non è detto che lo faccia», molto rumore per nulla, alla fine non volterà le spalle agli alleati di sempre. E invece.
La partita dei dazi finisce quindici a zero, con numeri mostruosi di contorno. Acquisti di petrolio e gas dagli Usa per 750 miliardi di dollari, investimenti garantiti in America per altri 650 miliardi da parte della nostra industria, una “tassa sull’amicizia” così enorme da rendere increduli sulla sua effettiva applicazione.
Poi, pure la beffa perché nelle dichiarazioni seguite all’incontro con Ursula von der Leyen il Paparino prometterà di essere gentile con i Paesi che non hanno trattato accordi: pagheranno tariffe del 15 o del 20. Insomma, abbiamo negoziato per mesi per ottenere un risultato poco distante o forse identico di chi al tavolo non si è neanche seduto.ù
Difendere l’indifendibile è un problema alquanto italiano, gli altri non provano nemmeno a nascondere la delusione o addirittura l’allarme per le conclusioni di questa difficile partita, che si somma alle onerosissime intese sulla difesa continentale. Il cancelliere Friedrich Merz, leader di un Paese e di una formazione che pure esprime la guida della Commissione Ue, ammette con franchezza che i dazi causeranno danni ingenti all’economia tedesca.
Il governo francese definisce l’accordo sbilanciato, con l’opposizione di destra che invita addirittura Emmanuel Macron a non sottoscriverlo a tutela dell’interesse nazionale.
In Spagna Pedro Sanchez si impegna a sostenere il patto ma precisa: senza alcun entusiasmo. Da noi si sceglie lo spartito encomiastico e il comunicato congiunto a tripla firma – Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Matteo Salvini – sembra l’annuncio di un Great Deal, per dirla col linguaggio trumpiano: pericolo scongiurato (la famosa guerra commerciale), Quota Quindici sostenibile, barra dritta per «mantenere salda l’unità dell’Occidente».
Si capisce l’intento, la reazione difensiva – troncare, sopire – perché è chiaro lo choc dopo un accordo che rende manifesta la
nuova realtà delle relazioni atlantiche. Non ci sono più partner, per Washington, ma solo potenze concorrenti e piccole potenze da mettere in riga sui commerci, sulla difesa, su tutto. Si comincia a comprendere la portata della narrazione Maga sull’Europa parassita, che il centrodestra aveva derubricato a posizione da comizio ma era tutt’altro: la base ideologica della cancellazione di una partnership privilegiata.
È un trauma scoprire che Trump non è un “Taco”, un cultore dell’esagerazione che però fa sempre marcia indietro, né un amico capriccioso ma alla fin fine ragionevole e manovrabile. È una brutta botta rendersi conto che il vantato legame con lui potrebbe rivelarsi una relazione imbarazzante e forse pericolosa per il consenso, perché hai voglia a dire Make West Great Again: qui il grande vincitore è solo l’America, tutti gli altri e anche gli italiani devono aprire il portafoglio per tagliare le tasse americane, aumentare l’occupazione americana, sostenere le merci americane, in cambio (forse, vedremo) della clemenza del leader americano.
(da La Stampa)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
DA STATISTI COME KOL, MITTERAND, MERKEL , DRAGHI SIAMO PASSATI A VON DER LEYEN E RUTTE
Non conosco un solo europeo di destra, di sinistra, di sopra o di sotto che si senta rappresentato da Ursula von der Leyen. Senza scomodare Bismarck e Cavour (e poi De Gasperi, Schumann, Adenauer) siamo pur sempre il continente che nell’ultimo mezzo secolo ha espresso Kohl, Mitterrand, la stessa Merkel.
Statisti, ma prima ancora persone con un certo senso di sé e della Storia. Per non dire di Draghi, che fu capace di ergersi orgogliosamente contro gli speculatori americani in difesa dell’euro.
Adesso siamo passati da Whatever it takes a Come è umano lei. Rutte ha trasformato la poltrona di segretario generale della Nato nel puff di Fracchia, con Trump nei panni del burbero capufficio. Quanto alla von der Leyen, per restare alla mitologia fantozziana, le starebbero a pennello i panni della contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, tipico esempio di personalità inadeguata al ruolo.
Come ha fatto implacabilmente notare Ferruccio de Bortoli, non soltanto sui dazi Ursula Vien dal Mare ha accettato da Trump condizioni inaccettabili, ma si è lasciata umiliare fin dalla scelta del luogo dell’incontro: non la Casa Bianca o una capitale europea, ma un resort del presidente americano, per di più in Gran Bretagna, cioè in una nazione che dall’Europa è addirittura
uscita. Con tutti questi bulli in circolazione, urge trovare qualcuno che tuteli gli interessi del Vecchio (ma non defunto) Continente meglio della Serbelloni tedesca e del Fracchia olandese. A qualunque costo.
(da corriere.it)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
TRUMP E’ LA NEMESI DELLA DEMOCRAZIA, LA SUA EUTANASIA… E’ IL TRIONFO DEL PEGGIORE, DEL MENO SERIO, DEL MENO MORALE, DEL MENO RISPETTABILE
«Putin ha dieci-dodici giorni per fermare la guerra», dice Trump (è necessario ricordarlo:
è il presidente degli Stati Uniti). Uno legge, verifica che il virgolettato è fedele («dieci-dodici giorni», ha detto proprio così) e si domanda: ma perché non tredici-quindici, o sette-nove? Su quali dati, quali informazioni, quali valutazioni oggettive si appoggia, l’uomo più potente del mondo, per dire che i giorni a disposizione di Putin per «fermare la guerra» sono proprio dieci-dodici, non di più, non di meno?
Torna in mente una delle sue prime esternazioni da neo-eletto, «fermerò la guerra in Ucraina in 24 ore». E si torna non all’ipotesi, ma proprio alla certezza, che costui apra bocca a
vanvera, a casaccio, a capocchia, tanto per dire, senza pensarci, senza farsi carico della responsabilità di quello che dice, forse addirittura senza capire, lui per primo, quello che sta dicendo.
In piena effrazione del buon principio, appeso in tanti uffici, tanti luoghi di lavoro, “prima di aprire la bocca controllare che il cervello sia acceso”.
E la cosa più triste — che ci tira in ballo tutti quanti, uno per uno — è che noi siamo costretti a dedicare a questo blaterone inattendibile, sprovvisto di alcuna autorevolezza, di alcun carisma, di alcuna dignità al di fuori delle sue bombe atomiche, l’attenzione che non merita.
Trump è la nemesi della democrazia, la sua eutanasia. È il trionfo (legittimo) del peggiore, del meno serio, del meno morale, del meno rispettabile e del meno rispettoso, del più bugiardo, del meno riflessivo. Viene da dire: ce lo meritiamo, ma non è vero. Non ce lo meritiamo. Siamo costretti a subirlo per volontà altrui, ed è tutt’altra cosa.
(da Repubblica)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
IL SOVRANISMO CULTURALE DIVENTERÀ PRESTO DI MODA ANCHE NELLA ‘SCEPTRED ISLE’
Dal 2001 l’ingresso nei musei pubblici britannici è stato reso gratuito (salvo mostre speciali temporanee). Era l’epoca magica del Labour di Tony Blair e Gordon Brown.
Nel 2025, sempre un governo targato Labour, sta valutando di reintrodurre un biglietto di ingresso a pagamento (notizia ufficiosa per il momento).
Le finanze pubbliche soffrono come mai, e di soldi per la Cultura ce ne sono sempre di meno. Nuove inderogabili e pesanti spese militari si affacciano all’orizzonte (“burro o cannoni”? sono già stati scelti questi ultimi). Gli sponsor privati – anche per ragioni ideologiche legate agli eccessi della cultura Woke – scarseggiano.
Il progetto sta prendendo piede, anche rischiando l’ostilità dell’opinione pubblica (del resto quello di Starmer ormai è già un governo assai impopolare). Basta pensare che il ricavato annuale della vendita dei biglietti del solo Louvre a Parigi si aggira sui 100 Milioni di euro.
Le cifre di cui si discute nel Regno Unito sono dell’ordine di mezzo miliardo di sterline all’anno (considerando il costo medio di un biglietto tra le 15 e le 20 sterline). Una discreta sommetta anche per l’erario di Sua Maestà.
Ma lo scenario è più complicato e lo spettro della Brexit aleggia: derive autarchiche. Per tenersi buoni gli elettori qualcuno propone (e non è Farage o i suoi accoliti di Reform) di tenere l’entrata gratuita per i cittadini britannici e di fare pagare il biglietto solo i visitatori stranieri. Si pone automaticamente il problema di controllare i passaporto dei visitatori: ulteriori costi
e code (e meno visitatori).
Angela Rayner (la vice primer) come alternativa propone una “tassa di soggiorno comunale” per i turisti. Con l’idea di utilizzare questi soldi per finanziare i musei. Ma la lobby del settore turistico, già in difficoltà, si è ferocemente opposta. Inoltre è chiaro che nessun sindaco resisterebbe alla tentazione di utilizzare quei fondi per faccende più urgenti (trasporti e edilizia pubblica ad esempio). Ai musei andrebbe a finire di sicuro poco o niente. E’ poca la fiducia nella vocazione culturale del Council di turno (l’equivalente del nostro consiglio comunale).
Insomma è solo questione di tempo. “The Cultural Amusement” richiederà il suo obolo. In questo probabile scenario entra in gioco la questione della restituzione dei reperti museali ai paesi di provenienza. La politica britannica – ossessionata dal rimorso coloniale – vorrebbe in linea di principio restituire il maltolto contenuto dei musei del regno.
Il caso più eclatante: i Marmi del Partenone scolpiti da Fidia e alloggiati al British Museum (tra l’altro una delle poche cose non estorte con la forza ma regolarmente comperate) sono oggetto di complesse trattative diplomatiche con la Grecia da molto tempo. Ma, onestamente, chi comprerà un salato biglietto per vedere una copia del fregio in resina sapendo che l’originale nel frattempo è trasmigrato ad Atene?
Sì, è vero, al British Museum ci sono tante altre cose da vedere, ma cosa rimarrà per davvero dopo una massiccia campagna di restituzione? Mummie e sarcofagi all’Egitto, reperti assiri all’Iraq e via di seguito. Considerazioni analoghe valgono anche per
diversi altri musei.
Comunque vada con l’ingresso a pagamento il sovranismo culturale diventerà presto di moda anche nella “Sceptred Isle”. Non sarà più, come ai vecchi tempi, una questione di difendere “l’universale missione civilizzatrice della cultura britannica”. Si tratterà di un banale e prosaico controllo/sfruttamento delle “risorse strategiche della nazione”.
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
PRIMA SI SCEGLIEVANO LA SPAGNA E IL PORTOGALLO, ORA LE METE PREDILETTE SONO ALBANIA E TUNISIA … LE MOTIVAZIONI SONO SEMPRE LE STESSE: PAGARE MENO TASSE, CERCARE UN CLIMA MIGLIORE DEL NOSTRO E UN PAESE DOVE LA VITA COSTI MENO
Prima si sceglievano la Spagna e il Portogallo, ora ad andare per la maggiore sono
l’Albania e la Tunisia. La motivazione è sempre la stessa: pagare meno tasse, cercare un clima migliore del nostro, un Paese dove la vita costa meno e la qualità dei servizi è paragonabile alla nostra.
Il risultato, come certifica l’ultima relazione annuale dell’Inps, è che il numero dei nostri pensionati in fuga verso l’estero è tornato a salire: su 228.600 pensionati italiani residenti all’estero ben 37.825 (calcolando i soli dipendenti di attività private) sono individui la cui carriera retributiva si è svolta esclusivamente in Italia, in larga parte con pensioni particolarmente ricche, che al momento del ritiro hanno deciso di trasferire la loro residenza all’estero attratti da regimi fiscali molto più accomodanti del nostro.
La propensione per la fuga all’estero nel corso degli anni è cresciuta in maniera esponenziale. Il fenomeno migratorio è quasi triplicato tra il 2010 e il 2023: si è infatti passati dai 10
emigrati ogni 100 mila nuovi pensionati del 2010 ai 20 del 2019 sino ai 33 del 2023, coinvolgendo più uomini che donne e principalmente le grandi regioni del Nord e del Centro oltre alla Sicilia, mentre il resto del Sud e le Isole mostrano una partecipazione più contenuta.
I dati, infatti, mostrano che i pensionati con un reddito lordo medio mensile superiore ai 5 mila euro presentano una propensione all’emigrazione che è più di sei volte superiore di quella registrata nelle classi di reddito più basse.
La geografia delle destinazioni stando all’Inps è in continua evoluzione ed è influenzata da fattori combinati di natura fiscale, economica, culturale e infrastrutturale. Per quanto riguarda il periodo compreso tra il 2010 e il 2024, i Paesi esteri più interessati dal fenomeno sono stati Spagna e Portogallo, seguiti da Svizzera, Francia e Germania.
Ma quanto è vantaggioso spostarsi all’estero? Ogni Paese offre un differente regime fiscale ai pensionati in arrivo da altre nazioni. In luoghi come Albania, Panama, Costa Rica, Ecuador è in vigore un’esenzione totale dalla tassazione sulle pensioni estere. Cipro sopra i 3.420 euro prevede una tassazione fissa del 5%, 5% al massimo anche in Tunisia (dove una quota pari all’80% del reddito è comunque tax free), la Grecia del 7%, la Romania preleva il 10% come la Bulgaria, Malta il 15% e la Turchia il 20%.
In Croazia è prevista una deduzione che riduce del 50% la base imponibile, anche se poi sopra i 60 mila euro applica una tassazione progressiva. Altre forme di detassazione o
agevolazioni delle pensioni private sono poi previste a Monaco, San Marino e Gibilterra e in forma minore in altri Stati in virtù di specifici accordi bilaterali.
La Spagna oltre ad avere aliquote Irpef più basse delle nostre offre invece detrazioni fino a 6.500 euro per gli over 65 e fino a 7mila per gli over 75, alcune regioni poi (come ad esempio le Canarie) presentano condizioni ancora più favorevoli.
In Portogallo a partire dal 2024 ai pensionati che trasferiscono la loro residenza fiscale vengono applicate aliquote comprese tra il 14,5 e il 53% a seconda del reddito complessivo, ma fino all’anno prima si versava appena il 10%.
Per beneficiare degli sconti fiscali nei Paesi stranieri occorre ovunque trasferire la propria residenza fiscale e soggiornarvi ogni anno per più di 183 giorni. Poi ogni singola nazionale detta condizioni particolari: in Grecia ad esempio il bonus vale per 15 anni a condizione di non essere stati residenti fiscali in questo Paese negli ultimi 5, mentre a Cipro questo periodo si riduce ai 17 mesi precedenti la richiesta di soggiorno.
A Malta è obbligatorio acquistare casa, mentre in Albania occorre dimostrare di non essere stati condannati per reati con pene superiori ai 3 anni. A San Marino la tassazione agevolata sulla pensione è fissata al 6% e vale per 10 anni, rinnovabili
Ma occorre dimostrare un reddito annuale non inferiore a 120.000 euro o un patrimonio mobiliare di almeno 500.000 euro. Inoltre, è fondamentale non essere mai stati residenti a San Marino prima della richiesta.
Tutti questi vantaggi, a parte poche eccezioni, non riguardano gli
ex dipendenti pubblici, perché nel loro caso le norme internazionali prevedono che le loro pensioni vengano tassate nello Stato in cui hanno prestato servizio. Sono solo quattro le nazioni che hanno siglato col nostro Paese una specifica convenzione contro la doppia imposizione a favore di chi trasferisce la propria residenza fiscale: si tratta di Australia, Cile, Tunisia e Senegal.
“In via eccezionale per il 2025” la legge di Bilancio 2025 ha previsto la sospensione della rivalutazione automatica annuale degli importi sopra la soglia minima di 598,61 euro. Solo sotto questa soglia è stata così applicata la rivalutazione piena dello 0,8%, mentre alle pensioni che superano di poco questa soglia è stata riconosciuta una rivalutazione parziale fino al raggiungimento di 603,40 euro, importo che corrisponde al trattamento minimo aumentato dello 0,8%.
(da agenzie)
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