Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
LA 45ENNE CONOSCE MOLTI DEI SEGRETI DEL NETWORK DI BOLSONARO, DA TRUMP A BANNON – HA INCONTRATO SALVINI, HA AVUTO CONTATTI CON ESPONENTI DI LEGA E FDI
A Repubblica ha detto, poco prima che la polizia le mettesse le manette ai polsi: «Sono la deputata più votata in Brasile. Mi aspettavo un trattamento migliore dei miei amici italiani». In Brasile, la notizia, è rimbalzata sui siti e sulle prime pagine dei quotidiani, nei titoli di ogni telegiornale: «Carla Zambelli è finita in manette in Italia».
E questo spiega perché l’arresto potrà avere grandi e gravi conseguenze nei rapporti tra Italia e Brasile, qualora la deputata non fosse estradata. Ma anche nella politica interna brasiliana perché Zambelli conosce molti dei segreti del mondo Bolsonaro, al quale continua essere molto legata.
Zambelli è una figura centrale del potere che ruota intorno all’ex presidente brasiliano. Ma ha anche un ruolo di peso nel network di quella internazionale della destra che in questi anni è cresciuta in Sudamerica, passando per gli Stati Uniti e per finire in Europa.
Quarantacinque anni, le sue prime esperienze politiche in Brasile Zambelli le consuma a sinistra, in particolare nel movimento femminista
Un passato poi subito rinnegato: quando, eletta deputata per i movimenti ultraconservatori di destra, spuntarono alcune sue fotografie in topless nel corso di una manifestazione, prima negò di essere lei e poi che si era trattato soltanto di «uno scambio di maglietta» con un’amica.
La sua notorietà in Brasile arriva nel 2013 quando partecipa in prima linea alle manifestazioni per l’impeachment dell’allora presidentessa Roussef: è in quell’occasione che conosce e diventa amica di Bolsonaro che la vorrà al suo fianco nelle elezioni del 2018. Che porteranno per la prima volta al parlamento Zambelli
Dirette social, contatti continui con gli elettori, camere dell’odio ingrossate a ogni evenienza, sempre soffiando sull’emergenza del momento. È la strategia – insieme alla vicinanza a Bolsonaro – che nel 2022 la fa rieleggere con poco meno di un milione di preferenze: è la terza più votata (e non la prima come lei ha raccontato a Repubblica) nel paese, un successo insperato che la rende sempre più vicina al presidente.
Le sue dichiarazioni sono un concentrato della propaganda della destra sovranista: no al multiculturalismo, stop alle quote razziali e sì ai negazionismi sull’ambiente e sul femminismo progressista. I modi sono quelli della casa: una condanna per diffamazione nei confronti di una ex deputata, poi l’inseguimento pistola alla mano che gli costa la condanna.
I rapporti che ha tessuto in questi anni con la destra globale sono però rimasti. Anzi, se possibile, sono sempre più saldi. Zambelli è un meccanismo della rete che passa da Eduardo Bolsonaro e arriva a Steve Bannon: in questi anni ha avuto rapporti diretti
con i consiglieri di Donald Trump e con il mondo del circuito Maga, producendo materiale in particolare sulle “storture della giustizia” e contro le “teorie gender”.
È su questi temi che arrivano i contatti anche con la destra sovranista italiana, rinsaldati anche dal suo doppio passaporto viste le origini italiane del marito. Incontra in un’occasione Salvini. È in un network con esponenti di Lega e Fratelli d’Italia.
Ha contatti diretti, risulta all’intelligence brasiliana, con almeno quattro parlamentari del nostro paese che nei mesi scorsi le avrebbero anche paventato la possibilità di una candidatura alle prossime elezioni.
Ecco perché l’estradizione di Zambelli sarà più di una sentenza: è un banco di prova delle relazioni tra Italia e Brasile. E un termometro delle dinamiche interne alla destra internazionale.
(da La Repubblica)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
SI REGISTRANO AUMENTI ANCHE NEI RISTORANTI (UNA CENA PER DUE NON COSTA MENO DI 100 DOLLARI) E NEI NEGOZI DI GIOCATTOLI… ALLE ELEZIONI DI MIDTERM GLI ELETTORI MANDERANNO UN MESSAGGIO AL “COATTO DELLA CASA BIANCA”
La chat delle mamme dell’Upper West Side è in subbuglio. Questa volta non si tratta di
gossip su una qualche insegnante o su una qualche babysitter.
«Sono andata da Target e non potevo credere ai miei occhi», afferma una delle partecipanti, tutte signore che sulla carta sarebbero classe media tendenza benestante, se non fosse che ormai per vivere a Manhattan uno stipendio a sei zeri ti regala poco più della sopravvivenza.
Una delle città più care d’America, una di quelle con il mercato immobiliare più folle e proibitivo – l’affitto medio per un appartamento con due stanze da letto ha sfondato i sei mila al mese – si sveglia oggi con un altro grattacapo: l’aumento dei prezzi dovuto alle tariffe volute da Donald Trump.
È un risveglio che riguarda tutti gli Stati Uniti e che sicuramente si farà sentire più duramente in quelli meno ricchi rispetto al privilegiato New York, ma fa impressione che lo si noti anche qui, in una città abituata a spendere e spandere, dove ormai per una cena per due in un ristorante medio non costa mai meno di 100 dollari se si beve vino e dove un frullato proteico ne costa almeno dodici
Una follia economica ormai documentata con ossessione anche su TikTok o su Instagram con il meme «tutte le volte che esco di casa non spendo mai meno di» che per New York City può variare dagli 80 ai 300 e passa dollari al giorno. È che nessuno rinuncia a niente: le banane, l’avocado, il caffè italiano, i mazzi di fiori da 15 dollari, anche i pomodori che non sanno di niente e il mango già tagliato a nove dollari a vasetto.
Per non parlare di H Mart – la catena di supermercati americana specializzata in cucina asiatica, in particolare coreana – o di 99 Ranch Market o dei tantissimi piccoli supermercati etnici e negozi di alimentari specializzati nella vendita di prodotti alimentari importati spesso a prezzi molto competitivi rispetto ad altre catene.
Una preoccupazione che era già cominciata lo scorso maggio quando Trump aveva annunciato la prima ondata di tariffe. «Abbiamo sempre lavorato per mantenere i nostri prezzi il più bassi possibile e non ci fermeremo», aveva dichiarato allora il portavoce di Walmart Joe Pennington a Usa Today, mentre Trump accusava Walmart di aver ingiustamente attribuito ai suoi dazi la causa degli aumenti.
Su Reddit intanto è iniziato un nuovo gioco: i dipendenti di Walmart che iniziano a condividere prove fotografiche. «Guardate il T.Rex», dice un utente sotto la fotografia di un dinosauro giocattolo di plastica. «Da 39,92 dollari il mese scorso a 55 oggi, un aumento di quasi 38%».
Se l’Asia piange – e con lei i consumatori di prodotti etnici, un settore che, secondo la società di ricerche di mercato IBISWorld, l’anno scorso ha fatturato 55,8 miliardi di dollari – l’Europa e gli
amanti dei prodotti europei come formaggio, olio d’oliva, prosciutto, non ridono, anzi.
La grande preoccupazione dei newyorkesi, grandi bevitori, è sul vino, un prodotto che nei ristoranti americani è già ricaricato abbondantemente e che rischia di arrivare a prezzi proibitivi: la maggior parte dei ristoranti vende bottiglie a un prezzo che varia da tre a quattro volte superiore a quello all’ingrosso, il doppio di quello che si paga in un negozio di alcolici.
«La compagnia per cui lavoro non appena Trump è stato eletto ha messo le mani avanti e ha comprato l’equivalente di un anno di inventario», racconta un’italiana di Manhattan che lavora per un importatore di vini.
Per ora l’offerta di vini non Usa è competitiva e c’è chi si sta spostando su quelli americani, ma anche qui ci saranno aumenti di prezzi. «No, io non rinuncerò al mio bicchiere di Chateau Peyredon Bordeaux Haut Medoc 2018» dice un cliente di Bin 71, un wine bar su Columbus Avenue. Ora costa 21 dollari, domani chissà. Come dice la saggia Fran Lebowitz: «Nessuno può permettersi di vivere a New York.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
L’UE: “BENE COSI”… ESULTANO GLI ATTIVISTI IN PIAZZA
Il Parlamento ucraino ha capovolto dopo appena 9 giorni la sua decisione, votando oggi all’unanimità una legge che ripristina l’indipendenza dei due principali organi anti-corruzione del Paese. Il testo è stato approvato in due letture ravvicinate con 331 voti a favore e nessuno contrario. Viene in tal modo ripristinata l’indipendenza dell’Ufficio nazionale anti-corruzione (Nabu) e del Procuratore speciale anti-corruzione (Sapo), che una legge passata lo scorso 22 luglio – su spinta dei parlamentari fedeli al presidente Volodymyr Zelensky – aveva di fatto smontato. Subito dopo l’adozione di quella legge i governi europei e la Commissione Ue avevano avvertito il governo ucraino che quella mossa metteva a rischio il processo di adesione dell’Ucraina all’Ue. Oltre agli appelli pubblici, Bruxelles aveva fatto sapere dietro le quinte a Kiev di essere pronta a tagliare parte dei fondi essenziali per il Paese se l’indipendenza degli organi anti-corruzione non fosse stata ripristinata. Aveva reagito con forza anche una parte di opinione pubblica del Paese, trainata dalle forze di opposizione e dalle associazioni anti-corruzione, tanto che per la prima volta dall’inizio della guerra le persone sono tornate in piazza per manifestare contro il governo.
Le reazioni dell’Ue e degli attivisti
«La Rada ha corretto il voto dannoso della scorsa settimana che minava l’indipendenza di Nabu e Sapo. La legge odierna ripristina le garanzie fondamentali, ma le criticità rimangono. L’Ue sostiene le richieste di riforma dei cittadini ucraini. Il
rispetto dei valori fondamentali e la lotta alla corruzione devono restare la priorità», ha scritto su X la Commissaria europea all’Allargamento Marta Kos. E in piazza i cittadini e attivisti di fronte al Parlamento di Kiev hanno accolto con un’ovazione il ripristino delle norme a tutela della lotta alla corruzione, una piaga storica che l’Ucraina si è impegnata negli ultimi anni a debellare.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
L’OBIETTIVO E’ QUELLO DI EVITARE UN NUOVO CASO AGNES, LA CONSIGLIERA VICINA A GIANNI LETTA CHE, SENZA IL CONTRIBUTO DEL CENTROSINISTRA, NON HA I NUMERI NECESSARI IN PARLAMENTO PER GUIDARE LA TV PUBBLICA
Nel giorno in cui Sergio Mattarella definisce «sconfortante» lo stallo in commissione di
Vigilanza sulla nomina del presidente
Rai, richiamando i partiti a uscire dall’impasse perché «la libertà vive del funzionamento delle istituzioni, non della loro paralisi», la maggioranza a trazione meloniana presenta la “sua” riforma della tv pubblica. Subito contestata dalla minoranza. E perciò pronta a trasformarsi nell’ennesimo muro contro muro.
Il testo base depositato ieri dal centrodestra sembra infatti studiato apposta per spuntare gli artigli alle opposizioni, evitare un nuovo caso Agnes (la consigliera di rito forzista che, senza il contributo del centrosinistra, non ha i numeri necessari in Parlamento per guidare l’azienda di Stato), scongiurare la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per il mancato adeguamento al Media Freedom Act, la direttiva europea che impone ai Paesi membri di liberare il servizio pubblico dalle influenze governative.
La proposta di legge prevede l’allungamento del mandato del cda da tre a cinque anni; l’elezione di sei membri (su sette, l’altro è il rappresentante dei dipendenti) nelle Camere a maggioranza assoluta, e pazienza se chi ha vinto le Politiche può in teoria “prenderseli” tutti; ma soprattutto l’abolizione del quorum qualificato dei due terzi per ratificare la nomina del presidente Rai nella Bicamerale di controllo. Soglia stabilita dall’attuale normativa per preservare il pluralismo e assicurare alla tv pubblica un vertice di garanzia, non espressione diretta delle forze di governo.
Se il testo della destra passasse, infatti, il presidente potrà essere incoronato in Vigilanza coi soli voti della maggioranza. Che in questo modo, avendo già l’amministratore delegato, si impossesserebbe dell’intera cloche di comando. Un’innovazione
voluta proprio per aggirare il blocco che da più di otto mesi tiene in ostaggio l’organismo parlamentare. Con la destra che, determinata a imporre Simona Agnes, diserta i lavori, impedendone il funzionamento.
«Vogliono i pieni poteri», l’attacco a testa bassa del capogruppo pd in commissione Stefano Graziano. «Una riforma con molte più ombre che luci», rincara la presidente grillina Barbara Floridia. «Un testo irricevibile, mira a un’occupazione politica, altro che indipendenza», la sintesi di tutti i partiti d’opposizione riuniti d’urgenza per analizzare la proposta della destra.
Polemica che il monito del Capo dello Stato tramuta presto in uno scambio reciproco di accuse e veleni. La renziana Maria Elena Boschi punta il dito contro una «maggioranza pigliatutto» che «pur di occupare ogni spazio del servizio pubblico presenta un testo che punta a occupare la Rai invece di riformarla. E lo fa dopo che da mesi tiene bloccata la Vigilanza».
Sconsolato l’ex presidente Roberto Zaccaria: «Non era mai successo, dai tempi dell’Eiar (1924), che la Rai si trovasse per quasi un anno senza presidente. La più importante azienda culturale del Paese è letteralmente senza volto».
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
L’UMILIANTE INTESA RAGGIUNTA DA URSULA VON DER LEYEN, SENZA QUEL DOCUMENTO, È CARTA STRACCIA… QUINDI CHE SUCCEDE? DAL DUE AGOSTO CI SAREBBERO DUE POSSIBILITÀ: RESTA IN VIGORE LA TARIFFA ATTUALE DEL 10%; OPPURE, COME LASCIA INTENDERE TRUMP, SI BALZA AL 30%
Il confronto sui dazi tra americani ed europei si sta ingarbugliando parecchio. Da Bruxelles si moltiplicano le indiscrezioni: le due parti potrebbero non farcela a sottoscrivere, entro domani, l’attesa «dichiarazione congiunta». Che cosa accadrebbe allora? Ieri Donald Trump ha scritto sulla sua piattaforma «Truth» che «la scadenza del primo agosto non sarà prorogata».
Non si capisce, però che cosa succederà in concreto. Trump aveva annunciato che, in assenza di accordo, a partire proprio da domani le dogane americane avrebbero applicato un dazio del 30% sulle merci europee. Stando alla logica politica, questo è lo scenario che ci aspetta, se non ci sarà un testo condiviso entro le prossime ventiquattro ore.
Altrimenti non avrebbe senso questa frenetica corsa contro il tempo per arrivare a firmare entro il primo giorno di agosto un documento condiviso. Ma il leader della Casa Bianca,
imprevedibile per definizione, potrebbe anche decidere di concedere una proroga: in fondo ha acquisito l’intesa di massima, anche se verbale, raggiunta domenica scorsa in Scozia, con Ursula von der Leyen.
L’incertezza è grande. E, di conseguenza, anche la confusione. Va ricordato che, in ogni caso, la «dichiarazione congiunta» non avrebbe alcun valore giuridico. Sarebbe, invece, la premessa necessaria per arrivare a un vero Trattato da sottoporre all’approvazione dei 27 Paesi ue e dell’Europarlamento.
Il dazio del 15% , quindi, sarà applicato solo alla fine di questo iter che potrebbe durare diversi mesi. Intanto se i tempi del negoziato sul testo politico dovessero allungarsi, a partire dal due agosto ci sarebbero due possibilità: resta in vigore la tariffa attuale del 10%; oppure, come lascia intendere Trump, si balza al 30%.
Dalla Commissione, però, fanno sapere che le trattative sono in corso e che «presto» ci sarà la sudata «Joint Declaration». Vedremo. Per il momento la sensazione è che le aree di conflitto sembrano allargarsi.
Il Segretario al Commercio Usa, Howard Lutnick, in un’intervista alla tv «Cnbc» ha detto che «la digital tax sarà sul tavolo», insieme con le norme che penalizzano le big tech. […] Le parole di Lutnick hanno spiazzato i tre negoziatori europei, il Commissario Maros Sefcovic, il suo capo di gabinetto, Bernd Biervert e il suo collega Bjoern Siebert,il più stretto collaboratore di von der Leyen.
Nei giorni scorsi i portavoce della Commissione avevano escluso che il tema del digitale fosse compreso nel confronto. L’ipotesi
di una «web tax» europea era stata accantonata, mentre le norme sull’antitrust digitale e sulla moderazione dei contenuti in rete venivano dichiarate intoccabili. Ma, evidentemente, per gli americani non è così. […] Infine c’è il brogliaccio delle esenzioni
Francia, Italia, Spagna, Portogallo chiedono l’esenzione totale, o in subordinata, uno sconto sostanzioso per vini e liquori. La lista delle richieste si allunga.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
IL RISULTATO? L’EXPORT EUROPEO INCHIODEREBBE, E CI SAREBBERO PERDITE PER CENTINAIA DI MILIARDI, ESPRESSI IN EURO, SUGLI OLTRE 1600 MILIARDI DI DEBITO PUBBLICO AMERICANO DETENUTO NEL VECCHIO CONTINENTE
La caduta più brusca del dollaro nell’ultimo mese si è vista quando un’anonima fonte della
Casa Bianca ha riferito di una discussione a cena di Donald Trump, il 15 luglio scorso. Si parlava dell’opportunità di licenziare Jay Powell, il presidente della Federal Reserve.
Quel momento ha messo a nudo come le tensioni attorno al governo del biglietto verde incrociano gli interessi europei, in due modi: influenzano il tasso di cambio dell’euro, con i suoi riflessi di competitività dell’export, ma contano anche per l’esposizione degli investitori europei per almeno 1.600 miliardi di dollari sul debito pubblico americano.
Perché all’accordo ineguale sul commercio tra Trump e Ursula von der Leyen l’euro ha risposto in questi giorni con una svalutazione di oltre il 2% sul dollaro — ieri sera era a 1,14, da 1,17 di venerdì — visto che ora molti si aspettano un’economia dell’area euro più debole e tagli dei tassi della Banca centrale europea in autunno. Ma nei prossimi mesi potrebbe andare
diversamente.
Il 15 luglio Trump si sarebbe detto intenzionato a cacciare Powell. Da un’amministrazione che distilla accuratamente le fughe di notizie, questa in particolare aveva innescato reazioni immediate: il dollaro era crollato quasi dell’uno per cento, nel giro di un’ora, sulla media delle valute più importanti. I rendimenti del debito americano a dieci anni erano saliti, gli indici azionari di Wall Street avevano subito perso terreno.
Sembrava un test per saggiare cosa succederebbe se Trump muovesse per prendere il controllo della Fed. Nessuno lo sa, anche perché non è mai accaduto in America che il presidente cacciasse il capo della banca centrale. La legge conferisce a quest’ultimo una totale indipendenza e Powell stesso ha ricordato più volte che Trump non può mandarlo via prima che il suo mandato scada a maggio prossimo.
Di certo il giorno dopo quella cena — saggiata la risposta dei mercati — Trump ha fatto sapere che la defenestrazione di Powell resterebbe «altamente improbabile». Ma tre giorni dopo il New York Times ha rivelato che il tycoon avrebbe già pronta una bozza della lettera di licenziamento.
La stessa visita di Trump ai cantieri della ristrutturazione di un palazzo della Fed ha l’aria di un pretesto per mettere Powell ancor più sotto pressione o trovare un appiglio in modo da poterlo licenziare per «giusta causa».
La posta in gioco naturalmente non sono i 2,5 miliardi di spese quel cantiere sulla Constitution Avenue a Washington. Sono i 37 mila miliardi del debito pubblico americano, con rinnovi e nuove emissioni di titoli per circa 10 mila miliardi all’anno: un livello
pari al 30% del prodotto interno lordo americano (l’incidenza più alta, in questo, fra le 38 democrazie avanzate dell’Ocse).
Quella è una fonte di tensioni anche perché, per ridurre il peso degli interessi, l’amministrazione Trump si sta muovendo come quella di Joe Biden: accorcia le scadenze medie dei titoli emessi, obbligandosi così a cercare sempre più spesso credito sul mercato (anche qui a livelli record nell’Ocse).
Per questo Trump pensa a prendere il controllo della Fed con un fedelissimo: vuole usare la banca centrale per gestire l’enorme debito pubblico — tagliando i tassi, creando inflazione e comprando titoli malgrado il carovita in aumento — come l’Italia anni ’70 o come fanno oggi certi autocrati di Paesi emergenti.
Qui questa vicenda si intreccia agli interessi europei. I mercati hanno mostrato che una Fed agli ordini di Trump porterebbe a un’ulteriore svalutazione del dollaro, frenando ancor più l’export europeo.
Quella svalutazione genererebbe anche perdite per centinaia di miliardi, espressi in euro, sugli oltre 1.600 miliardi di dollari di debito pubblico americano oggi detenuto nell’area euro. Per questo l’indipendenza della Fed conviene (molto) all’Europa.
(da Corriere della Sera)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
IL CDA RAI È SPACCATO, PERDERE IL MARCHIO SANREMO PER LA RAI SAREBBE UN AUTOGOL: C’È IL RISCHIO CHE GLI INSERZIONISTI POSSANO VEDERE UN EVENTUALE ‘PIANO B’ COME UN RIDIMENSIONAMENTO DI ASCOLTI E QUINDI DELLO SPAZIO PUBBLICITARIO ACQUISTATO, CON LA CONSEGUENZA CHE LE ENTRATE SAREBBERO INFERIORI RISPETTO AI 67 MILIONI RECORD REGISTRATI LO SCORSO ANNO
Il Festival della Canzone Italiana è un evento di grande rilievo culturale e mediatico. L’Ad Rai Giampaolo Rossi ieri sera l’ha ribadito aggiornando i consiglieri del cda di Viale Mazzini sulla trattativa in corso con il Comune di Sanremo finalizzata all’organizzazione dell’edizione 2026 del Festival.
La trattativa sta affrontando i tanti nodi legali e l’ultimatum concesso dalla Rai scade la prossima settimana, altrimenti si cambia sede.
Con gli studi Rai di Torino – già collaudati con l’Eurovision
Song Contest – sede favorita per organizzare l’evento. All’interno del cda, tuttavia, pur sperando che la trattativa vada a buon fine, si registra una spaccatura e sono diverse le posizioni sulla partecipazione al bando.
Si contesta soprattutto la decisione di parteciparvi una volta preso atto delle richieste elevate. È proprio questo il nodo principale della questione, perché dal Comune di Sanremo trapela irritazione per il fatto che se si partecipa a un bando significa accettarne le condizioni.
Questo è stato, secondo alcuni consiglieri, l’errore di Viale Mazzini. Un errore dovuto principalmente al timore che qualche altro competitor si potesse presentare. Ma senza nessun aderente al bando la trattativa sarebbe stata meno complicata.
Se per il sindaco di Sanremo, Alessandro Mager, l’esito fallimentare della trattativa metterebbe la sua poltrona fortemente a rischio con danni milionari per alberghieri, affittuari di case e commercianti, perdere Sanremo per la Rai sarebbe un vero autogol: per risparmiare rispetto ai costi delle scorse edizioni 3,5 milioni tra aumento del bando e percentuale su pubblicità eventi e gestione biglietti, c’è il rischio che gli inserzionisti potrebbero vedere un eventuale ‘piano b’ come un ridimensionamento di ascolti e quindi dello spazio pubblicitario acquistato, con la conseguenza che le entrate sarebbero inferiori rispetto ai 67 milioni record registrati lo scorso anno.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
LA ZONA È STATA PRESA D’ASSALTO DA VIAGGIATORI DOPO CHE UN’IMMAGINE DELLA CATENA MONTUOSA DELLE ODLE È FINITA IN UNA PUBBLICITÀ DELLA APPLE… I PROPRIETARI DEI TERRENI ESASPERATI: “NON SI PUÒ ANDARE AVANTI COSÌ, C’È SEMPRE PIÙ GENTE CHE CALPESTA I PRATI, SPORCA, ROVINA LE NOSTRE BAITE”
Discussioni di coppia: Paolo da Ivrea vorrebbe proseguire sul sentiero, anche pagando 5
euro: «Alla fine non è molto, e lo
trovo anche giusto, stiamo entrando a casa di altri». La fidanzata Andrea non è per nulla convinta. Mentre decidono sul da farsi, la fila avanza. È mezzogiorno, ora di punta, splende il sole sul Seceda, e il tornello lavora a pieno ritmo.
Qui a 2.500 metri, di fronte alla superba vista delle Odle, tra prati verdi e cieli azzurri, da qualche giorno è stato riattivato questo blocco di metallo che fa pensare più all’ingresso di una metropolitana. Qui adesso non si viene per la pace, ma per scattare una foto da esibire sui social.
«Lavoro quassù da 18 anni, in questi ultimi tempi il numero dei turisti è cresciuto in modo incredibile» scuote la testa Daniel, responsabile del ristorante all’arrivo della funivia. Boom post-Covid, ma soprattutto dopo che un’immagine di queste vette è stata scelta per una presentazione di Apple. Da quel momento non puoi dire di essere stato sulle Dolomiti se non posti un selfie proprio da questo punto.
«Arrivano molti arabi, e tantissimi asiatici. Anche in abito da sposa per fare un servizio fotografico» conferma Chiara Baù, uno dei quattro ranger voluti da quest’anno dal Consorzio Dolomites Val Gardena. Si sono trovati anche a spiegare che ci fa un tornello in mezzo ai monti
Era spuntato un mese fa dal nulla, sembrava una provocazione, e infatti è stato subito coperto. Poi una settimana fa in un solo giorno sono salite 8.000 persone, tre ore di fila per tornare a valle. «Non si può andare avanti così, c’è sempre più gente che calpesta i prati, sporca, rovina le nostre baite» protesta Georg Rabanser, ex campione di snowboard, ma soprattutto uno dei quattro proprietari dei terreni su cui passa il sentiero che porta
alla Forcella Pana, a strapiombo sulla val di Funes, uno degli scorci più amati su Instagram.
Così i padroni dei terreni hanno rimesso in funzione il tornello. «In queste settimane nessuno ci ha contattato, nessun politico è venuto qui a vedere come stanno le cose — aggiunge Rabanser —. In tutto il mondo si paga, a noi invece chiedono soltanto di pulire».
Il presidente della Provincia, Arno Kompatscher, ha ribadito che l’iniziativa «non è legittima perché avrebbe bisogno di un’autorizzazione essendo in una zona protetta». E ha invitato il sindaco di Santa Cristina a intervenire; il quale però ha ribattuto che, proprio perché è un’area tutelata, spetta alla Provincia farlo. Risultato: stallo totale, fissata una riunione per l’8 agosto, chissà se decisiva
«Dal canto nostro abbiamo chiesto tutti i pareri legali, e siamo a posto pure con l’Agenzia delle Entrate» si mostra sicuro Rabanser. «È una questione delicata, va capito come intervenire — ammette Christoph Senoner, sindaco di Santa Cristina —. Anche perché non siamo di fronte a una limitazione del transito, c’è vicino un sentiero alternativo che è solo un po’ più lungo».
È un altro dei paradossi di questa storia. Si pagano 5 euro per percorrere non più di 300 metri e raggiungere un punto, per carità suggestivo, ma non di più di tanti altri; e in più c’è un modo per arrivarci gratis, ma pochi lo sanno. Per questo il Consorzio Dolomites Val Gardena presto installerà un cartello con le indicazioni.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2025 Riccardo Fucile
“LA FRANCIA HA SEMPRE MANTENUTO UNA LINEA FERMA ED ESIGENTE, E CONTINUERÀ A FARLO” … IL “NON FINISCE QUI” SI RIFERISCE ALL’ATTUAZIONE DELL’ACCORDO, CHE ANCORA NON È DEFINITO NEI DETTAGLI E LASCIA SPAZIO A NEGOZIATI DELL’ULTIMA ORA, IN PARTICOLARE SU VINI E ALCOLICI… MACRON VUOLE UN “RE-EQUILIBRIO” NEI SERVIZI DIGITALI AMERICANI, RISPARMIATI NELLE PRIME BOZZE DI ACCORDO
«Non finisce qui», ha detto ieri Emmanuel Macron durante il Consiglio dei ministri, l’ultimo prima della pausa estiva e il primo dopo l’accordo sui dazi trovato domenica sera da Ursula von der Leyen e Donald Trump. (Sul luogo dell’incontro ha avuto da ridire la portavoce del governo, Sophie Primas: «Avremmo preferito che l’intesa venisse raggiunta in un
contesto ufficiale e non in un club privato di golf in Scozia»).
Al di là della forma, è il contenuto politico che non piace a Macron: «Per essere liberi bisogna incutere timore. E noi non siamo stati abbastanza temuti». Da settimane il presidente francese predica la nascita di una «Europa potenza» che possa imporsi grazie alla fermezza, e da anni invoca un’autonomia strategica della Ue di fronte al disinteresse se non l’ostilità degli Stati Uniti, per non parlare della minaccia militare della Russia e commerciale della Cina. Ma certo la presidente della Commissione von der Leyen non ha comunicato né potenza né fermezza, domenica sera, davanti allo show di Trump nel suo golf club di Turnberry.
«La Francia ha sempre mantenuto una linea ferma ed esigente, e continuerà a farlo. Non è la fine della storia», ha aggiunto Macron. Le sue dichiarazioni arrivano dopo tre giorni di eloquente silenzio, e sotto forma non di un intervento pubblico ma di frasi trapelate dalla riunione con i ministri. A esprimersi in via ufficiale era stato il giorno prima il premier François Bayrou, che aveva parlato di «giorno triste» per un’Europa «rassegnata alla sottomissione».
Macron vuole mostrarsi più battagliero del suo primo ministro e esorta la Commissione a ottenere «più esenzioni» e un «re-equilibrio» nei servizi digitali americani, largamente risparmiati nelle prime bozze di accordo. Il «non finisce qui» di Macron riguarda la fase cruciale dell’attuazione dell’accordo, che ancora non è definito nei dettagli e lascia quindi spazio a negoziati dell’ultima ora, in particolare quanto a vini e alcolici, settore nel quale la Francia è il primo esportatore europeo negli Usa (12
miliardi nel 2024, l’Italia è seconda con 6 miliardi)
Le prossime ore saranno cruciali per vedere se l’atteggiamento deciso, almeno a parole, della Francia riuscirà a strappare condizioni più vantaggiose rispetto all’intesa trovata da von der Leyen. Trump continua a usare i dazi doganali come strumento per rimpolpare le casse dello Stato e anche per distribuire premi o punizioni: ieri è toccato all’India venire penalizzata con una tariffa del 25 per cento sulle esportazioni negli Usa
(da “Corriere della Sera”)
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