Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
“DA GIOCO CHE ERA STA DIVENTANDO UN LAVORO. MA IL MIO COACH, IL MIO FISIOTERAPISTA E I MIEI GENITORI MI CONSENTONO DI RIMANERE TRANQUILLA” … “I MONDIALI DI TOKYO? ESSERE TRA LE PAPABILI DI CONVOCAZIONE MI FA CAPIRE DOVE SONO ARRIVATA. MA LA SCELTA SPETTERÀ AD ALTRI”… “AMMIRO EGONU E SYLLA”
La notte di sonno non è stata delle abituali 10 ore: emozione e adrenalina sono state difficili da smaltire. “Avrei voluto dormire
di più – racconta Kelly Doualla –: noi velocisti siamo dei pigroni. A me, per esempio, il riposino post scuola e pre allenamento, non lo toglie nessuno. Ma stavolta non ce l’ho fatta”. Del resto, anche il “day after” è stato intenso, tra la batteria della 4×100 (sofferto accesso alla finale) e la premiazione, con l’inno cantato a squarciagola.
Kelly, che effetto fa essere campionessa europea dei 100 under 20 a 15 anni?
“Non penso molto alla mia età, resto concentrata su quello che devo fare e, grazie anche a chi mi sta intorno, mi pare tutto abbastanza normale”.
Com’era l’hamburger col quale ha festeggiato l’oro?
“Piuttosto buono, lo ammetto. Meno male che il fast food di Tampere è aperto 24 ore. Se no lo avrei fatto riaprire…”.
Riesce a rivivere i momenti precedenti la gara?
“In call-room ho controllato l’ansia sorridendo e canticchiando brani di afrobeat francese, da Aya Nakamura in giù. Per arrivare alla partenza abbiamo fatto una scala e percorso la curva dei 200. Poi la prova blocchi e il gran tifo dei miei compagni in sottofondo”
Si aspettava di migliorare il suo recente 11”21?
“Sono rimasta a un centesimo: considerando le condizioni meteo, col termometro sotto i 20 gradi in assenza di vento, contava solo il piazzamento”.
Cos’è, oggi, l’atletica per lei?
“Vivo una fase di passaggio: capisco che da gioco che era sta diventando un lavoro. Ma il mio coach Walter Monti, il mio fisioterapista Marco Tabone e i miei genitori mi consentono di rimanere tranquilla. Il resto, brutte cose in testa, lo tengo lontano”.
Cosa sono le “cose brutte”?
“Anch’io vengo attaccata perché sono nera, ma certe cose mi scivolano via. Le evito, non le leggo. Ecco perché ammiro le pallavoliste Egonu e Sylla: sanno come respingere qualsiasi critica”.
Quali sono o sono stati i suoi giochi?
“Mi diverto tanto a far la lotta con mio fratello… Non sono mai stata da bambole, ma ho tanti pupazzi e con alcuni ci dormo”.
Dibattito aperto: andrebbe ai Mondiali di Tokyo con la 4×100?
“Essere tra le papabili di convocazione mi fa capire dove sono arrivata. Ma la scelta spetterà ad altri: mi andrà bene comunque. E capisco che quello può essere un contesto sin troppo grande”.
Si dedicherà anche al lungo?
“Mi diverte: vorrei incastrarlo presto tra le prove di velocità”.
(da Gazzetta dello Sport)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
TRA LA DISCORDANZA DELLE DICHIARAZIONI UFFICIALI E LA TRACCIABILITÀ REALE DELLE FORNITURE BELLICHE A NETANYAHU, C’È DI MEZZO LO SPORT PREFERITO DEL GOVERNO MELONI: IL SALTO TRIPLO DELLA VERITÀ
Le tre nazioni che forniscono quasi tutte le armi all’esercito di Netanyahu sono nell’ordine
gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia. Dopo il via libera ufficiale del governo israeliano all’occupazione definitiva della Striscia, anche a Berlino sono stati costretti a prendere atto che l’ultima linea rossa era superata.
Riporta “il Manifesto”: “Stop all’invio di armi made in Germany che potrebbero essere utilizzate nelle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza”. Con una formula ultra-democristiana, dopo aver accusato Hamas, chiesto la liberazione degli ostaggi e ribadito il pieno diritto di Tel Aviv di “difendersi dal terrorismo”, il cancelliere Friedrich Merz annuncia la parziale interruzione del sostegno militare allo stato ebraico’’.
“Una decisione clamorosa: solo nell’ottobre 2024, anzi, la coalizione guidata da Olaf Scholz aveva ampliato la lista di autorizzazioni per l’export di materiale bellico verso Israele nonostante l’evidenza del loro impiego criminale fosse già certificato dalle immagini comprovanti l’uso di lanciarazzi tedeschi contro edifici civili”.
Tolto di mezzo il legame, burrascoso ma inestricabile, tra Trump e Netanyahu, ora al secondo posto dei supporter militare di Israele resterebbe l’Italia. La coniugazione al condizionale è d’obbligo con il governo camaleonte incarnato da Giorgia Meloni. Quella signorina alla Fiamma che vuole mantenere un rapporto con l’Unione Europea, ma nello stesso tempo, temendo di essere scavalcata a destra da Salvini, sbatte gli occhioni al dazista Trump. La stessa che implora la fine della tragedia di Gaza ma continua a fornire armi a Israele.
L’ha ammesso il ministro della Difesa, Guido Crosetto, rispondendo a una domanda sull’import-export e militare italiano, da e verso Israele, durante il Question time alla Camera, ha dichiarato: “Mi ritengo amico di Israele e Palestina e distinguo Israele dalle scelte del governo attuale che, ribadisco, non condivido. Il nostro governo rispetta con rigore la normativa nazionale e internazionale in materia di importazione ed esportazione di armamenti, nello specifico la legge 185″.
“Le caratteristiche dell’intervento israeliano su Gaza dopo il 7 ottobre 2023 e le successive operazioni in Libano – ha proseguito Crosetto – ha indotto il governo italiano a sospendere le autorizzazioni di esportazione ai sensi della legge 185. Abbiamo adottato un approccio cauto, equilibrato e particolarmente restrittivo. Per quanto riguarda le esportazioni autorizzate prima dell’intervento israeliano, è stata effettuata una valutazione circostanziale, caso per caso”.
Tale “approccio cauto, equilibrato e particolarmente restrittivo” è una supercazzola di paraculismo che permette tuttora all’Italia di Giorgia Meloni l’esportazione verso Tel Aviv sistemi d’arma e tecnologie militari. La Statista dei Due Mondi è fatta così: ammette che i metodi di quel birbone di “Bibi” applicati al popolo palestinese appartengono alla categoria genocidio (“La
pace non si fa così”), e quando la incalzano sull’invio di armi a Israele, la premier digrignando i denti replica: “Ma quali armi, studi“. Da una parte.
Dall’altra, dopo che, ottobre 2024, l’esercito di Tel Aviv prese di mira tre basi dei caschi blu dell’Unifil, due delle quali italiane, schierate nel sud del Libano, Macron e Sanchez chiesero all’Ue di “Fermare la cessione di armi a Israele utilizzate a Gaza e in Libano” perché “è l’unica leva per porre fine ai conflitti”.
“Ma nel comunicato licenziato da Bruxelles non c’è però quel che sta più a cuore a Macron e Sánchez: fermare le forniture di armi”, riportò “Repubblica”, “Meloni non ha voluto che il passaggio fosse esplicitato per evitare lo strappo definitivo con il premier israeliano. Del resto è il ragionamento ribadito a Palazzo Chigi – l’Italia ha già detto che dal 7 ottobre 2023 non dà più armamenti e munizioni”.
Insomma, il solito fumoso e camaleontico “chiagne e fotte” all’italiana col risultato che, a partire dal Parlamento, “nessuno è più in grado di sapere con esattezza cosa il Governo Meloni vende o acquista da Israele, nonostante la legge 185/1990 sull’esportazione di armamenti nasca proprio per garantire, e garantirci, tale diritto”, puntualizza l’inviato di “Presa diretta” Marcello Brecciaroli.
Secondo l’inchiesta del programma di Rai3 di Riccardo Iacona, “la risposta va però cercata dietro una cortina di accordi di segretezza e riguarda la cooperazione tra industrie militari, aziende di cyber security e cyber intelligence e collaborazioni scientifiche. Settori in cui Israele è leader mondiale e con cui l’Italia, negli anni, ha instaurato rapporti così fitti da sfiorare la dipendenza strategica’’
“Secondo l’ultima relazione annuale al Parlamento sul commercio di armi, l’Italia acquista da Israele il 20% di tutte le sue importazioni militari. Compriamo di più solo dagli Stati Uniti, il 26% del totale. Un fiume di soldi che il nostro Paese riversa direttamente nell’apparato militare-industriale israeliano”, continua Brecciaroli.
“Non a caso, dopo la strage di Hamas del 7 ottobre 2023, il ministro Antonio Tajani e il ministro Guido Crosetto, cercando di placare le critiche alla collaborazione tra l’Italia e un Israele pronto alla guerra totale, hanno garantito che l’Italia non avrebbe approvato nuove autorizzazioni all’esportazione di armi verso Tel Aviv, ma non hanno mai detto una parola sulle importazioni…Purtroppo, la relazione annuale al Parlamento è diventata sempre più fumosa e indecifrabile e non sappiamo cosa ci sia in dettaglio dietro quel 20%”.
Un’altra inchiesta del “Fatto quotidiano”, dall’elaborazione di Archivio Disarmo, riporta che l’Italia continua a esportare armi e tecnologie militari verso Israele “per oltre 34 milioni di euro, tra cui aeromobili, droni, radar e componenti per uso bellico, di cui ben 31 milioni di euro risultano inseriti in sottocategorie generiche e non specificate”.
Tra la discordanza delle dichiarazioni ufficiali e la tracciabilità reale delle forniture belliche a Israele, c’è di mezzo lo sport preferito del governo Meloni: il salto triplo della verità
(da Dagoreport)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
E NON E’ SOLO UNA QUESTIONE DI PREZZI, CHE COMUNQUE SONO ALLE STELLE: SI RITROVANO IN DIFFICOLTA’ ANCHE GLI STABILIMENTI “LOW COST”. A JESOLO, DOVE UN LETTINO (CON SPRITZ OMAGGIO) COSTA 16 EURO, UN QUINTO DEI POSTI È LIBERO … ORA CHE GLI ITALIANI STANNO SCOPRENDO DI AVERE LE PEZZE AL CULO E IL PORTAFOGLI VUOTO, NONOSTANTE LA PROPAGANDA RAI-MEDIASET RINCOGLIONISCA GLI ELETTORI DI ILLUSIONI, COME CAMBIERA’ IL CONSENSO DEGLI ITALIANI?
L’ultima spiaggia? Lettino e ombrellone in offerta speciale a Ferragosto. Altro che overtourism: per la prima volta, dopo l’incubo mucillagine, Jesolo fa i conti con l’eclissi del villeggiante. Anche il mare popolare, simbolo storico dell’estate adriatica nel Nordest, soffre il congedo dall’età dell’oro. […] «Anni di criminalizzazione del turista mordi e fuggi — sospira Daniel Gerotto, bagnino alla Nemo Beach — e adesso avercene».
Inizio agosto marino da paura: 14 chilometri di sabbia e di sole da riempire e invece niente, migliaia di sdraio e di ombrelloni chiusi pure a mezzogiorno. «Ricordo le tedesche — dice Alico Boschiero, direttore dell’Arenile dei Pioppi — tenaci come in fabbrica. Per due settimane si stendevano alle 8 e alle 18 erano ancora immobili sul lettino, entusiaste e paonazze. O le famiglie italiane: aprivano casa in giugno e sgonfiavano il canotto con l’inizio delle scuole. In aprile prevedevo al centesimo il bilancio stagionale dei miei mille ombrelloni. Adesso, ogni giorno, una scommessa».
Rispetto all’anno scorso i parziali delle presenze sono da lacrima: meno 19% in maggio, da meno 5 a meno 7 tra giugno e luglio, meno 10% da inizio agosto. Nebbia fitta perfino sulla sacra spiaggia ferragostana: libero, certificano le prenotazioni, un
ombrellone su cinque a Jesolo Lido, uno ogni tre lungo il litorale tra Caorle e Rosolina. Incolpevole lo spaventa-turisti del caro lettino.
«Nessun aumento — dice Paolo De Favero, direttore dei bagni Mascagni — o ritocchi del 3-5%. Un giorno costa da 16 a 27 euro in settimana, da 32 a 50 nel weekend. Il problema è che germanici e italiani sembrano scomparsi. Quando riappaiono, arrivano e ripartono in giornata: scelgono la spiaggia libera, si portano il pranzo al sacco, rinunciano a cocco e cornetto».
«Se alla domenica attacchi uno o due giorni feriali — dice il bagnino Davide Pasqual — risparmi il 15%. Se prendi il lettino tutta la settimana tagli il 30%, spritz, doccia e bagno compresi. Risultato? Zero. La gente non c’è. Quella che c’è arriva tardi, cammina sulla battigia, fa il bagno e va in bici: la giornata spiaggiati a rosolare faccia e schiena è finita».
Numeri senza precedenti per Jesolo. Secondo sabato d’agosto, ore 11.30: 40mila ombrelloni disponibili, 12.455 ancora liberi e chiusi. Già riservati per il pontone di Ferragosto? Ventiseimila. Un anno fa, stesso periodo, si era in overbooking. «Il meteo sullo smartphone — dice Carla Costantini, infermiera di Padova cresciuta al Lido — segna il prima e il dopo del last minute. Aggrapparsi alla pioggia impedisce di guardare in faccia la
realtà: le economie europee sono in crisi, le guerre pesano, le persone perdono il lavoro, le pensioni calano e il costo della vita esplode. Jesolo resta una spiaggia per tutti, ma anche il low cost diventa un lusso». Conseguenza: seconde case chiuse anche nel cuore dell’estate, habitué del Nordest irrintracciabili, hotel occupati al 70% e migliaia di B&B in saldo.
«Le abitudini — dice Roberta Nesto, presidente della Conferenza dei sindaci della Costa veneta — sono cambiate. Si risparmia su tutto, il lusso è stare via, il resto è troppo. Addio quindici giorni fermi, meglio sei weekend quando iniziano le offerte. Lettino e ombrellone non sono più la priorità. Si spende piuttosto per bici e pedalò, per visitare una città vicina o una cantina, o per il parco acquatico».
Vacanze e turismo, il Pd critica la Rai e il Tg1.
I componenti dem della Vigilanza Rai affermano in una nota: “Ancora una volta la Rai, attraverso il Tg1, sceglie di dipingere un Paese che non c’è. Nel servizio sul turismo, la narrazione è quella di un’estate da record, con agosto destinato a “fare il pieno” e un settore in salute. La realtà, invece, racconta altro. Sempre più italiani rinunciano alle vacanze che sono diventate sempre più difficili da fare. Il potere d’acquisto è crollato: per molti, anche un ombrellone in spiaggia è diventato un lusso”
“Secondo il sindacato balneari – prosegue una nota – gli ombrelloni occupati sono il 15% in meno rispetto allo scorso anno. Gli albergatori si aspettano un calo di presenze, mentre Altroconsumo segnala che dal 2020 i prezzi delle strutture ricettive sono aumentati del 34%. I salari, invece, scendono: -7,5% rispetto al 2021 (dati Ocse). Lo ha ammesso persino il presidente di Federalberghi, ricordando che “il turismo è legato alle buste paga”. E intanto i lavoratori del settore continuano a vivere nella precarietà, come dimostra lo sciopero dei bagnini a Rimini per stipendi troppo bassi”.
Secondo il Pd, “la crisi è reale e riguarda centinaia di migliaia di famiglie, ma il servizio pubblico televisivo continua a edulcorare la situazione, prestando così la propria linea editoriale alla volontà del governo di mettere la mordacchia al dissenso e impedire un dibattito pubblico libero e pluralista”.
La nota aggiunge: “Chiediamo una Rai realmente indipendente, che racconti il Paese per com’è e non per come il governo vuole farlo apparire. Salari, inflazione, precarietà e diritto alle vacanze non sono dettagli: sono la fotografia di un’Italia in difficoltà e meritano di stare al centro dell’informazione pubblica”.
(da Dagoreport)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
INTERVISTA A LORENZO KANNEL, DOCENTE DI STORIA CONTEMPORANEA ALL’UNIVERSITA’ DI TORINO
Lorenzo Kamel è professore di Storia Internazionale all’Università di Torino e insegna
Storia del Mediterraneo alla Luiss di Roma e da anni è uno dei più noti e stimati studiosi della questione iraelo-palestinese. Il suo ultimo libro, pubblicato d Einaudi, risponde a 37 domande sul conflitto tra Israele e Palestina, ma non pensate a un instant book. Il libro di Kamel affronta alcune questioni nevralgiche e lo fa dall’alto di anni e anni di studi, ma soprattutto senza rinunciare al metodo storico e alle fonti, come specifica lui stesso nell’introduzione in cui spiega perché ha detto sì alla proposta dell’editore pur essendo scettico su questa tipologia di contenuti. Il suo Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, inoltre, è un classico per chi voglia approcciare alla questione e per questo motivo
abbiamo deciso di aggiungere a quelle a cui risponde nel libro qualche domanda sia sull’attualità (come la decisione di Netanyahu di occupare Gaza) che sulla Storia.
Cosa significa ciò che ha deciso il governo israeliano?
Il “controllo temporaneo” della striscia di Gaza deciso dal governo israeliano ricorda il “controllo temporaneo” della Cisgiordania. Nel 1967 le autorità israeliane chiarirono che l’occupazione era “temporanea” e, per i 58 anni successivi, hanno agito come se lo fosse. Anche la “Legge sulle proprietà degli assenti”, approvata dalla Knesset nel 1950, aveva in teoria un carattere “temporaneo”. Il “controllo temporaneo” di Gaza è propedeutico all’implementazione di alcuni punti già contenuti nel “Piano di soggiogamento” presentato nel 2017 dall’attuale ministro Bezalel Smotrich: un piano finalizzato, in primo luogo, all’espulsione di massa dei palestinesi. Anche se Hamas lasciasse ora Gaza—in linea con il piano egiziano rifiutato da Netanyahu—e gli ostaggi venissero rilasciati oggi, il primo ministro israeliano ha chiarito in maniera ufficiale che le espulsioni di massa sono la “precondizione per la fine della guerra”.
Alcuni sembrano giustificare la condizione vissuta dai palestinesi. Come lo spiega?
Si parla di frequente, giustamente, di “diritto all’autodifesa”. Ma solo per una parte: la potenza occupante. Viene sovente sottolineato che alcune fazioni palestinesi “minacciano di cancellare Israele”, ma chi lo fa non sembra mostrare lo stesso disagio se ciò accade—a parti inverse—ai più alti livelli politici e, per limitarsi a un esempio, quando i soldati israeliani cantano “non ci sono civili innocenti a Gaza”. Chi è mosso da forme più o meno velate di odio verso i palestinesi si abbevera di questo: la normalizzazione del diritto di opprimere e dei doppi standard. Le persone integre e coerenti, al contrario, si oppongono a tutti gli estremismi e i fanatismi con uguale determinazione, impegnandosi a trovare un messaggio-ponte che permetta a questi due popoli di vivere fianco a fianco sulla stessa terra.
L’odio verso “gli altri” è rintracciabile in entrambi i popoli?
La negazione e la disumanizzazione degli “altri” è ben visibile tanto tra i palestinesi quanto tra gli israeliani. La pluridecennale presenza di un esercito occupante e di milioni di civili sotto occupazione militare è invece una condizione vissuta, rispettivamente, solo da una delle due parti in causa.
La strategia del governo israeliano risulterà vincente?
Si può e si deve combattere il terrorismo in ogni sua forma e manifestazione. Ma non sarà un’invasione militare e dei bombardamenti, peraltro in larghissima parte su bambini e civili inermi, a eliminare il concetto di resistenza violenta all’occupazione, all’oppressione strutturale, alla sigillatura della striscia di Gaza e alla perdurante negazione dell’autodeterminazione di uno di questi due popoli. Mi lasci aggiungere che non esiste, né esisteva, alcun rischio di cancellazione di Israele, una potenza nucleare, l’unica nella regione mediorientale, sostenuta da quasi tutto l’Occidente. Per converso, l’obliterazione e la “conversione messianica” dei pezzi di terra che restano, o restavano, in mano ai palestinesi non rappresentano un rischio, bensì una tangibile realtà in atto da molto tempo.
Hamas definisce la scelta del governo israeliano “un crimine di guerra”. Quali sono le principali responsabilità di Hamas, oltre all’attacco del 7 ottobre?
Hamas non è nelle condizioni di impartire lezioni a nessuno. Il fallimento della sua leadership è sotto gli occhi di tutti, palestinesi in primis. I crimini del 7 ottobre – compreso il rapimento di 250 persone, tra cui alcuni neonati e bambini – rappresentano il punto più alto di un epocale fallimento, morale e politico. Ciò premesso, il 51% della popolazione della striscia di Gaza ha meno di 18 anni: quando Hamas vinse le elezioni, nel 2006, più della metà degli abitanti non era neanche nata. In quelle elezioni Hamas prese il 45% dei voti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza.
Come ci riuscì?
Ci riuscì, in primo luogo, perché si presentò come l’alternativa ad al-Fatah, ritenuta, non a torto, profondamente corrotta. Inoltre, tra la fine di settembre e il 6 ottobre 2023, un sondaggio condotto da Arab Barometer in Cisgiordania e Gaza mostrava che solo il 29% degli abitanti della striscia di Gaza sosteneva Hamas. La larga maggioranza degli interpellati criticava in modo netto la leadership inaffidabile e le condizioni di povertà dovute anche alle politiche di Hamas. Non solo: una maggioranza altrettanto ampia si era espressa a favore dell’autodeterminazione di entrambi i popoli e contro le ideologie promosse da Hamas.
Quali sono le origini di Hamas?
Servirebbe molto più spazio. Qui basti accennare che Hamas è nata nel 1987, 20 anni dopo l’inizio dell’occupazione israeliana di Gaza. Nel 1948 quelli che sarebbero divenuti i suoi tre principali fondatori erano dei bambini, compresi tra gli 1 e i 12 anni, appartenenti a famiglie brutalizzate e poi deportate da città dell’odierno Israele verso la cosiddetta striscia di Gaza. Giusto e
sacrosanto condannare i crimini Hamas, meno corretto è pensare che venga da Marte o che sia un prodotto intrinseco della “mentalità palestinese”.
Se oggi venissero fatte delle elezioni in Palestina, chi vincerebbe?
È difficile dirlo e, in una tale devastazione, organizzare delle elezioni, o condurre dei sondaggi, è assai arduo e poco attendibile. Voglio però ricordare che l’ultima volta che i palestinesi erano vicini alle elezioni nazionali, nel 2021, Netanyahu arrestò i candidati in Cisgiordania e inviò il suo capo dello Shin Bet per fare pressioni su Abu Mazen affinché le annullasse. Era lo specchio di una vecchia strategia articolata in tre elementi: 1. Silurare ogni possibilità di accordo 2. Sostenere gli elementi più estremisti. 3. Minare le condizioni affinché possa diventare necessario fornire concessioni al tuo nemico.
Qual è condizione dei palestinesi in Cisgiordania?
La Cisgiordania rappresenta l’unica area al mondo in cui milioni di civili sono soggetti a tribunali militari da oltre 50 anni: stando a fonti ufficiali israeliane, il tasso di condanne per i palestinesi in questi tribunali è pari al 99,74 percento. Secondo il diritto internazionale, la facoltà di perseguire civili in tribunali militari può essere contemplata solo ed esclusivamente su base
temporanea. Sempre in Cisgiordania, i giovani palestinesi, compresi quanti hanno tra i 12 e i 15 anni di età, vengono processati in un tribunale militare minorile, con lo stesso personale e le medesime stanze utilizzate per gli adulti: si tratta dell’unico “tribunale militare minorile” al mondo.
Dove finiscono gli aiuti internazionali destinati ai palestinesi?
La Corte internazionale di giustizia (CIG) ha sottolineato, in un parere consultivo reso pubblico in data 19 luglio 2024, che l’occupazione del territorio palestinese – Cisgiordania con Gerusalemme est e Gaza – è illegale e deve immediatamente cessare, sottolineando altresì che le autorità israeliane discriminano i palestinesi – sottraendo illegalmente le loro risorse naturali – e violano l’art. 3 della convenzione contro le discriminazioni razziali, che richiama l’apartheid, un termine esplicitamente usato dalla Corte.
Ha inoltre chiarito che ai palestinesi spettano restituzioni, risarcimenti e compensazioni per i 57 anni di occupazione illegale. Come documentato dalla ong israeliana B’Tselem, circa “il 94%” dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania è trasportato in Israele. A questo si aggiunga che, nelle parole dell’economista israeliano Shir Hever, – il quale ha scomposto le cifre riguardanti aiuti umanitari, aiuti
dall’estero e costi dell’occupazione – “almeno il 72% degli aiuti internazionali” destinati ai palestinesi finisce nell’economia israeliana. Il contesto o vale sempre, o non vale mai.
Cosa intende?
Se per discutere di ciò che è avvenuto nella striscia di Gaza dall’8 ottobre 2023 in poi si deve al contempo necessariamente parlare dei crimini compiuti da Hamas il 7 ottobre, ne deve conseguire che per discutere dei crimini del 7 ottobre sia necessario al contempo parlare del contesto vissuto dalla “controparte”. Ad esempio, della pluridecennale occupazione dei territori palestinesi, del fatto che tra il 10 gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 sono stati uccisi 6407 palestinesi e 308 israeliani, delle migliaia di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane senza accuse né processi, del “pogrom di Huwara” del febbraio 2023, oppure, tra molto altro, dei dati ufficiali forniti dall’Unicef, che in data 18 settembre 2023 sottolineava che i primi 9 mesi dello scorso anno erano stati quelli con il maggior numero di bambini palestinesi uccisi nella Cisgiordania occupata, quantomeno da quando l’Unicef stessa ha iniziato a registrare questo tipo di dati. Questo è ciò a cui mi riferisco quando dico che il contesto o vale sempre – e penso sia l’opzione auspicabile – o non vale mai. Studiarlo non deve
essere inteso come un modo per condonare i crimini compiuti dai palestinesi o dagli israeliani, bensì come uno strumento per andare alle radici delle questioni e fare luce sul contesto che ancora oggi fa loro da sfondo.
Tornando al presente, Netanyahu ha sostenuto che, una volta occupata l’intera striscia di Gaza, Israele cederà il controllo a “forze arabe”. Che ruolo potrebbe avere un Paese come l’Egitto?
Dobbiamo distinguere il regime egiziano, che rappresenta poco più di sé stesso, dal popolo egiziano. L’Egitto, che dal 1979 è il secondo maggiore beneficiario dei finanziamenti militari esteri americani, è governato da uno dei regimi più brutali della regione. Ciononostante, viene percepito da molti paesi occidentali come uno strumento utile per mantenere “la stabilità della regione”. Il popolo egiziano rappresenta una risorsa in questo conflitto, ma non può esprimere né plasmare alcuna soluzione politica. Gli Stati Uniti hanno notevolmente accelerato le vendite di armi all’Egitto negli ultimi due anni e non c’è alcuna possibilità che Il Cairo possa avere un ruolo significativo finché rimarrà pienamente dipendente da attori esterni, e potrà essere ricattato da essi.
Come veniva percepita dai palestinesi l’amministrazione egiziana della Striscia di Gaza dal 1948 al 1967?
Circa mille anni fa il geografo Al–Muqaddasi visitò Gaza e ne descrisse la bellezza. Durante uno dei suoi viaggi gli fu chiesto se fosse egiziano, e lui rispose: “No, sono palestinese”. Questa fonte primaria, tra molte altre, ci ricorda che i palestinesi non sono solo “arabi”, così come i sudafricani, gli scozzesi, gli statunitensi e i neozelandesi non sono semplicemente “inglesi”, o “angli”. Non sorprende quindi che durante l’amministrazione egiziana della striscia di Gaza i palestinesi percepissero tale presenza come un’inaccettabile occupazione della loro terra. A maggior ragione se si considera che le autorità egiziane dell’epoca impedirono ai palestinesi di acquisire la cittadinanza egiziana e li privarono dei loro diritti fondamentali. I palestinesi sapevano che le autorità israeliane erano responsabili per le violenze da loro subite nel 1948, ma erano altrettanto consapevoli che l’Egitto non rappresentava una soluzione: sapevano che per essere liberi dovevano essere sovrani sulla loro terra.
Pochi giorni fa il ministro Abodi, parlando della partita Italia–Israele del prossimo 14 ottobre, ha sostenuto che “a differenza della Russia, Israele è un Paese aggredito”. Cosa ne pensa?
Non entro nella polemica. Mi limito a far presente che servono competenze, anche linguistiche e di carattere storico e politico,
per discutere di questi temi. Quando la Russia ha occupato la Crimea, giustificando ciò anche con motivi legati alla propria sicurezza, l’Unione Europea ha subito imposto sanzioni. Nulla di ciò è avvenuto in relazione all’occupazione della Cisgiordania, o del Golan. Al contrario, l’Unione Europea è il primo partner commerciale dello Stato di Israele. Ricordo anche il contenuto della Risoluzione 476 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: “l’acquisizione di territorio con la forza è inammissibile […] la necessità impellente di porre fine alla prolungata occupazione dei territori arabi occupati da Israele nel 1967, compresa Gerusalemme”. Questa risoluzione, del 1980, era una semplice richiesta di ritiro, senza alcun riferimento a condizioni o precondizioni. Gli strumenti c’erano, ma molti hanno preferito non vedere.
Come si presentava Gaza uno o due secoli fa?
Nel 1859 il missionario americano William M. Thomson notò che “la prima volta che arrivai in questa regione fui piacevolmente sorpreso di non trovarmi dinnanzi a un paese piatto e arido. Il paese è incantevole e non meno fertile della parte migliore della valle del Mississipi”. Trent’anni più tardi il console britannico a Gerusalemme John Dickson si soffermò sull’area adiacente a Gaza, che secondo la sua testimonianza era
“soggetta a coltivazione, con raccolti di grano e orzo curati dagli arabi [crops of wheat and barley being raised by the Arabs]”. Abbiamo numerose fonti anche legate alle aree limitrofe. “Non saprei dire”, notò ad esempio un altro console britannico a Gerusalemme, James Finn, “dove in tutta la Terra Santa ho visto una così eccellente agricolutura di grano, olive e frutteti come qui ad Ashdod”, dove ancora nel 1945 la città era abitata da 4620 arabo-palestinesi e 290 ebrei. “I campi”, concluse Finn, “farebbero onore all’agricoltura inglese [The fields would do credit the English farming]”.
Un cessate il fuoco è ancora a portata di mano?
Un cessate il fuoco, senza un accordo, è qualcosa di molto lontano dalla pace. È una pausa, un conto alla rovescia per il round successivo, vicino o non lontano che sia. Mi lasci anche dire che non c’è una soluzione militare a un problema che è prima di tutto politico. La Storia, anche di quest’ultimo secolo, mostra numerosi esempi di guerre che si sono concluse senza vincitori né vinti: basterebbe citare la guerra di Russo-Giapponese del 1904, quella di Corea nel 1953, il Vietnam nel 1975, le Falkland nel 1982, la guerra Iran-Iraq del 1988, la Bosnia del 1995, solo per fare alcuni esempi. Il concetto di guerra totale, fino alla resa “senza condizioni”, è un prodotto
proprio della tragica storia delle guerre mondiali, quelle che hanno causato il maggior numero di morti nella storia dell’umanità. Qualche giorno fa rileggevo ciò che scrisse un reporter inviato in Medio Oriente, David Douglas Duncan, nel 1956: “È un’ironia ricorrente della storia – notò -, che le grandi guerre nascano in piccoli luoghi. La Prima Guerra Mondiale ha avuto la sua Sarajevo, la Seconda Guerra Mondiale la sua Danzica. La prossima guerra potrebbe benissimo partire da uno stretto lembo di pianura ondulata e deserto nudo nota come la striscia di Gaza”.
Un’ultima domanda sui civili uccisi a Gaza negli ultimi due anni. Quali sono i dati che ritiene più credibili?
L’Alto commissariato dell’ONU per i diritti umani ha documentato—”con 3 fonti indipendenti” per ciascuna vittima—che larga parte delle vittime palestinesi accertate si trovavano all’interno di “edifici residenziali” e che il 44% di esse erano bambini, per lo più tra “i 5 e i 9 anni di età”. Per rimanere ai primi 100 giorni post-7 ottobre, sono stati uccisi 250 palestinesi al giorno: più di qualsiasi altro conflitto di questo secolo: Iraq, Ucraina, Siria e Yemen compresi. Nonostante le chiare evidenze, alcuni hanno messo in dubbio la “strage di bambini” che sta avvenendo in quella che secondo l’Ufficio per gli affari
umanitari dell’Onu (OCHA) è l’area del mondo con “il maggior numero di bambini amputati nella storia moderna”: i “negatori della realtà” sono sempre esistiti e vanno considerati e trattati come tali. Altri hanno giustificato l’uccisione di decine di migliaia di civili – e, stando alle stime prodotte da 99 operatori statunitensi che hanno prestato servizio a Gaza, di un totale di oltre 118.000 persone – sostenendo che ciò è giustificabile alla luce del fatto che essi vengonousati come “scudi umani” da Hamas. Quest’ultimo ha introdotto un nuovo modello ibrido di guerra sotterranea-terrestre, con miliziani che si ritirano rapidamente sotto terra dopo aver ingaggiato le forze israeliane.
Tutto ciò giustifica tutte queste morti e questa distruzione?
La legge internazionale – così come il buon senso – non contempla il diritto di bombardare e radere al suolo interi quartieri ed edifici pieni di civili sulla base della presunta presenza di uno o più terroristi. A ciò si aggiunga che le autorità israeliane hanno nascosto armi e gruppi terroristici all’interno di ospedali e sinagoghe fin da prima della fondazione dello Stato: ciò viene ricordato anche in diverse placche commemorative esposte a Tel Aviv e altre città israeliane. Esistono inoltre decine di video a riprova del fatto che i palestinesi – compresi giovani uomini e bambini – sono sovente utilizzati dai soldati israeliani
come scudi umani durante le loro operazioni militari. Mi lasci anche accennare a un’altra cosa.
Prego.
Qualche anno fa ho lavorato per un periodo presso l’IDFA, l’Archivio dell’esercito israeliano a Tel-Hashomer, che è circondato sia da basi militari che da abitazioni civili. La narrazione degli scudi umani, sovente utilizzata per giustificare ciò che sta avvenendo, è utile a normalizzare dei crimini di guerra e a sdoganare un diffuso anti-palestinianismo. Come ho ricordato spesso in questi ultimi anni, l’antisemitismo e l’anti-palestinianismo rappresentano due facce della stessa medaglia: entrambi sono radicati in una profonda ignoranza e in un viscerale odio verso “l’altro”.
(da FanPage)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
L’ESPERTO DI NEGOZIATI RADCHENKO: “IL CREMLINO OTTIENE UNA LEGITTIMAZIONE INTERNAZIONALE, NON CONCEDERA’ NULLA E TRUMP DIRA’ CHE HA FATTO TUTTO IL POSSIBILE, LA GUERRA CONTINUERA’”
Il summit di Ferragosto è già una vittoria di Vladimir Putin: gli consente di legittimare la sua Russia come grande potenza alla pari degli Usa. È anche una lusinga nei confronti di Donald Trump che può quanto meno mostrare al mondo di essersi impegnato fino in fondo per la pace. Gli ostacoli prevalgono sulle opportunità.
L’avventura diplomatica in Alaska potrebbe rilevarsi una mossa di facciata: Mosca e Washington potranno dire di aver fatto il possibile per far tacere le armi e poi continuare a perseguire i propri interessi. Che comprendono una collaborazione pragmatica in vari ambiti. Sulla pelle degli ucraini?
Dito medio a Europa e Cpi
“Speriamo di no”, risponde a Fanpage.it Sergey Radchenko, storico, docente della Johns Hopkins e massimo esperto delle trattative Mosca-Kyiv. “Se Trump convincesse Putin a trovare un accordo per porre fine alla guerra garantendo la sopravvivenza di un’Ucraina indipendente, dovremmo rivedere ogni valutazione e applaudirlo”, continua Radchenko
“Al momento, credo però che Putin si stia approfittando in pieno
del presidente americano, che ritiene piuttosto stupido”. Il vertice con Trump è un riconoscimento importante per il capo del Cremlino.
“Dopo l’umiliazione internazionale, l’accusa di crimini di guerra e il mandato di arresto della Corte penale internazionale fa il dito medio all’Europa, a quei giudici e chi gli vuole male”. Se poi nel vertice Trump sottoscrivesse l’impegno a impedire l’entrata di Kyiv nella Nato, potrebbe vender la cosa ai russi come un vero trionfo.
Anche se l’esclusione dell’Ucraina dall’Alleanza è un punto acquisito di fatto da anni. “Putin probabilmente si sente in cima al mondo in questo momento. Pensa che la sua strategia abbia dato i migliori frutti. E, con qualche ragione, di aver dimostrato l’inconsistenza diplomatica dell’Europa”, nota l’accademico.
Lo stato d’animo del leader russo, insieme alla convinzione reiterata dagli uomini del Cremlino che la Russia stia vincendo la guerra e l’Ucraina sia vicina al crollo, non lascia ben sperare sulla sua volontà di fare concessioni in grado di portare a una soluzione politica sostenibile.
Ostacoli costituzionali
“Non vedo perché proprio ora Putin dovrebbe rinunciare ai suoi obiettivi di guerra che sono soprattutto la demilitarizzazione
dell’Ucraina e la sua trasformazione in una specie di stato vassallo, con la Russia a poter decidere anche di una parte della sua legislazione”, spiega Sergey Radchenko.
La cosa vale anche per i territori occupati, aggiunge. Anche se le questioni territoriali non sono le principali per la Russia, perché mai dovrebbe ritirare l’esercito da aree che controlla e da dove esercita la strategia di attrito e logoramento che, secondo i generali e consiglieri dello zar, assicurerà presto la disfatta del nemico?
Il piano esposto all’inviato statunitense Steve Witkoff durante la sua visita a Mosca, secondo quanto rivelato dal Wall Street Journal, prevede il congelamento del fonte sulle linee raggiunte dai russi nelle oblast di Zaporizhzhia e Kherson o addirittura un loro ritiro, non si capisce bene, e la consegna alla Russia di Donetsk e Lugansk, ovvero dell’intero Donbass.
Comprese le parti tuttora controllate da Kyiv. Il problema non è solo l’opposizione di Zelensky e dell’Ue. È che è proibito dalle costituzioni di entrambi i Paesi. L’annessione di Zaporizhzhia e Kherson, oltre a quella delle due regioni che compongono il Donbass, è stata formalizzata nella legge fondamentale della Federazione Russa
Rinunciare a pezzi di Kherson e Zaporizhzhia è quindi illegale.
Mentre la Costituzione ucraina vieta esplicitamente la cessione di qualsiasi territorio nazionale.
Il legalismo dello zar
“Il problema è più per Kyiv che per Mosca”, sostiene Radchenko. “La sicurezza politica di Zelensky non è solida come quella di Putin. Zelensky deve confrontarsi con l’opinione pubblica e con vari gruppi di interesse che possono ostacolarlo seriamente. C’è una forte componente anti-russa che rifiuta qualsiasi negoziato”.
Putin è meno vincolato: con la “sua” Costituzione ha sempre fatto quel che gli pare, riscrivendola più volte a suo piacimento. Come quando ha allungato quasi all’infinito la durata del suo mandato. O quando vi ha inserito la sovranità sulle quattro regioni ucraine, appunto.
“Lo ha fatto proprio per assicurarsi che non si possa tornare indietro, perché dovrebbe farlo?”, si chiede Radchenko. In teoria, basta che dica alla Duma di approvare un emendamento. Ha la maggioranza assoluta. Nessuno gli vota mai contro.
Ma il presidente russo, al contrario di Trump, mica cambia idea facilmente. È vero che la Russia non applica parte della Costituzione e delle sue leggi, cadute in desuetudine insieme all’idea di Stato di diritto. Eppure Putin ha il pallino della
legalità. E non gli piace disfare le norme che ha fatto varare perché ritiene giuste. Anche se servono solo a sostenere il regime.
La voglia di disimpegno del tycoon
Altro ostacolo sul raggiungimento di un’intesa che fermi la carneficina attuando il piano presentato a Witkoff, la certezza del non riconoscimento da parte di Zelensky, o di qualunque suo successore, e dell’Europa dei territori conquistati da Mosca.
Anche se Putin si impegnasse a non attaccare in futuro l’Ucraina o altri Pesi europei, prevarrebbe la mancanza di fiducia nei confronti di uno statista che ha riempito il mondo di bugie, smentendo l’attacco contro Kyiv fino al giorno dell’invasione.
In sostanza, in Alaska potrebbe ripetersi quanto avvenne per il piano di pace Usa discusso a Mosca l’11 aprile scorso e poi respinto da Kiev e alleati.
E ciò potrebbe spingere Trump a incolpare l’Ucraina del sostegno alla guerra e portare gli Stati Uniti a ritirare il sostegno militare e diplomatico. Come scrive un editorialista della Izvestia, “nel summit i due leader più che alla pace in Ucraina penseranno a stabilire relazioni bilaterali per cooperare a livello globale”
I territori “per la Russia non sono una priorità”
D’altra parte, uno scambio di territori era ritenuto possibile ed era stato discusso anche durante gli ultimi vertici tra Putin e Xi Jinping, con i cinesi a far pressione sui russi per un cessate il fuoco, ha detto a Fanpage.it il consulente del Cremlino per gli affari cinesi Alexey Maslov, nella delegazione di Mosca a quegli incontri.
Il fatto che “non sono i territori la priorità della Russia” e che scambi territoriali siano stati presi in considerazione e ritenuti “possibili” l’ha più volte riferito al nostro giornale il consigliere di Putin per la politica estera Dmitry Suslov. Sempre se fossero stati accolti gli obiettivi massimalisti di Putin su demilitarizzazione, neutralità e posizione politica dell’Ucraina, ovviamente.
Ma è passato tempo, da allora. E la percezione della leadership russa è che oggi la vittoria sul campo sia vicina, come ha detto a Fanpage.it lo stesso Suslov poche ore prima che si sapesse del summit di Ferragosto. Radchenko, seppur convenendo che le pretese territoriali sono subordinate rispetto agli altri obiettivi russi, ritiene che la soluzione di cui parla il Wall Street Journal sia “del tutto improbabile”.
Non è l’economia, baby
Un motivo che potrebbe però aver fatto cambiare le strategie del
Cremlino riguardo alla guerra è la situazione economica della Russia. Stamani la prima pagina del quotidiano moscovita Nezavisimaya Gazeta non titolava su Trump e Putin ma sulla probabilità che nel 2026 il Paese vada in recessione.
Il bilancio statale ha già superato il limite previsto per fine anno. La spesa militare è alle stelle. Le entrate sono stagnanti, a causa del prezzo del petrolio inferiore alle previsioni. E non c’è alcuna possibilità di tagliare la spesa, con la guerra in corso.
“Ma questo non indurrà Putin a cercar la pace”, afferma Sergey Radchenko: “Lui non lavora per il benessere economico, ma per il suo posto nella Storia”. La colpa di una crisi economica sarebbe attribuita all’Occidente.
Per Putin “conta solo la sua eredità”, conclude lo storico: “Vuole essere ricordato come lo zar che ha riportato indietro le terre perdute”. Non gli importa se il Pil scende e la popolazione soffre: “La guerra in Ucraina andrà avanti. Putin non punta all’immediato benessere dei russi”.
E può sempre contare sul fatto che i russi sono abituati a tutto. È nella loro memoria storica. Maledetta Storia.
(da Fanpage)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
PRENDE ATTO CHE A QUASI UN ANNO DALLA SCADENZA DEL 31 AGOSTO 2026 SARÀ IMPOSSIBILE CHIUDERE TUTTI I PROGETTI… IL RISCHIO NON È SOLO QUELLO DI RICEVERE MENO SOLDI, MA ANCHE PAGARE SANZIONI PESANTISSIME. FINO A 2-3 VOLTE IL VALORE DEGLI INVESTIMENTI INCOMPIUTI. E QUATTRO VOLTE TANTO PER LE RIFORME RIMASTE A METÀ
A un passo dal traguardo, il governo taglia il Pnrr. Gli obiettivi delle ultime due rate saranno
ridotti. Ma per non perdere neppure un euro della dote complessiva da 194,4 miliardi, come Giorg
Meloni ha raccomandato ai suoi anche nelle ultime ore, ecco la revisione per mettere in sicurezza i fondi europei.
Il “taglia e salva” sarà pronto a settembre, quando Palazzo Chigi punta a inviare la richiesta ufficiale della revisione alla Commissione europea. Ma lo schema è già sul tavolo di Bruxelles. Un indizio dei lavori in corso è spuntato nel comunicato diffuso ieri dalla presidenza del Consiglio per annunciare l’incasso della settima tranche da 18,3 miliardi, che la premier ha festeggiato come «una conferma del primato dell’Italia nell’attuazione del Piano». Quando si sofferma sul lavoro delle «prossime settimane», la nota fa riferimento proprio agli obiettivi delle ultime due rate.
E parla, non a caso, di «un adeguamento del Pnrr al nuovo contesto geopolitico e alle attuali sfide economiche». Detto, fatto. Dopo aver caricato la nona e decima rata di 69 target in più rispetto al Pnrr del governo Draghi, portando gli impegni da 171 a 240, ora la destra ci ripensa. Prende atto che a quasi un anno dalla scadenza del 31 agosto 2026 sarà impossibile chiudere tutti i progetti. Il rischio non è solo quello di ricevere meno soldi, ma anche pagare sanzioni pesantissime. Fino a 2-3 volte il valore degli investimenti incompiuti.
Quattro volte tanto per le riforme rimaste a metà. Ecco allora il piano d’emergenza.
Sacrifici e salvataggi. Alcuni degli obiettivi delle ultime due tranche saranno cancellati. Altri saranno invece accorpati. Il totale sarà inferiore ai 240 target che figurano nelle tabelle riviste insieme alla Ue nel 2023. A farne le spese saranno i progetti che presentano ritardi oramai incolmabili. Meno obiettivi portati a termine si traducono però in meno risorse. Uno scenario che Meloni non vuole neppure prendere in considerazione
A fine giugno era stato il ministro per il Pnrr, Tommaso Foti, a parlare di un avanzamento finanziario vicino agli 80 miliardi. L’ultimo aggiornamento del contatore della Struttura di missione di Palazzo Chigi avrebbe certificato una spesa di 110 miliardi rispetto ai 120 miliardi ricevuti fino a due giorni fa e da ieri saliti a 140,4 con il bonifico della settima rata.
Il salvataggio dell’intero importo del Pnrr subentra qui. A ballare sono 16-20 miliardi. Sono i soldi dei progetti che finiranno fuori dal Pnrr. Non solo quelli da cestinare, ma anche quelli degli investimenti che cambieranno fonte di finanziamento, passando dal Recovery alla Coesione. Che fine faranno queste risorse? Una parte sarà riallocata dentro il Pnrr. Alimenterà progetti in essere e nuovi investimenti. Il rimescolamento potrebbe tirare
dentro anche gli aiuti alle imprese per fronteggiare i dazi: l’idea è attingere 14 miliardi dal capitolo sulla competitività del sistema produttivo che oggi può contare su 19,3 miliardi.
Un’altra parte dei fondi liberati dai progetti ex Pnrr sarà invece congelata. Finirà in una cassaforte che permetterà di spendere questi soldi entro il 2028 (un anno in più per casi specifici). Entro la scadenza del Pnrr sarà sufficiente indicare solo i beneficiari. Il travaso nei veicoli finanziari è un’opzione già consentita dalle regole di Next Generation Eu. […] La soluzione potrebbe essere adottata dalla Commissione europea anche come strumento comune per tutti i Paesi che non riusciranno a completare i progetti del Pnrr entro la prossima estate.
(da agenzie)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
PUTIN SI “ACCONTENTEREBBE” DI MANTENERE LE ALTRE DUE REGIONI DOVE SI COMBATTE ANCORA, ZAPORIZHZHIA E KHERSON, TIRANDO UN CONFINE LUNGO L’ATTUALE FRONTE – NEL FAMOSO “SCAMBIO DI TERRITORI” EVOCATO DA TRUMP, LA RUSSIA COSA OFFRE ALL’UCRAINA? SPOILER: STOCAZZO
È l’ipotesi più agghiacciante, uno «scambio di territori» tra Ucraina e Russia mentre ancora si combatte, senza un cessate il fuoco e senza che Kiev abbia più nulla da “scambiare”, ossia da restituire a Mosca, dopo la riconquista russa di Kursk. E Volodymr Zelensky non poteva che reagire come ha fatto ieri alle parole di Donald Trump, con un “no” deciso.
«Gli ucraini – ha scandito in un video dal suo ufficio di Kiev – non regaleranno la loro terra all’occupante». Per il presidente ucraino «qualsiasi decisione presa contro di noi, qualsiasi decisione presa contro l’Ucraina, è allo tesso tempo una decisione contro la pace». Secondo il presidente ucraino quegli eventuali accordi «non porteranno a nulla. Sono decisioni morte; non funzioneranno mai».
Dopo mesi di tentativi di ammansire Trump che erano seguiti all’agghiacciante umiliazione subita a febbraio nello Studio
Ovale, Zelensky ha usato per la prima volta parole nette contro il presidente americano, e in particolare contro contro la sua ipotesi formulata qualche ora prima. Dal vertice di Ferragosto con Vladimir Putin in Alaska potrebbe emergere uno «scambio di territori» tra Kiev e Mosca, aveva anticipato Trump.
In serata, il capo di Stato ucraino ha ammorbidito i toni: «Nessun partner ha dubbi sul fatto che gli Usa possano far finire la guerra: il presidente americano ha le leve necessarie e la determinazione». Zelensky ha ricordato di aver «sostenuto tutte le proposte del presidente». L’Ucraina, ha scritto su X, «non ha bisogno di un cessate il fuoco in futuro, non tra mesi, ma subito». Ed è ciò che Putin gli ha sempre rifiutato.
Ma Trump ha fretta di scrivere la parola “pace” sul conflitto russo-ucraino, di realizzare una delle principali promesse elettorali, a qualsiasi costo. L’accordo che si evince dalle indiscrezioni apparse sui giornali americani e ucraini somiglia troppo a una capitolazione perché Zelensky possa accettarla.
Dal summit di Ferragosto potrebbe emergere un’intesa che preveda la cessione integrale di due delle quattro regioni ucraine reclamate da mesi dal Cremlino ma non ancora conquistate del tutto, ossia Donetsk e Lugansk, oltre alla Crimea annessa illegalmente già nel 2014 dalle truppe russe. E Putin si
«accontenterebbe» di mantenere le altre due regioni dove si combatte ancora, Zaporizhzhia e Kherson, tirando un confine lungo l’attuale fronte.
Un punto di caduta che coincide quasi con quello che il Cremlino chiede da mesi, ossia la cessione integrale delle quattro regioni più la Crimea. Non si capisce quale sarebbe lo “scambio”, ossia la concessione a Zelensky. Come ha sintetizzato ieri una fonte europea vicina al dossier al Wall Street Journal, «Putin avrà tutto quello che vuole in cambio di niente».
«La risposta alla questione territoriale ucraina – ha ripetuto dunque il presidente ucraino – è già scolpita nella Costituzione ucraina», che vieta la cessione di territori. Gli ucraini meritano una pace «dignitosa», e i partner di Kiev devono capire questo principio, ha sottolineato.
Un sondaggio recente dell’Istituto internazionale di Sociologia di Kiev ha registrato che oltre tre quarti degli ucraini si oppongono a cedere le loro terre alle Russia. Anche se quando la domanda riguarda regioni già finite sotto il controllo di Mosca, la contrarietà cala a poco più nella metà dei sondati. E c’è anche un 38% di ucraini che accetta in generale l’idea che alla fine Kiev qualcosa dovrà cedere. Due anni fa era ancora il 10%.
(da La Repubblica)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
L’ANALISTA JOHN FOREMAN: “SE FOSSERO VERE LE INDISCREZIONI DEL SUO PIANO DI PACE CON PUTIN, OLTRE ALLA CONCESSIONE DI CRIMEA E DONBASS, L’UCRAINA DOVREBBE RENDERE ANCHE LE CITTÀ FORTIFICATE DELL’OBLAST DI DONETSK. A QUEL PUNTO, SE LA RUSSIA DOVESSE RIATTACCARE, L’ESERCITO DI PUTIN AVREBBE UN’AUTOSTRADA PER SFONDARE NEL CENTRO DEL PAESE”
Trump vuole il Nobel per la Pace. Invece, rischia di essere il nuovo Chamberlain. Il suo
piano per l’Ucraina rassomiglia terribilmente alla resa sui Sudeti con la Germania nazista nel 1938». John Foreman è un veterano della geopolitica: ex attaché militare britannico a Kiev e Mosca, diplomatico presso Nato e Ue, ora analista per Chatham House.
Foreman, perché Trump potrebbe essere il nuovo Chamberlain
il primo ministro britannico dell’appeasement con Hitler?
«Se fossero vere le indiscrezioni del suo piano di pace con Putin, oltre alla concessione di Crimea e Donbass, l’Ucraina dovrebbe rendere anche le città fortificate dell’oblast di Donetsk. A quel punto, se la Russia dovesse riattaccare, l’esercito di Putin avrebbe un’autostrada per sfondare nel centro del Paese. Sarebbe immorale e disonorevole una resa per cui si concedono a Mosca anche territori non conquistati sul campo. Secondo me lo zar non vuole la pace e tantomeno un accordo, perché crede di vincere in Ucraina».
Cosa si aspetta dal vertice di Ferragosto tra Trump e Putin?
«Tocca vedere quali garanzie fornirà il presidente Usa all’Europa e alla Nato. Se queste ultime saranno costrette a un cattivo accordo, saranno fortemente a rischio in futuro».
Cosa possono fare Regno Unito e Ue di fronte a questo bivio?
«Non mollare l’Ucraina. Fare blocco con Kiev, a ogni costo. Insistere con Trump per essere parte integrante delle trattative […]».
Ma secondo lei quale potrebbe essere un accordo realistico tra Russia e Ucraina?
« Kiev qualche concessione dovrà farla. Per esempio la Crimea non potrà più essere riconquistata. E l’Ucraina non potrà tornare i confini del 2014 e 2022, a meno di una guerra internazionale. La bozza di accordo tra le parti in Turchia nell’estate di tre anni fa potrebbe essere una parziale base di partenza, con qualche concessione territoriale alla Russia, un compromesso sull’ingresso nella Nato e un congelamento del fronte, come per la Germania Est nel secolo scorso».
(da agenzie)
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Agosto 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA QUESTIONE PROCEDURALE (SE IL SUO EVENTUALE REATO SIA IN CONCORSO O MENO CON QUELLO CONTESTATO A NORDIO, E SE QUINDI SIA TUTELATA COME LUI DALL’IMMUNITÀ) È ANCORA APERTA. MA UN’EVENTUALE ISCRIZIONE NEL REGISTRO DEGLI INDAGATI DI BARTOLOZZI RENDEREBBE QUASI IMPOSSIBILE “SCUDARE” LA SUA POSIZIONE CON L’IMMUNITÀ – GIOCANO A SUO SFAVORE LE PAROLE DI NORDIO
A coordinare il dossier Almasri da Palazzo Chigi fu, come da deleghe, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Ma il Tribunale dei ministri rifiutò la proposta di ascoltarlo, così come aveva chiesto il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una testimonianza, la sua, ritenuta «non fungibile».
Il retroscena emerge dalle carte dell’indagine su Nordio, Mantovano e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Una «assurdità», così si definisce nei corridoi di Palazzo Chigi la decisione dei magistrati di non ascoltare Mantovano, autorità delegata da Giorgia Meloni a gestire questioni con profili di intelligence e sicurezza nazionale.
La sua posizione, vagliata, era stata dapprima archiviata. Il Tribunale dei ministri si era concentrato su Nordio e aveva
fissato per il 23 maggio l’interrogatorio del ministro.
Ma lui si era negato. L’avvocato che difende il ministro, la senatrice Giulia Bongiorno, il giorno prima aveva inviato una lettera — ora agli atti — nella quale spiegava la volontà di Nordio di «non rendere l’interrogatorio».
Il Tribunale prende atto del rifiuto di Nordio e visto che lui e Mantovano erano ritenuti non sostituibili «non ravvisa, allo stato, l’esigenza di sentirlo». Una comunicazione che aveva fatto pensare alla difesa di Mantovano di vederlo fuori dalle accuse. Grande la sorpresa di vedersi addossata «dopo sei mesi e mezzo» una responsabilità non solo nel favoreggiamento del torturatore, ma «addirittura del peculato», rilevano con amarezza a Palazzo Chigi, chiedendosi quale sia stato il vantaggio personale di Mantovano in quel volo di trasferimento di Almasri.
Andrea Orlando […] su Nordio che ha difeso la sua capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi (che, dice, «ha eseguito solo miei ordini») dichiara: «Anzihé dirigere un ministero, fa lo scudo umano».
La posizione della funzionaria è ancora al centro dell’attenzione. Ritenuta «mendace e inattendibile» nella sua testimonianza dal Tribunale dei ministri, ma la competenza sull’eventuale reato resta in capo alla Procura ordinaria, non essendo una parlamentare né un ministro. La questione procedurale — se l’eventuale reato sia in concorso o meno con quello contestato al suo capo, e se quindi debba seguire il destino di lui tutelata dall’immunità — è ancora aperta.
Ma un’eventuale iscrizione nel registro degli indagati di Bartolozzi dopo la chiusura dell’iter parlamentare, che prevede a ottobre il «no» all’autorizzazione a procedere, renderebbe molto più difficile, se non impossibile, «scudare» la sua posizione. Isolata dal presunto «concorrente» non potrebbe essere trascinata nella scia della sua immunità.
La presunta falsa comunicazione ai pm (in questo caso i giudici del Tribunale dei ministri) avvenuta in un momento e in circostanze diverse rispetto ai giorni del mancato trattenimento di Almasri potrebbe giocare a suo sfavore in questo scenario. E, paradossalmente, proprio la rivendicazione di Nordio che nessuna decisone sarebbe potuta essere presa a sua insaputa, potrebbe complicare la posizione di Bartolozzi. Perché è stata lei a sostenere di non aver informato il ministro su alcuni passaggi chiave e per questo la sua testimonianza non è stata creduta
(da agenzie)
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