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ECCO IL RISULTATO DELLA “SPECIAL RELATIONSHIP” DI GIORGIA MELONI CON TRUMP: LA MANCATA ESENZIONE DI VINI E SUPERALCOLICI DAI DAZI DI TRUMP È UNA FREGATURA SOPRATTUTTO PER ITALIA E FRANCIA, I PRIMI PRODUTTORI DI VINO AL MONDO

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

IL “GIALLO” DELLE AUTO: IN TEORIA SI APPLICA LA TARIFFA DEL 15%, MA LA RIDUZIONE ENTRERÀ IN VIGORE “QUANDO L’UE ABBASSERÀ I SUOI DAZI SUI VEICOLI AMERICANI… L’EUROPA CONFERMA L’IMPEGNO AD ACQUISTARE 750 MILIARDI DI PRODOTTI ENERGETICI AMERICANI (IMPOSSIBILE, NON C’È ABBASTANZA OFFERTA) E AGGIUNGE 40 MILIARDI DI DOLLARI IN CHIP. UNA FETTINA DI CULO, NO?

Dopo più di tre settimane dal vertice in Scozia tra Ursula von der Leyen e Donald Trump, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno definito i termini dell’“Accordo quadro” per definire le relazioni
commerciali e chiudere la guerra dei dazi.
Confermati i punti-chiave dell’intesa siglata dai due presidenti: gli Usa applicheranno un’aliquota massima del 15% sulla maggior parte dei prodotti importati dall’Unione europea, che a sua volta azzererà i suoi dazi su tutti i prodotti industriali americani. Confermato lo “sconto” per una serie di prodotti Ue,
come gli aeromobili e la loro componentistica, i farmaci generici e i loro ingredienti, e i precursori chimici.
Tasse al 15% sull’export di vini e superalcolici
Ma tra i beni elencati al punto 2 non risultano i vini e i superalcolici, che dunque saranno sottoposti a dazi del 15%, anche se nel documento si legge che «gli Stati Uniti e l’Unione europea concordano di considerare altri settori e prodotti importanti per le loro economie» che potrebbero essere aggiunti alla lista dei beni sottoposti soltanto ai dazi ridotti da «nazione più favorita».
«Non è la fine del processo – ha commentato Ursula von der Leyen – continueremo a lavorare con gli Stati Uniti per
concordare ulteriori riduzioni tariffarie, per identificare ulteriori aree di cooperazione e per favorire un maggiore potenziale di crescita economica».
Il nodo auto
Gli Usa hanno inoltre assicurato che i dazi applicati su farmaci, semiconduttori e legname non supereranno il 15%. Stesso discorso per le auto e la relativa componentistica, con la riduzione che entrerà in vigore quando l’Ue abbasserà i suoi dazi sui veicoli americani. Per quanto riguarda il settore siderurgico, Stati Uniti e Unione europea hanno concordato di lavorare in tandem per affrontare il tema della sovraccapacità, fissando quote per l’export di acciaio e alluminio europei verso gli Usa
Gas, petrolio e chip dagli Usa per 750 miliardi
Sul fronte energetico, l’Europa conferma l’impegno ad acquistare entro il 2028 un volume di 750 miliardi di dollari di prodotti americani tra gas naturale liquefatto, petrolio e forniture in ambito nucleare, oltre a 40 miliardi di dollari di chip. Scritto nero su bianco anche l’impegno a investire negli Usa 600
miliardi di dollari in settori strategici nei prossimi tre anni. Non ci sono cifre, invece, in ambito militare, ma l’Ue «prevede di aumentare significativamente gli acquisti nel campo della Difesa»
(da agenzie)

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“FAZZO” TUTTO IO! LA RESISTIBILE ASCESA DI GIOVANBATTISTA FAZZOLARI, IL BRACCIO DESTRO DI GIORGIA MELONI: FINO AL 2018 ERA UN DIRIGENTE DI SECONDA FASCIA DELLA REGIONE LAZIO, ORA ACCOMPAGNA LA PREMIER ALLA CASA BIANCA E STRINGE LA MANO AI POTENTI DEL MONDO

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

GLI ADDETTI AI LIVORI DEI PALAZZI ROMANI MALIGNANO: “COMMISSARIA TUTTO E TUTTI, SENZA ANDARE PER IL SOTTILE PERCHÉ MELONI LO COPRE” – CONSIDERATO “IL PIÙ INTELLIGENTE DI TUTTI” DENTRO FRATELLI D’ITALIA (PENSA COME SONO GLI ALTRI), È LUI A DETTARE LA LINEA AI PARLAMENTARI

Stratega della comunicazione, responsabile delle nomine e anche consigliere diplomatico. Sempre dietro le quinte, e senza alcun riconoscimento ufficiale di questi incarichi, il sottosegretario alla presidenza, Giovanbattista Fazzolari, è il punto di riferimento su ogni dossier. Più sono importanti gli argomenti e più vengono richiesti i suoi suggerimenti da parte di Giorgia Meloni. Fino ad arrivare alla presenza nella delegazione che ha recentamente partecipato, alla Casa Bianca, allo storico vertice sulla pace in Ucraina.
C’è chi maligna, mal tollerando il suo potere: «Commissaria tutto e tutti, senza andare per il sottile perché Meloni lo copre». Dicerie da detrattori? Chissà. Di certo si muove da padrone di casa a palazzo Chigi. Un Richelieu degli anni Duemilaventi. Il vero vicepremier, non ufficiale, ça va sans dire.
La presenza di Fazzolari a Washington ha rappresentato una novità che non è passata inosservata. Formalmente il sottosegretario ha solo la delega all’attuazione del programma, è il “gendarme” governativo a guardia dei ministeri affinché
mandino avanti i provvedimenti. E allora che ci faceva negli Usa? Era lì per dispensare suggerimenti a Meloni.
Tuttavia, chi conosce le dinamiche interne a FdI non è affatto sorpreso della sua partecipazione al viaggio negli Stati Uniti. «Ha una formazione di respiro internazionale, la geopolitica è una sua vecchia passione e parla di Ucraina dall’inizio della
guerra», raccontano, citando la sua estrazione familiare – è figlio di un diplomatico ed è cresciuto tra Europa e Sud America – e i suoi studi internazionali.
Di recente aveva rilasciato un’intervista al Corriere della sera illustrando le possibili prospettive di pace ucraine. Argomenti che competerebbero, sulla carta, ad altri ministri, come Guido Crosetto o Antonio Tajani. E invece i due sono rimasti un passo indietro, in Italia, a commentare da lontano – sui giornali – i fatti. Ed è sempre a Fazzolari che è stata attribuita la proposta di garantire la sicurezza a Kiev, sotto l’ombrello della Nato, senza un’adesione diretta, d’intesa con il (vero) consigliere diplomatico di Meloni, Fabrizio Saggio.
L’ennesima conferma che è ascoltatissimo dalla presidente del Consiglio. Nei momenti delicati la leader di Fratelli d’Italia sente Fazzolari.
Una consuetudine nata fin dai tempi del congresso di Viterbo di Azione giovani, nel 2004, quando l’attuale sottosegretario aveva scritto la piattaforma programmatica della futura premier. «Non
litigano mai», è la versione edulcorata degli aedi del melonismo.

Ma Fazzolari, che in molti all’interno di FdI descrivono all’unisono come «il più intelligente di tutti, la figura a cui
Giorgia non rinuncerebbe mai», è considerato anche il vero fautore dell’arroccamento di Meloni. Dietro la sua proverbiale riservatezza incarna l’ala più intransigente degli eredi della fiamma, il melonismo in purezza meno incline al dialogo, che predilige i fedelissimi all’apertura ad altri mondi.
Non è un mistero, comunque, che Fazzolari sia mente, e longa manus, del Mattinale, il documento informale che detta la linea governativa agli eletti di Fratelli d’Italia (e che va distinto dalle analisi dell’ufficio studi del partito, guidato dal deputato Francesco Filini).
Fatto sta che il Mattinale non è certo un modello di dialogo con le opposizioni, la stampa «ostile» o chi non appartiene alla cerchia della fiamma. Anzi, spesso vengono indicati i nemici, nelle istituzioni e non solo. Tra una strategia sulla propaganda e un’analisi geopolitica, il vero punto di forza di Fazzolari è la gestione del potere.
È ormai una pietra miliare del melonismo il suo ruolo di filtro sulle nomine nelle società pubbliche. Chi non convince il
sottosegretario non ha chance di passare. Al contrario, chi gli è gradito parte avvantaggiato. Solo poche settimane fa ha sponsorizzato il nome del manager Michele Pignotti come ad di Sace, società del Mef.
L’attivismo è pari alla capacità di non farsi notare troppo. Tanto resta nell’ombra, e tanto incide sull’azione politica. Fazzolari è
stato il regista degli affondi verso il ministro della Salute, Orazio Schillaci, sullo scioglimento del gruppo consultivo sui vaccini (per la presenza di esponenti criticati per le loro tesi sulle vaccinazioni).
(da Domani)

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ALLA CASA BIANCA C’E’ UN BRANCO DI CIALTRONI: PRIMA DELL’INCONTRO TRA TRUMP E ZELENSKY, LO STAFF DEL PRESIDENTE USA AVEVA PREPARATO UNA MAPPA CHE INDICAVA LA SITUAZIONE SUL CAMPO DI BATTAGLIA, MA ERA SBAGLIATA. PER FORTUNA ZELENSKY SI È PORTATO LA SUA

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

LA VERSIONE AMERICANA DELLA MAPPA AVVANTAGGIAVA I RUSSI: SECONDO LA GRAFICA DEGLI USA L’ESERCITO DI MOSCA CONTROLLAVA PIÙ TERRITORI RISPETTO ALLA REALTÀ. SI È TRATTATA DI UNA SVISTA O DI MALAFEDE?

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto ai giornalisti di aver portato alla Casa Bianca una mappa che indicava la situazione sul campo di battaglia per poi però scoprire che gli americani avevano preparato una loro mappa per i negoziati che
aveva però degli errori.
Lo riporta Ukrinform. “Ho notato errori riguardo alla regione di Donetsk. Da qualche parte c’era scritto che il 73% della regione era occupato, e ho notato che non il 73%, ma il 67% o il 69%”, ha riferito Zelensky, “nella regione di Sumy, solo l’1% è occupato
Il Presidente Trump era interessato a conoscere i dettagli, abbiamo parlato a lungo del Donbass, dell’Est, della sua importanza. Ho notato che se i nostri militari si ritirassero da questo territorio e questo venisse occupato, allora apriremmo la strada a Kharkiv. Gli ho mostrato le strade per il Dnepr, il centro industriale dell’Ucraina”. “Queste sono state le mie lunghespiegazioni, ma è stato un dialogo del tutto normale”, ha concluso Zelensky.
(da agenzie)

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PUTIN È TRA DUE FUOCHI: DA UNA PARTE CI SONO I FALCHI CHE NON VOGLIONO LA PACE, DALL’ALTRA I GAUDENTI OLIGARCHI CHE NON VEDONO L’ORA DI TORNARE A GODERE DELLE LORO VILLE SEQUESTRATE IN EUROPA

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

IL DITTATORE DEL CREMLINO DEVE TROVARE IL MODO PER FAR INGOIARE UN POSSIBILE ACCORDO AI SUOI TROMBETTIERI CHE, NEGLI ULTIMI ANNI, HANNO DEFINITO ZELENSKY “UN NAZISTA” O “UNA MARIONETTA COCAINOMANE” … IL POLITOLOGO ABBAS GALYAMOV, EX GHOSTWRITER DI PUTIN: “PIÙ DI QUALCUNO SOGNA DI TORNARE ALLA NORMALITÀ. CON LA TV CHE NON MINACCIA PIÙ LA GUERRA ATOMICA, GLI IMPRENDITORI CHE NON CADONO DALLE FINESTRE E I MINISTRI CHE NON SI SPARANO PIÙ”

«Cosa faremo se accadrà?». L’interrogativo posto da Zakhar Prilepin – famoso scrittore, testimonial delle campagne elettorali di Vladimir Putin e combattente nel Donbass – sta facendo venire i brividi a molti propagandisti. La prospettiva di un vertice tra il capo del Cremlino e Volodymyr Zelensky, che anche in assenza di un’intesa finale significherebbe una svolta, è ancora molto nebulosa, come fa capire Sergey Lavrov.
Putin, a differenza di Donald Trump, appartiene alla vecchia scuola della diplomazia, e per lui i summit sono il finale del negoziato, non il suo esordio. Allo stato attuale, non ha nulla da dire al suo nemico di Kyiv, ma soprattutto prima di guardarlo in faccia deve smantellare la fortezza della propaganda che lui stesso ha costruito: come negoziare qualcosa con un «nazista cocainomane», con una «marionetta scaduta», come lo chiama Prilepin?
È vero che Putin può smentire in qualunque momento il suo ministro degli Esteri, un «Mr. Niet» che da anni ormai èimpegnato più nella propaganda che nella diplomazia. Quando il dittatore russo ha bisogno di un’intesa, chiama personaggi molto più pragmatici, come il capo del fondo sovrano russo Kirill Dmitriev, un laureato negli Usa che ha portato Steve Witkoff in giro per i ristoranti di Mosca, o l’oligarca Roman Abramovich, che ha negoziato gli scambi di ostaggi in Turchia La telefonata che Putin ha fatto ieri a Recep Tayyip Erdogan potrebbe significare la ricerca di un compromesso. Ma il segnale più inequivocabile è proprio la propaganda. I mattatori dei talk show che invocavano missili sulla Florida, ora postano zuccherosi clip con una bambina vestita del tricolore russo che volteggia in una danza romantica con un ragazzo a stelle e
strisce.
Siccome nulla in Russia viene trasmesso in Tv senza un’autorizzazione dall’alto, i blogger militaristi sono nel panico: «Nelle strade di Leningrado Putin ha imparato a tradire per primo», attacca Alex Parker, mentre molti suoi colleghi denunciano «il ritorno alla distensione di Gorby».
Lo scontro tra i falchi e le colombe al Cremlino ovviamente non può essere pubblico: ufficialmente in Russia non si può essere contrari alla guerra, e soltanto negli ultimi giorni i tribunali hanno emesso condanne di due, cinque e perfino otto anni di carcere per critiche della «operazione militare speciale» sui social. Nei sondaggi non si può misurare il numero dei contra
alla guerra, ma solo quello dei «favorevoli a un negoziato», che sono ormai da due anni più della metà dei russi, e continuano ad aumentare.
E nella nomenclatura putiniana, il «pacifista» si nasconde dietro il pragmatismo. Come i tecnici del governo che snocciolano impassibili dati devastanti sui vari settori dell’industria russa. I
deficit del bilancio è quintuplicato rispetto alle stime di inizio anno, le spese militari sono quadruplicate dal 2022, all’8% del Pil.
Nella Finanziaria del 2026, dice una fonte governativa intervistata dalla Reuters, la Russia continuerà a destinare il 40% della spesa ai militari e alla polizia. Nonostante questo, il
rallentamento dell’economia è sempre più visibile, e il ministro dello Sviluppo economico Maksim Reshetnikov ha ammesso che i numeri «si vedono nello specchietto retrovisore», senza tenere conto di un ulteriore peggioramento.
Al quale contribuiscono anche le sortite dei droni ucraini contro le raffinerie russe. Il prezzo della benzina ieri ha toccato un
nuovo record, il 47% in più dal”inizio dell’anno, e in Crimea e in Siberia è stato introdotto il razionamento.
Non è difficile individuare il blocco economico del governo e gli oligarchi come quelli più ansiosi di vedere una fine delle ostilità, che potrebbe portare a un almeno parziale allentamento delle sanzioni economiche. Per l’élite putiniana questo significa
ritorno alle ville e agli yacht sequestrati in Europa, e anche la possibilità di fuggire dalle sempre più diffuse rappresaglie del regime, che ha proibito l’espatrio dei funzionari.
«Anche loro vorrebbero il ritorno alla normalità, con la Tv che non minacci più la guerra atomica, gli imprenditori che non cadono dalle finestre e i ministri che non si sparano più», scriv
La guerra è stata la fortuna di una nuova generazione di oligarchi «autarchici», e paradossalmente degli strati più poveri della popolazione, pagati migliaia di euro per arruolarsi. L’analista Elina Rybakova dice al Financial Times che «il ritorno dell’economia russa dal binario militare a quello civile potrebbe avere un impatto devastante», con la guerra che smette di essere
un motore di crescita e i prezzi del petrolio non abbastanza elevati da sostituire i carri armati.
(da agenzie)

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TANTE CHIACCHIERE E NESSUNA GARANZIA PER L’UCRAINA: È LA VITTORIA DELLA DIPLOMAZIA TARGATA PUTIN

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

L’AMBASCIATORE ETTORE SEQUI ELENCA GLI OSTACOLI E I NODI DIFFICILI DA SCIOGLIERE: “MOSCA NON RICONOSCE LA LEGITTIMITÀ DI ZELENSKY E USEREBBE IL FACCIA A FACCIA PER RIBADIRE IL PROPRIO ULTIMATUM. LO ‘SCAMBIO DI TERRE’ È INCOMPATIBILE CON LA SICUREZZA UCRAINA E CON L’ARCHITETTURA EUROPEA. E LA DEFINIZIONE DELLE GARANZIE DI SICUREZZA È ANCORA NEBULOSA”

In diplomazia esiste una regola antica: quando non si vuole far avanzare un negoziato sulla sostanza, lo si sposta sul processo. Così agisce la Russia, negoziando sui negoziati per guadagnare tempo mentre avanza sul campo. La diplomazia diventa un prolungamento della guerra
Sul piano politico, il processo avviato dai due vertici, Alaska tra Trump e Putin, Washington tra Trump, Zelensky e i principali leader europei, resta dunque fragile e pieno di ostacoli. Sono quattro.
Primo: il vertice Putin–Zelensky caldeggiato da Trump, è ancora
incerto e rischia di essere un gesto imposto più che un passo verso la pace. Mosca non riconosce la legittimità di Zelensky e userebbe il faccia a faccia per ribadire il proprio ultimatum. Per il Cremlino l’Ucraina resta uno Stato artificiale, Zelensky un presidente illegittimo e la guerra una partita per procura contro l’Occidente
Secondo: lo “scambio di terre” è incompatibile con la sicurezza ucraina e con l’architettura europea; consegnerebbe al Cremlino il controllo del Dnipro e di linee difensive vitali, anche in vista di future nuove aggressioni.
Terzo: l’unità transatlantica è reale nelle dichiarazioni, meno nei mezzi. Senza una pressione americana coerente, Mosca non ha
incentivi a cedere.
Quarto e più cruciale: la definizione delle garanzie di sicurezza è ancora nebulosa. Più sono vaghe, più cresce il rischio di pace apparente e guerra differita. Ne hanno discusso ieri i capi di Stato Maggiore della Nato, consapevoli che per Kiev nessuna concessione territoriale è possibile senza garanzie assolutamenteMvincolanti. Più ampie sono le rinunce, più stringenti devono essere le tutele. Garanzie senza impegni chiari e vincolanti sono solo annunci.
Qui si apre il capitolo più delicato: cosa rende “vera” una garanzia? Cinque criteri: chiarezza, vincolo giuridico, mezzi dedicati, verificabilità, automatismi di risposta. Tutto il resto è diplomazia cosmetica. Il Memorandum di Budapest del 1994 – promesse politiche in cambio della rinuncia nucleare ucraina – è la prova da manuale di ciò che non funziona. Ripetere l’errore sarebbe gravissimo.
Le opzioni sul tavolo si muovono tra due poli. Da un lato, un impegno “tipo Articolo 5” fuori dalla Nato: una clausola di
difesa collettiva ad hoc che coinvolga i Paesi garanti. Ma va detto con chiarezza: l’Articolo 5 non obbliga all’intervento armato. Lascia a ciascuno la scelta dei mezzi.
In caso di aggressione russa, le opinioni pubbliche di Francia, Italia, Germania o altri garanti accetterebbero l’invio di proprie truppe in Ucraina? Vi è poi l’ipotesi franco-britannica di una
“forza di rassicurazione” europea nelle retrovie, sostenuta da copertura aerea-navale e intelligence occidentali, più un robusto pacchetto di addestramento e munizioni.
Senza impegni precisi e stringenti e regole d’ingaggio definite, però, queste garanzie restano di cartapesta: invitano il Cremlino a testarne i limiti con violazioni graduali.
Gli Stati Uniti hanno escluso proprie truppe sul terreno. Possono fornire Isr, difesa aerea, guerra elettronica, antidroni, logistica e industria bellica. È molto ma non basta: senza forte impegno Usa e chiari obblighi europei, le garanzie restano promesse scritte sull’acqua.
La scelta non è tra guerra e pace, ma tra una pace armata
garantita e una guerra differita travestita da accordo. La prima richiede automatismi sanzionatori, monitoraggio internazionale, linee rosse funzionali (accesso ucraino al Dnipro e ai corridoi verso il Mar Nero), e un meccanismo che alzi immediatamente i costi a Mosca in caso di violazione.
La seconda si riconosce subito: promesse vaghe, garanzie senza
mezzi, verifiche sommarie, formule aperte all’interpretazione del più forte.
Per l’Ucraina, qualsiasi compromesso è sostenibile solo con un sistema di sicurezza solido e irreversibile; per l’Europa, è in gioco la propria credibilità; per gli Stati Uniti, la leadership dell’ordine che hanno costruito. Tutto il resto è processo. E il
processo, da solo, non ferma i carri armati.
Sul bordo esterno si muove la Cina. Vuole Mosca resiliente ma subordinata, leva contro Washington, non però a costo di destabilizzare i mercati o compattare l’Occidente. Pechino mira a un ruolo da grande potenza, interessata a partecipare alla definizione di sfere di influenza
L’ipotesi russa di una forza di interposizione con cinesi, indiani o brasiliani serve più a confondere e prendere tempo che a stabilizzare: un teatro per affermare un “ordine non eurocentrico” senza assumersi oneri reali. La tentazione di un “Kissinger rovesciato” – distensione tra Washington e Mosca per staccare il Cremlino da Pechino – è ancora un miraggio.
Ettore Sequi
per “La Stampa

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CON LA RUSSIA IN GINOCCHIO E DIPENDENTE DALLA CINA, PUTIN È PIÙ DISPERATO E PERICOLOSO CHE MAI: DOPO TRE ANNI E MEZZO DI GUERRA, 250 MILA RUSSI MORTI E OLTRE 500 MILIARDI DI DOLLARI SPESI NEL CONFLITTO, “MAD VLAD” È AGGRAPPATO A PECHINO, CHE COMPRA GAS E PETROLIO RUSSO AL PREZZO CHE DECIDE DA SÉ, IMPONE DI USARE LO YUAN E COLONIZZA MOSCA SUL PIANO INDUSTRIALE

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

PUTIN VOLEVA RICOSTRUIRE UN IMPERO, SI RITROVA NEI PANNI DEL VASSALLO DI UN ALTRO IMPERO… SE LA RUSSIA FOSSE UNA DEMOCRAZIA, ANCHE AUTORITARIA, IL POTERE DI PUTIN SAREBBE IN PERICOLO. QUESTO DEVE METTERE IN GUARDIA GLI OCCIDENTALI, ORA CHE SI APRE UNA FASE VITALE DEI NEGOZIATI

Mettetevi nei panni di Vladimir Putin. Avete scatenato un’invasione tre anni e mezzo fa puntando una fila di blindati lunga 60 chilometri contro Kiev. Volevate conquistare il sistema politico dell’Ucraina (“denazificarlo”) e mettere il Paese alla vostra mercè (“smilitarizzarlo”).
E avete fallito: dopo un mese, le vostre truppe si sono ritirate. Allora avete concentrato gli attacchi sulla parte orientale dell’Ucraina. In tre anni e mezzo avete speso le vite di 250 mila o più russi, oltre a un numero di feriti che ormai si avvicina al milione: una quindicina di volte più di quanti l’Unione sovietica ne avesse persi in Afghanistan negli anni ’80, avvicinando la propria dissoluzione.
Avete speso 500 miliardi di dollari non in educazione, sanità o tecnologie per la Russia, ma in distruzione del Paese vicino. Per sostenere un simile sforzo siete piombati nell’isolamento e nelle sanzioni dei Paesi avanzati e avete dovuto mettervi nelle mani della Cina.
Ormai è Pechino che vi detta i termini: compra il vostro gas e petrolio al prezzo che decide da sé, vi impone di usare lo yuan, vi colonizza sul piano industriale.
Volevate ricostruire un impero, vi ritrovate nei panni del vassallo di un altro impero. Ma cosa avete ottenuto per questo prezzo? L’Ucraina non è «denazificata» (niente cambio di governo), in compenso è «militarizzata» molto più di prima. Certo, avete conquistato il 12% del Paese, oltre al 7% che occupavate già il 24 febbraio del 2022; ma quel territorio ha bisogno di investimenti per centinaia di miliardi di dollari per tornare a essere vivibile.
E una parte importante della popolazione se n’è andata: in alcune aree occupate metà degli abitanti sono fuggiti, in altre il 95%; nel complesso si stima che dei 10 milioni di abitanti dell’Ucraina orientale potrebbe esserne rimasta poco più della metà. Avete combattuto ferocemente per una landa desolata.
Se la Russia fosse una democrazia, anche autoritaria, il potere di
Putin sarebbe in pericolo. Un leader che ha commesso una serie così catastrofica di errori — lasciamo stare per ora i crimini — non potrebbe restare. Ma la Russia non è una democrazia.
Tutto questo deve mettere in guardia gli occidentali, ora che si apre una fase vitale dei negoziati. Putin non è sazio, non può uscire dalla guerra così: chiederà la levata delle sanzioni,
qualche forma di riconoscimento delle proprie pretese sulla Crimea e il resto dei territori occupati; soprattutto, resisterà a qualunque forma di garanzia di sicurezza per l’Ucraina che sia credibile ed efficace.
Putin farà di tutto per trascinare la trattativa «di pace» per settimane e mesi, dopo aver strappato a Donald Trump l
concessione più subdola: nel frattempo, non occorre nessuna tregua.
A quel punto getterà ancora più uomini nel tritacarne per cercare di piegare a proprio favore la situazione sul terreno, quindi per far pesare quest’ultima ai tavoli di pace. Spererà che le democrazie, mentre negoziano, si concentrino sulle trattative e
non nel sostegno militare all’Ucraina.
Ovviamente Putin non vuole incorrere nelle ire di Trump e metterà massima cura nel camuffare il fatto che l’unico ostacolo al congelamento del conflitto è lui. Quanto a Trump, ha messo a disposizione la copertura aerea americana in un sistema di garanzie di sicurezza per Kiev.
Ha detto che profonde tutto questo impegno solo perché vuole «andare in paradiso», o magari gli basterebbe anche il Nobel per la Pace. Eppure Putin sembra averlo incantato e avviluppato nelle sue spire su due punti essenziali.
C’è anche l’altra pretesa, che le presunte «garanzie di pace» ricalchino quelle del fallito negoziato di Istanbul del 2022: un
certo numero di Paesi, fra cui la Russia e la Cina, avrebbe ciascuno un diritto di veto sulla difesa dell’Ucraina in caso di attacco.
In pratica l’aggressore, Putin stesso, avrebbe diritto di paralizzare qualunque garanzia a favore dell’aggredito. La sua strategia ormai è chiara: attaccare perché nessuno gli chiede più
una tregua e nel frattempo porre richieste impossibili che prolunghino il negoziato di «pace».
Probabilmente conta ancora su un anno di energie finanziarie, economiche, industriali e demografiche della Russia, prima che lo sforzo di guerra obblighi anche il Cremlino a una pausa. La fase più drammatica comincia ora.
(da Corriere della Sera)

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IN ALASKA, PUTIN SI ERA PORTATO UNO SPECIALE “CONTENITORE PER LE FECI”, CHE SERVIVA A RACCOGLIERE E RIPORTARE IN RUSSIA OGNI TRACCIA BIOLOGICA DEL PRESIDENTE. L’OBIETTIVO? IMPEDIRE ALLE POTENZE STRANIERE DI OTTENERE INFORMAZIONI SULLA SALUTE DEL CAPO DEL CREMLINO

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

COS’HANNO DA NASCONDERE? PUTIN HA QUALCHE MALATTIA?

Durante il recente vertice in Alaska con il presidente statunitense Donald Trump, il russo Vladimir Putin è apparso in buona forma, nonostante le speculazioni sulla sua salute che continuano a circolare da anni.
L’incontro, caratterizzato da rigidissime misure di sicurezza, ha attirato l’attenzione anche per un dettaglio insolito: secondo quanto riportato da The Express US, le guardie del corpo di
Putin avrebbero trasportato uno speciale “contenitore per le feci”, destinato a raccogliere e riportare in Russia ogni traccia biologica del leader. L’obiettivo sarebbe impedire a potenze straniere di ottenere informazioni sullo stato di salute del presidente attraverso analisi del suo materiale organico.
Questa misura di sicurezza, adottata da anni, sarebbe gestita dal
Servizio Federale di Protezione e risalirebbe almeno al 2017, quando Putin visitò la Francia. Secondo i giornalisti investigativi Regis Gente e Mikhail Rubin, la raccolta dei campioni avviene sistematicamente durante ogni viaggio all’estero, con l’impiego di contenitori sigillati e trasporto riservato.
Anche la reporter russa Farida Rustamova ha confermato che
simili precauzioni furono adottate nel 2018 durante la visita di Putin a Vienna, quando il leader russo avrebbe utilizzato un bagno portatile personale.
Le precauzioni estreme alimentano ulteriormente le voci sulle condizioni di salute di Putin, oggi 72enne. Negli ultimi anni sono circolate indiscrezioni su cancro, Parkinson e problemi cardiaci,
mai confermate dal Cremlino.
Diversi video lo mostrano con gambe tremanti, movimenti involontari e gonfiori al volto, spingendo analisti e media a interrogarsi sul suo reale stato di salute. Tuttavia, numerosi esperti occidentali, compresi dirigenti della Cia e dell’Mi6, hanno più volte smentito l’esistenza di prove concrete di gravi
malattie.
A queste incertezze si aggiungono teorie cospirazioniste che sostengono l’impiego di sosia.
Secondo quanto emerso da ricerche del Japan’s National Institute for Defence Studies tramite software di riconoscimento facciale e vocale, ci sarebbero almeno due controfigure
addestrate per sostituire Putin in occasioni pubbliche.
Le discrepanze nei tratti del viso, nei gesti e persino nel tono di voce alimenterebbero sospetti, ma non esistono conferme ufficiali.
Nonostante le dicerie, il vertice in Alaska ha mostrato un Putin apparentemente in buona forma e indipendente nei movimenti, assolutamente all’altezza della controparte americana, il 79enne Trump, che da tempo si vanta del suo ottimo stato di salute, emerso anche dai test medici svolti dopo l’insediamento.
La continua attenzione alle condizioni fisiche del leader del Cremlino e la gestione ossessiva della sua immagine riflettono, tuttavia, un aspetto centrale della strategia comunicativa del
Cremlino: proteggere il mito del leader forte, mentre le voci sulla sua salute restano un terreno fertile per speculazioni, propaganda e controinformazione.
(da AdnKronos)

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“NON SONO STATO INFORMATO DELLO SFRATTO DEL LEONCAVALLO”. L’ACCUSA DEL SINDACO DI MILANO BEPPE SALA: “IERI, DURANTE IL COMITATO PER L’ORDINE E LA SICUREZZA, NON È STATO FATTO CENNO DELL’OPERAZIONE . C’ERANO MOLTE MODALITÀ PER AVVERTIRE L’AMMINISTRAZIONE”

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

BONELLI IRONIZZA: “ASPETTIAMO CON ANSIA LO SGOMBERO DEL PALAZZO OCCUPATO DAI NEO-FASCISTI DI CASAPOUND A ROMA”

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala non è stato informato preventivamente dell’esecuzione dello sfratto del centro sociale Leoncavallo, anche se ieri in prefettura si è svolta una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza a cui Sala aveva delegato
il vicecomandante della polizia locale. “In quella sede non è stato fatto cenno ad alcuno sfratto esecutivo del centro sociale Leoncavallo” ha detto sala convinto che “per un’operazione di tale delicatezza, al di là del Comitato, c’erano molte modalità per avvertire l’Amministrazione milanese
“Lo sgombero del Leoncavallo, presentato dal ministro Piantedosi come un trionfo di legalità, dimostra ancora una volta l’ipocrisia e il doppiopesismo di questo governo. Un presidio
culturale, sociale e politico attivo da oltre trent’anni a Milano, che ha dato voce a generazioni di giovani, artisti e attivisti, viene liquidato come semplice ‘illegalità’, mentre l’immobile occupato dai fascisti di Casapound nel cuore di Roma resta intoccabile per Piantedosi”.
Così Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra che prosegue : “Il Leoncavallo ha rappresentato, piaccia o meno al ministro
Piantedosi, uno dei centri culturali più vivi del Paese, uno spazio autogestito dove si è fatta politica, arte, mutualismo, solidarietà e partecipazione, che ha visto tra i suoi fruitori anche il Ministro Salvini che oggi parla di illegalità. Ci aspettiamo ora lo sgombero immediato di via Napoleone III, dove da anni Casapound occupa un immobile pubblico in pieno centro a Roma”, conclude Bonelli.
“Lo sgombero del Leoncavallo, che è un pezzo di storia
importante di Milano e del nostro Paese, lo hanno fatto con un sotterfugio, a trattativa in corso. Agiscono come i ladri di notte e poi si pavoneggiano per il loro ‘eroismo’: ridicoli”. Così Luca Casarini, oggi capomissione di Mediterranea ed ex leader delle tute bianche, commenta lo sgombero dello storico centro sociale da via Watteau.
“Sommessamente ricordo che la parte migliore della storia del Leoncavallo partì dallo sgombero manu militari del 1989,
‘quando ci vuole ci vuole’, che portò – scrive Casarini – a una mobilitazione in tutta Italia straordinaria e alla sua riconquista e ricostruzione. Poi ci fu il 1994, e anche lì ai teorici del manganello, andò malino. Se fossi in loro, da Salvini in giù, farei meno baldoria: lo spirito del Leoncavallo non potranno mai ucciderlo.
È lo spirito – continua l’ex leader dei disobbedienti – di chi dal basso ha sempre lottato contro l’ingiustizia sociale e i ras della
speculazione del mattone in una città come Milano”. “Non si cancellano 50 anni di storia, nemmeno se si ha a disposizione l’esercito – conclude -. Il Leoncavallo sta nei cuori di tante generazioni e, ne sono sicuro, anche di quelle che verranno”.
(da agenzie)

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VANNACCI “INVADE” CON I SUOI FEDELISSIMI LE LISTE LEGHISTE E SCATENA UNA RIVOLTA ALL’INTERNO DEL PARTITO: DALLA TOSCANA AL VENETO ALLA CAMPANIA, I LUOGOTENENTI DEL GENERALE SPINGONO PER ENTRARE NEI CONSIGLI REGIONALI

Agosto 21st, 2025 Riccardo Fucile

“PORTIAMO ARIA FRESCA” RIVENDICA IL COMITATO “MONDO AL CONTRARIO”. MA I SALVINIANI DOC SONO SULLE BARRICATE – “AVETE PRESENTE LA FOTO DEL GENERALE CON LA CERNIA MORTA IN CUI DERIDE LA SINISTRA? ECCO, PER IL MOMENTO QUELLA FACCIA LA STANNO FACENDO I LEGHISTI CHE TEMONO DI ESSERE SCHIACCIATI DA LUI ALLE REGIONALI

In Toscana candidati del generale in tutti i collegi e almeno uno nel listino blindato, con somma irritazione del nucleo storico vicino alla “zarina” salviniana Susanna Ceccardi.
Assalto dei fedelissimi di Roberto Vannacci alle formazioni del Carroccio pure in Veneto, tra i maldipancia dei dirigenti del Carroccio di più lunga data, da Andrea Ostellari a Mario Conte e Alberto Stefani.
E così in Campania, dove si racconta di un commissario regionale leghista, Gianpiero Zinzi, sospettoso e contrariato per le mosse del generale. E in Puglia, nelle Marche, in Calabria.
“Portiamo aria fresca”, rivendica il luogotenente dei comitati del Mondo al contrario, Cristiano Romani. Al momento sembra esclusa una candidatura in prima persona del generale nelle liste, ma mai dire mai. Perché in tutte le Regioni dove si vota in autunno la “vannaccizzazione” delle liste sta creando alta tensione nella Lega
Chi conosce bene le fibrillazioni del mondo salviniano ci scherza su: “Avete presente la foto del generale con la cernia morta in cui deride la sinistra? Ecco, per il momento quella faccia la stanno facendo i leghisti che temono di essere schiacciati da lui alle regionali”.
E qualcosa di vero c’è. Perché Matteo Salvini nei mesi scorsi ha nominato il generale autore del controverso Mondo al contrario vicesegretario nazionale della Lega. E al primo banco di prova
elettorale – le elezioni regionali previste tra fine settembre e metà novembre – l’eurodeputato lancia l’arrembaggio. Mette in campo il suo peso. E spaventa la Lega, con cui sono in corso serrate trattative in tutti i territori.
(da La Repubblica)

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