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ESPLODE LA PROTESTA A OSLO PER LA PARTITA NORVEGIA-ISRAELE, MIGLIAIA IN PIAZZA, L’INNO DI ISRAELE SOMMERSO DAI FISCHI ALLO STADIO

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

STRISCIONI E BANDIERE PALESTINESI, INVASORE DI CAMPO CON MAGLIA FREE GAZA

Migliaia di persone in marcia. Con fumogeni. Bandiere della Palestina. Urlando “No al genocidio”. E “la partita non si deve giocare”. Iniziata un’ora prima del fischio d’inizio di Norvegia e Israele, a Oslo, una grande manifestazione pro Pal, con un fiume di persone in strada, la marcia verso lo stadio, blindatissimo con cordoni di polizia pronti a intervenire. Le forze dell’ordine hanno chiuso diversi ingressi, effettuando perquisizioni e riducendo il numero di spettatori ammessi.
I norvegesi si sono riuniti fuori dal Parlamento, molti indossano le maglie della nazionale palestinese. La Norvegia è stata in prima linea, la prima a chiedere alla Fifa l’esclusione di Israele dalle qualificazioni
Marciando verso lo stadio Ullevaal con bandiere palestinesi, i manifestanti si sono radunati all’esterno, promettendo di continuare fino al calcio d’inizio e oltre, mentre gli edifici vicini esponevano ai balconi striscioni pro Palestina.I fischi a Israele, l’invasore Free Gaza, gli striscioni
La partita è iniziata regolarmente. Lo stadio fischia l’inno di Israele. Fischia quando Israele è in possesso palla. Una delle due curve ha esposto un enorme striscione: “Lasciate vivere i bambini”, con una bandiera della Palestina accanto.
Un altro grandissimo striscione esposto dai tifosi norvegesi: “Mostra il cartellino rosso a Israele”
La partita è stata interrotta qualche minuto per l’invasione di campo di un uomo con la maglia “Free Gaza”.

(da agenzie)

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TREMILA IN CORTEO A BOLOGNA CON GLI ATTIVISTI DELLA FLOTILLA: “VIGILARE PERCHE’ SIA UNA PACE GIUSTA, MAI PIU’ GENOCIDIO”

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

“NON BASTA UNA FIRMA PER DIMENTICARE, IL POPOLO PALESTINESE DEVE AVERE DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE”

In corteo per Gaza nei giorni della tregua. Per chiedere una “pace giusta”, per gridare: “Mai più genocidio”. In tremila sfilano da piazza dei Martiri sino in via Rizzoli. Dietro lo striscione che apre il corteo c’è Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle comunità islamiche. E ci sono le attiviste bolognesi Sara Masi e Irene Soldati, imbarcate sulla Flotilla come Lafram, con la portavoce italiana Maria Elena Delia Delia.
“Siamo qui perché non basta una firma per dimenticare – dice Lafram – Siamo ovviamente felici che con l’accordo non cadano più le bombe, ma questo non risolve la questione di un popolo che viene massacrato dal 1948”.
In corteo anche il segretario della Cgil Michele Bulgarelli e altri rappresentanti sindacali come Federico Serra dell’Unione sindacale di base. Tra i partecipanti c’è l’attivista per i diritti umani e ex studente dell’Alma Mater Patrick Zaki. In corteo la vicesindaca Emily Clancy, l’assessore Michele Campaniello e il segretario provinciale del Pd Enrico Di Stasi.
Il corteo si è fermato sotto le Due Torri. Al centro di via Rizzoli
gli organizzatori hanno allestito un piccolo palco per i discorsi. Alla fine la manifestazione ha riempito tutta la via con migliaia di persone. Presente tra gli altri anche la vicesindaca Emily Clancy.
“Festeggeremo quando il popolo palestinese sarà libero”
“Potremo accettare di poter festeggiare quando il popolo palestinese sarà libero, non ci sarà più un’occupazione illegale e potrà autodeterminarsi” e i palestinesi “potranno scegliere loro che tipo di condizioni vivere nella loro terra”. Sono le parole di Maria Elena Delia, portavoce italiana della Global Sumud Flotilla.
“È stata un’esperienza molto intensa, settimane tra mare e sostegno da terra. Ci sono ancora tante cose da elaborare, ma è stata un’esperienza molto forte” racconta Irene Soldati. Parlando dell’impatto internazionale dell’iniziativa, Soldati ha spiegato: “Il pressing su Netanyahu è arrivato da tutte le parti. Noi, con il nostro gesto, abbiamo messo a disposizione le nostre capacità di attivismo e di navigazione per provare a rompere l’assedio. Anche le mobilitazioni da terra, che ci hanno soffiato il vento nelle vele, hanno contribuito a creare questo moto di solidarietà”. “C’era grande entusiasmo da parte di tutto l’equipaggio internazionale – ha aggiunto – persone dalla Malesia all’Uruguay gridavano ‘grazie Italia’, e io mi unisco a questo ringraziamento per il sostegno che abbiamo ricevuto”.
Sulla decisione di non essere rimpatriata immediatamente dopo
l’arresto da parte delle forze armate israeliane ma di attendere il processo, Soldati ha spiegato: “Non avevo mai incontrato un avvocato, e non volevo firmare nulla senza comprenderne il valore legale. Per questo ho scelto di restare due giorni in più: la mia famiglia ha poi pagato il biglietto per il rientro in Italia”. “Siamo sicuramente privilegiati” come italiani perché “il trattamento che abbiamo subìto non è nulla rispetto a quello riservato ai palestinesi”.
Lafram: “L’onda popolare va custodita”
“Questa onda popolare nata dal basso, di cui Bologna e l’Italia sono stati tra i protagonisti, questo patrimonio morale va custodito finché il popolo palestinese non avrà acquistato la sua piena autodeterminazione”. È L’auspicio di Yassine Lafram.
“Abbiamo rispetto per ogni vetrina, muro e cassonetto – dice – abbiamo rispetto per la nostra città. L’amore per il popolo palestinese non deve mai trasformarsi in odio verso le città”.
Lafram esorta: “Continuiamo a rimanere attenti e vigili a quello che accade in Palestina”. Grazie alla Flotilla, rivendica poi il presidente Ucoii, “siamo riusciti a fare quello che i governi internazionali non sono riusciti a fare perché hanno scelto inerzia, silenzio o addirittura complicità. Nessuno di noi avrebbe mai rischiato la propria vita su quelle barche se i governi avessero agito”. Con la Flotilla, insiste lafram, “abbiamo compiuto un atto di dignità collettiva e lo abbiamo fatto anche per tutti voi. Anche voi eravate a bordo con noi e ve ne siamo
grati”.
(da La Repubblica)

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FRANCESCA ALBANESE: “IL PIANO DI PACE TRUMP-NETANYAHU PER GAZA VIOLA IL DIRITTO INTERNAZIONALE E QUINDI È INACCETTABILE”

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

IL PARAGONE TRA I NAZISTI E I SOLDATI ISRAELIANI: “UN MILITARE DELLO STATO EBRAICO MI DISSE: ‘NON VEDIAMO BAMBINI’. LA MAGGIOR PARTE DEGLI ISRAELIANI NON VEDE I PALESTINESI COME ESSERI UMANI” … POI CHIEDE L’ARRESTO DI NETANYAHU: “NON CI PUO’ ESSERE UN PIANO DI PACE SENZA CHE GLI ARCHITETTI DEL GENOCIDIO FINISCANO IN PRIGIONE”

“Mi viene in mente una cosa che mi disse un soldato israeliano, anni fa. Alla domanda ‘perché fate questo ai bambini?’ e gli feci vedere un militare che prendeva a calci un ragazzino che giocava con la sua bicicletta. Lui mi disse ‘non ci sono bambini. Non vediamo bambini’.
Ho trovato la stessa frase negli atti del processo di Norimberga. Un soldato nazista a cui è stato chiesto ‘perché ammazzavate tutti?’ rispose: ‘Perché sarebbero stati, gli ebrei, un problema per la nostra sicurezza, erano una minaccia per la nostra esistenza di razza ariana’. Nella violenza contro i bambini, capisco che i prodromi di questo genocidio erano già là. (La violenza disumanizzante contro i palestinesi è frutto di una disumanizzazione che è a monte. La maggior parte degli israeliani non vede i palestinesi come esseri umani…
“Il piano di pace Trump Netanyahu per Gaza viola gravemente il diritto internazionale e quindi è inaccettabile” lo ha detto Francesca Albanese al festival di Fanpage.it Rumore
Secondo la relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi, il piano “lede il principio di autodeterminazione del popolo palestinese” perché “prevede una sorta di protettorato” che “sarebbe stato illegale già nel 1948 ed è “un abominio tirarlo fuori nel 2025”.
“Mi ha molto meravigliato il plauso di molti stati e del segretario ONU. Il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi non è il diritto a uno stato ma il diritto a decidere per sé, come quando si raggiunge la maggiore età. Si devono determinare da soli e scegliere loro chi votare, chi li governerà e come disporre delle proprie risorse. È un principio che viene leso da questo piano” ha spiegato Albanese dal palco del Festival.
“Questo piano va ad acuire la frammentazione dei palestinesi: si parla di Gaza ma non si parla della Cisgiordania e soprattutto rimane il controllo da parte di USA e Israele e gli Usa non sono uno stato terzo. Si chiama piano di pace ma è l’imposizione di una nuova occupazione ma quasi per procura. Invece di essere direttamente amministrata da Israele, ci sono gli Stati Uniti che fanno da garante attraverso un vicerè come Blair. Non si capisce perché si dovrebbe accettare una situazione del genere” ha sottolineato la relatrice Onu accusando anche il piano di Trump per la ricostruzione della Striscia: “Mancano all’appello diecimila persone, non si contano più i morti e non si può proporre un piano di ricostruzione edilizia per Gaza”.
“L’unico piano di piace proponibile è uno che dà attuazione al diritto così com’è e c’è già una Corte che si è pronunciata: L’occupazione è illegale e Israele deve ritirarsi e smantellare le colonie. In questo momento invece vige l’impunità più assoluta” ha spiegato ancora Albanese, ricordano inoltre che “Gaza non è uno stato a sé, bisogna sempre parlare anche della Cisgiordania”
dove “c’è già una annessione, è sotto il controllo quasi totale di Israele e i coloni vanno dove vogliono e possono assalire chiunque nell’impunità più totale”.
“La colonizzazione è organica allo Stato di Israele”
Del resto secondo Albanese, “La colonizzazione è organica allo Stato di Israele. Le colonie sono un’estensione di Israele nel territorio occupato. Il genocidio a Gaza è aggravato da una situazione già presente, una situazione di colonialismo”. “Israele nel territorio palestinese occupato ha perseguito dal 1967 due finalità: Quello dello sfollamento dei palestinesi e la sostituzione dei palestinesi. Per sfollarli ha usato il settore privato che nel contempo ne ha tratto profitto.
Dalle armi alle macchine per distruggere edifici ai servizi di sorveglianza per evitare che i palestinesi ritornassero. Per la sostituzione e la costruzione delle colonie sono serviti cemento, macchinari, costruzione di servizi e reti stradali. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza le imprese che rispondevano ai bandi per costruire. È servito un circuito che poi ha normalizzato l’occupazione. Poi ci sono i facilitatori come le banche e i fondi pensione e le università” ha elencato la relatrice speciale dell’Onu.
(da Fanpage)

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GAZA E’ UN GRAN BUFFET: PER LA RICOSTRUZIONE SERVIRANNO 80 MILIARDI DI DOLLARI- E’ UN PIANO CHE VALE CIRCA UN SESTO DI QUELLO UCRAINO (524 MILIARDI DI DOLLARI), MA LA CONCENTRAZIONE DI SPESA È SENZA PRECEDENTI SE LA SI APPLICA A UN TERRITORIO DI APPENA 365 CHILOMETRI QUADRATI E POCO PIÙ DI DUE MILIONI DI PERSONE

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

SCALDANO GLI APPETITI I GRANDI GRUPPI AMERICANI, BRITANNICI, DEL GOLFO E ITALIANI… LE MACERIE STIMATE SUPERANO I 40 MILIONI DI TONNELLATE E LA LORO RIMOZIONE POTREBBE RICHIEDERE PIÙ DI DIECI ANNI

Nessuno la chiamerà apertamente «miniera d’oro immobiliare», come ha fatto il ministro ultranazionalista israeliano Bezalel Smotrich. Ma la ricostruzione di Gaza […] con i suoi miliardi di dollari di lavori e quasi 200 mila edifici da rifare, si annuncia esattamente così: il più grande cantiere del Medio Oriente. Sarebbero bastate già le cifre dell’Irdna (Interim Rapid Damage and Needs Assessment), la valutazione congiunta di Onu-Ue-Banca Mondiale, che a febbraio stimava il costo per rimettere in piedi la Striscia in 53,2 miliardi di dollari spalmati su dieci anni, di cui 20 miliardi nei primi tre.
Ma il conto è inevitabilmente salito sotto i colpi dei bombardamenti e dei tank israeliani: le stime aggiornate della Banca Mondiale indicano ora ben 80 miliardi di dollari, una cifra pari a quattro volte il pil combinato di Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022. il piano per Gaza con i costi aggiornati vale circa un sesto di quello ucraino (524 miliardi di dollari), ma la concentrazione di spesa è senza precedenti se la si applica a un territorio di appena 365 chilometri quadrati e poco più di due milioni di persone.
Vale a dire che si spenderanno circa 40mila dollari per ogni
abitante. Per la conta dettagliata dei danni materiali tra abitazioni rase al suolo, reti idriche ed elettriche inservibili, scuole e ospedali distrutti, bisogna fermarsi alle stime Irdna di febbraio, che calcolavano circa 30 miliardi.
Ma uno studio radar satellitare di giugno 2025 (Active InSar Monitoring of Building Damage in Gaza,) ha portato a 191mila edifici danneggiati o ridotti in briciole, circa tre quinti del patrimonio urbano della Striscia. Le macerie stimate superano i 40 milioni di tonnellate e la loro rimozione potrebbe richiedere più di dieci anni. Proseguendo nella contabilità post-guerra, secondo l’Oms, serviranno oltre 7 miliardi per rimettere in piedi i servizi sanitari.
Già a inizio marzo la Lega Araba aveva abbozzato il Gaza Reconstruction Plan, finanziato da Qatar, Emirati, Arabia Saudita ed Egitto, sotto il coordinamento della World Bank e delle Nazioni Unite.
La World Bank e l’Undp, il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, stanno predisponendo i primi «early recovery contracts» dando la priorità alla rimozione delle macerie e la ricostruzione di infrastrutture idriche e sanitarie.
La Bei e la Commissione europea lavorano a una sorta Gaza Reconstruction Facility sul modello ucraino e a fine settembre hanno annunciato la firma con l’Autorità monetaria palestinese di una linea di credito da 400 milioni di euro per sostenere la ripresa economica e la resilienza del settore privato in Palestina
Il documento Irdna prevede una filiera integrata di imprese locali e internazionali, dalle demolizioni al project management. Le agenzie multilaterali puntano a combinare operatori palestinesi e contractor Mena per i lavori di base, con società europee e asiatiche nei ruoli di supervisione, utilities e ingegneria ambientale. […] I settori a maggiore impatto sono housing, con domanda immediata di prefabbricati, acqua ed energia, desalinizzazione e micro-reti elettriche
I gruppi dell’area Mena, che comprende il Medio Oriente e il Nord Africa, si stanno posizionando per i futuri bandi multilaterali: le egiziane Orascom Construction e Arab Contractors, la libanese-qatariota Consolidated Contractors Company, l’Organi Group, le turche Limak Holding e Tekfen, insieme al colosso immobiliare Talaat Moustafa Group, figurano già nei dossier preliminari della Lega Araba.
La regia della Casa Bianca negli accordi di pace garantisce un ruolo alle aziende Usa. Bechtel, Aecom e Fluor sono pronte per i primi progetti infrastrutturali, come reti idriche e sanitarie. Caterpillar, fornitore globale di macchinari pesanti, potrebbe essere coinvolta nella logistica e nella rimozione delle macerie.
Si scalda anche il Regno Unito. i gruppi di ingegneria Arup e Mott MacDonald figurano tra i possibili advisor tecnici, forti di precedenti collaborazioni con la Banca Mondiale in Libano e Giordania. Alcuni analisti indicano anche Balfour Beatty come possibile partner per opere infrastrutturali finanziate dai fondi
arabi e multilaterali.
Tra i big italiani e dell’eurozona. A piazza Affari, per esempio, si è messo subito in luce il comparto costruzioni e materiali, con Cementir, Buzzi e Webuild tra i titoli più esposti in Italia. In particolare, secondo Banca Akros, Cementir «potrebbe beneficiare della fine dei conflitti in Ucraina, Siria e nella Striscia di Gaza» grazie alla forte presenza in Turchia che la colloca nella posizione ideale per servire i cantieri dell’area. […] una spinta è arrivata anche a Saint-Gobain, Vicat, Holcim, Heidelberg Materials, Vinci e Bouygues.
(da MF – Milano Finanza”)

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SCHIFANI E’ FINITO A STRACCI CON FRATELLI D’ITALIA E LA MAGGIORANZA CHE LO SOSTIENE SI SPACCA SULLA MANOVRA (ANCHE GRAZIE AL VOTO SEGRETO)

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

IL PARTITO DELLA PREMIER NON VUOLE PIÙ AVALLARE UNA GESTIONE AMMINISTRATIVA CONSIDERATA VERTICISTICA, CHE NEMMENO SULLE POLTRONE PIÙ CALDE TIENE IN CONSIDERAZIONE IL PARERE DEI MELONIANI … E NEL MIRINO FINISCE IGNAZIO LA RUSSA, GRANDE SPONSOR DI SCHIFANI

Nello stillicidio di queste ore, e in attesa di un vertice di maggioranza che faticherà a ricucire lo strappo, il dato politico inconfutabile è che Renato Schifani non gode più della fiducia di Fratelli d’Italia. Le avvisaglie, all’indomani della conferma di Salvatore Iacolino alla Pianificazione strategica, c’erano tutte
Ma in aula, alla prova della manovra-quater, sono diventate plastiche: non solo i patrioti avrebbero usato il “voto segreto” (le smentite di rito fanno parte del gioco) per infliggere una coltellata alle ambizioni del governatore; ma sono rimasti in aula per dare prova di responsabilità e assumersi il merito delle poche norme approvate. Sottolineando, persino, la pavidità di chi ha preferito abbandonare i lavori (Lega, Dc e Forza Italia): “Se altri partiti della maggioranza invece di scegliere l’Aventino fossero rimasti, probabilmente sarebbero stati approvati più articoli. Attribuire a Fratelli d’Italia 17 franchi tiratori è una
mistificazione della realtà”.
Schifani ha ben altre preoccupazioni. Qualche giorno fa era stato il commissario regionale Sbardella a metterlo in guardia dai prossimi “giorni infuocati”. E lo stesso governatore – per superare l’impasse – sembrava dovesse volare a Roma per ricevere le rassicurazioni che da tre anni lo tengono a galla: quelle del presidente del Senato, Ignazio La Russa (fu lui a sceglierlo da una terna di nomi proposta da FdI a Berlusconi). Non è accaduto. E non è chiaro se l’incontro – noto ai giornali – sia saltato per volontà dell’uno o dell’altro. Farebbe tutta la differenza del mondo.
Il fatto nuovo è questo: Fratelli d’Italia non segue più Schifani. Il partito della premier non sembra più disposto ad avallare una gestione amministrativa verticistica, che nemmeno sulle poltrone più calde (vedi il Direttore generale dell’Asp di Palermo o il Direttore sanitario dell’Asp di Catania) tiene in debita considerazione il parere dei meloniani. E’ cambiato molto, quasi tutto, rispetto ad alcuni mesi fa, quando il presidente della Regione decise di fare un passo indietro persino di fronte all’insolenza e alla volgarità di certe dichiarazioni: come quella di Manlio Messina, ex vicecapogruppo di FdI alla Camera, che lo accusò di non saper leggere le carte sull’affare Cannes.
Schifani ha graziato un paio di volte l’assessore al Turismo Elvira Amata: innanzi tutto, confermandola nel ruolo di governo nonostante la richiesta di raccomandazione rivolta a Marcella
Cananriato, alias lady Dragotto, per far assumere il nipote in una società di brokeraggio (episodio che porterà la Procura di Palermo a iscriverla nel registro degli indagati per corruzione);
Schifani aveva anche acconsentito a un paio di eccezioni nella composizione della giunta. Dopo aver spiegato che avrebbe nominato solo assessori-deputati, da via della Scrofa partì una richiesta di deroga per Francesco Scarpinato ed Elena Pagana: il primo, figlio della corrente turistica; la seconda, moglie dell’ex assessore Razza. Entrambi bocciati nelle urne, furono accolti in giunta senza toni trionfalistici […] Schifani ha resistito alla tentazione di liquidare lo stesso Scarpinato dopo i fattacci di Cannes (compreso l’affidamento diretto di 3,7 milioni alla Absolute Blue) e a seguito del rapporto quasi-privilegiato con il sindaco di Messina Cateno De Luca, ai tempi un oppositore feroce di Renato nostro.
Nei confronti di Scarpinato perse le staffe più volte, ma dopo la furia è sempre arrivato il perdono Il presidente aveva temporeggiato persino sulla vicenda di Ferdinando Croce, poi costretto a dimettersi dall’Asp di Trapani dopo lo scandalo dei referti istologici in ritardo. E giusto qualche settimana fa, a Ragalna, si era presentato al cospetto di La Russa per continuare a coltivare un’amicizia proficua, espressione – anche – di una legittima ambizione: essere ricandidato. Non aveva messo in conto, Schifani, cosa sarebbe potuto accadere nei giorni seguenti. Le nomine, la manovrina, la Caporetto.
Pensava di aver trovato un alleato fedele in un altro meloniano di ferro, un po’ debilitato dalle inchieste; ma anche con Galvagno, adesso, c’è maretta. Una reazione indotta dal comportamento del presidente dell’Assemblea, che in aula ha punzecchiato il governo (nella persona dell’assessore Dagnino) ed elogiato senza mezzi termini le scelte dei patrioti e del Mpa. Cioè i due fustigatori dell’esecutivo.
Non tira una bella aria, ma questa volta neanche La Russa potrà fare miracoli. Al massimo potrà metterci una pezza e garantire che FdI prosegua nell’azione di governo, senza sancire la spaccatura dell’appoggio esterno (già ipotizzato da ambienti vicini al gruppo parlamentare). Ma non è chiaro quali margini di manovra possa permettersi il presidente del Senato. La Meloni, nelle ultime settimane, ha manifestato una profonda insofferenza per lo stato dei fratelli in Sicilia.
Dal caso Auteri alle dimissioni del Balilla, dall’inchiesta della Procura di Palermo su Galvagno e Amata fino all’insediamento di Sbardella al posto dei due ex coordinatori, troppi eventi hanno inficiato l’immagine pubblica dei patrioti e la premier non può mostrarsi complice di questa deriva.
Chi ha deciso le sorti del partito nell’Isola, prima Messina poi lo stesso La Russa, hanno contribuito a questo scenario da Vietnam. Hanno portato FdI ad allontanarsi progressivamente dal baricentro della coalizione, l’hanno spinto in aperto contrasto con Schifani e con il suo “cerchio magico” Hanno portato
un gruppo di amici e protettori a trasformarsi in un clan di nemici e detrattori. Ripartire da queste basi per imporre il bis dell’uscente, francamente, appare un eccesso. Un atto di fede privo di logica. E allora, da dove ricominciare?
(da .buttanissima.it)

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LA SOLITA GIRAVOLTA DELLA CAMALEONTE MELONI: FRATELLI D’ITALIA ESULTA ORA CHE STANDARD & POOR’S ALZA IL RATING TRICOLORE (TE CREDO: I FONDI AMERICANI, DA KKR A BLACKROCK, SI STANNO PAPPANDO TUTTO)

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

FORSE HANNO DIMENTICATO COSA DICEVA MELONI DELLE AGENZIE DI RATING, UN TEMPO OSTEGGIATE PER “L’AZIONE DI DELEGITTIMAZIONE DEL NOSTRO PAESE” . A LUGLIO 2012, MELONI DEFINI’ LE AGENZIE DI RATING DEI “PAGLIACCI” – A OTTOBRE 2018, LA SORA GIORGIA TORNÒ AD ATTACCARE DOPO CHE PROPRIO STANDARD & POOR’S ASSEGNÒ ALL’ITALIA UN OUTLOOK NEGATIVO: “UN PRONOSTICO SULL’ECONOMIA ITALIANA ATTENDIBILE COME UNA PREVISIONE DI UNA CARTOMANTE. ORA SPERIAMO DI NON DOVER PERDERE ALTRO TEMPO APPRESSO A QUESTE INUTILI AGENZIE DI RATING”

L’11 aprile l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha alzato il rating dell’Italia da BBB a BBB+. In concreto, significa che, secondo questa agenzia, il nostro Paese è ora considerato un po’ più affidabile nel ripagare il proprio debito pubblico.
La notizia è stata accolta con entusiasmo da Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Sulle sue pagine social ufficiali – Facebook, Instagram e X – Fratelli d’Italia ha dedicato finora almeno quattro post per commentare la decisione dell’agenzia di rating. In uno di questi si legge: «La stabilità del governo Meloni e la sua buona politica rassicurano i mercati. Anche oggi è stata smentita la propaganda anti italiana della sinistra». E ancora: «Promossa l’Italia, bocciata l’opposizione. L’economia italiana gode di ottima salute e il merito è del governo guidato da Giorgia Meloni».
Non è la prima volta che Fratelli d’Italia e altri esponenti del
governo usano gli aggiornamenti delle agenzie di rating per rivendicare i risultati del governo, esagerando a volte nelle dichiarazioni.
Eppure, fino a poco tempo fa, Meloni e il suo partito avevano opinioni molto diverse sull’affidabilità delle agenzie di rating. Questi istituti, che valutano la capacità degli Stati di ripagare i loro debiti, venivano accusati di tramare contro l’Italia e di agire secondo interessi privati.
Speculatori contro l’Italia
L’avversione di Meloni contro le agenzie di rating risale a diversi anni fa. A gennaio 2012, durante il governo Monti, la leader di Fratelli d’Italia – all’epoca deputata del Popolo della Libertà – firmò un’interrogazione parlamentare per chiedere al governo quali iniziative intendesse «assumere per contrastare con fermezza» l’«azione di delegittimazione del nostro Paese» da parte delle agenzie di rating. Nell’interrogazione si chiedeva che fosse «reso noto chi sono i veri proprietari o azionisti delle società di rating in grado di mettere a repentaglio la sicurezza economica di milioni di cittadini, standosene anonimamente “asserragliati” nei loro grattacieli senza responsabilità alcuna».
Il governo Monti era entrato in carica a novembre 2011, dopo le dimissioni del quarto governo Berlusconi per via della crisi finanziaria che aveva colpito l’Italia pochi mesi prima. In quel periodo, diversi politici di centrodestra – tra cui Meloni – e alcuni giornali vicini a Berlusconi vedevano nei giudizi negativi
delle agenzie di rating una delle cause della crisi e accusavano queste agenzie di aver orchestrato un attacco speculativo contro l’Italia per provocare la caduta del governo.
A luglio 2012, Meloni chiese al governo Monti di impegnarsi a favore della creazione di un’agenzia di rating europea, definendo le agenzie di rating dei «pagliacci».
I manovratori occulti
Negli anni successivi, Meloni ha continuato ad attaccare le agenzie di rating, accusandole di essere inaffidabili e di influenzare negativamente gli equilibri politici italiani.
A aprile 2017, durante il governo Gentiloni (Partito Democratico), l’agenzia di rating Fitch abbassò il rating dell’Italia da BBB+ a BBB, sostenendo che era aumentato il rischio di «un governo debole o instabile». «Le agenzie di rating declassano l’Italia a BBB. Eppure gli ultimi quattro governi li hanno scelti loro», commentò Meloni su Twitter, alludendo al fatto che il governo Gentiloni, Renzi, Letta e Monti fossero arrivati alla guida dell’Italia con il consenso delle agenzie di rating.
A maggio 2018, ospite a L’Aria che tira su La7, Meloni criticò il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per non aver accettato la nomina dell’economista Paolo Savona come ministro dell’Economia nel primo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega. Meloni definì «gravissimo» il fatto che Mattarella avesse motivato la sua decisione perché
preoccupato «per i risparmiatori e per le agenzie di rating».
Pochi mesi dopo, a ottobre 2018, Meloni tornò ad attaccare dopo che Standard & Poor’s assegnò all’Italia un outlook negativo. L’outlook è una previsione sul futuro andamento del rating: se l’outlook è negativo, vuol dire che il rating può essere abbassato in futuro, se è positivo, vuol dire che il rating può essere alzato. La leader di Fratelli d’Italia scrisse che quel pronostico era «attendibile come una previsione di una cartomante» e definì le agenzie «inutili».
Da quando è al governo, Meloni e altri esponenti di Fratelli d’Italia hanno comunque ricordato in alcune occasioni le critiche espresse in passato nei confronti delle agenzie di rating o di altri indicatori economici, come lo spread (che misura la differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi). Per esempio, durante un question time al Senato, nel novembre 2023, Meloni ha esaltato i buoni risultati del rating italiano, precisando però che secondo lei le agenzie «di solito non sono “buone”, per così dire» nei confronti dell’Italia.
(da Pagellapolitica)

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ALBERTO TRENTINI È STATO ARRESTATO PER “VENDETTA”. “DOMANI” RIVELA CHE IL COOPERANTE VENETO, DETENUTO IN VENEZUELA DAL NOVEMBRE DEL 2024, SAREBBE FINITO NEL MEZZO DI UNA RITORSIONE POLITICA DI MADURO CONTRO ROMA

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

IL MOTIVO? DUE MESI PRIMA DELL’ARRESTO DEL 45ENNE ITALIANO, LA PROCURA CAPITOLINA HA ARCHIVIATO TUTTE LE ACCUSE NEI CONFRONTI DI RAFAEL RAMIREZ, UNO DEGLI OPPOSITORI PIÙ TEMUTI DAL REGIME DI MADURO E DELFINO DI HUGO CHAVEZ … RAMIREZ, CHE RISIEDE IN ITALIA DA ALMENO 5 ANNI, ERA ACCUSATO DI ALCUNI REATI TRA CUI PECULATO E RICICLAGGIO. CARACAS NE AVEVA CHIESTO L’ESTRADIZIONE

Il motivo dell’arresto di Alberto Trentini è da ricercare nel rapporto tra l’Italia e Rafael Ramirez, uno dei principali oppositori di Nicolás Maduro. È questo ciò che è riuscito a ricostruire Domani incrociando fonti vicine a Palazzo Chigi con altre legate all’opposizione venezuelana. Per capire cosa lega Trentini a Ramirez, bisogna partire da quanto successo due mesi prima dell’arresto del cooperante italiano a Caracas.
È la metà di settembre del 2024 quando il Tribunale di Roma accoglie le richieste della procura capitolina e archivia tutte le accuse nei confronti di Rafael Daroo Ramirez Carreño. Uno degli oppositori più temuto dal regime di Maduro, delfino di Hugo Chavez e custode di innumerevoli segreti del regime socialista, era indagato dalla giustizia italiana per le ipotesi di peculato e riciclaggio. Reati che avrebbe commesso quando ricopriva la carica di numero uno di Pdvsa, di gran lunga la più importante azienda pubblica del paese data l’importanza del greggio per il Venezuela.
L’archiviazione disposta dai giudici romani è un duro colpo per il regime di Maduro.
Rappresenta l’ultima vittoria giudiziaria di Ramirez, che già aveva ottenuto dall’Italia lo status di rifugiato, nonostante le pressioni dei venezuelani sui nostri apparati.
Ma chi è davvero Ramirez? E perché è considerato così importante da Maduro? Ingegnere meccanico, classe 1964, oggi si definisce «militante rivoluzionario, chavista e bolivariano» A differenza di Juan Guaidó, oppositore del regime appoggiato dagli Stati Uniti, lui è il nemico interno per Maduro, l’avversario socialista per certi aspetti il più temibile.
Il suo curriculum spiega da sé i motivi per cui Maduro lo teme. Ramirez è stato infatti uno dei più longevi ministri dei governi guidati da Chavez. Ha guidato il dicastero dell’Energia e del petrolio dal 2002 al 2013, ricoprendo per quasi tutto quel periodo la carica di presidente e amministratore delegato di Pdvsa. In seguito è stato per un breve periodo ministro degli Esteri e, fino al novembre del 2017, rappresentante permanente del Venezuela presso le Nazioni Unite, a New York.
Poi, su richiesta di Maduro, intanto subentrato a Chavez, si è dimesso dall’incarico diplomatico. Da quel momento non è più tornato in patria ed è diventato uno dei più feroci critici del madurismo.
Da almeno cinque anni Ramirez vive in Italia insieme alla sua famiglia, ed è infatti da noi che il regime di Maduro è venuto a
cercarlo. Nell’ottobre del 2020 il governo venezuelano ha richiesto formalmente a Roma la sua estradizione, accusandolo di alcuni reati tra cui peculato e riciclaggio. La richiesta di valutare l’estradizione è stata accettata dall’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ed è proseguita come da prassi per via giudiziaria. Nel luglio del 2021 la Procura generale presso la corte d’appello della capitale ha dato l’ok all’estradizione.
Nel frattempo, però, in tempi rapidissimi l’ex numero uno di Pdvsa è riuscito a ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato da parte della commissione prefettizia di Roma, che fa capo al ministero dell’Interno. Così, il 14 settembre del 2021, la corte di appello ha rigettato l’estradizione per motivi umanitari, e pochi mesi dopo è arrivata la conferma definitiva: nel gennaio del 2022 la Cassazione ha infatti ribadito che Ramirez non può essere consegnato a Caracas perché, al di là delle accuse nei suoi confronti, gode della protezione internazionale.
TEMPISTICHE SOSPETTE
A questo punto restava in piedi solo la possibilità che fosse la magistratura italiana a indagare su di lui ed eventualmente condannarlo (senza però estradarlo a Caracas), ma anche questo desiderio di Caracas non è stato esaudito. Ramirez era infatti accusato di vari reati che – secondo la tesi del governo venezuelano – avrebbe commesso quando era ministro dell’Energia e presidente della Pdvsa.
Semplificando al massimo, nel 2010 il delfino di Chavez
avrebbe favorito il gruppo saudita Petrosaudi sprecando così un sacco di denaro pubblico, circa 4,8 miliardi di dollari (da qui le accuse di peculato). Inoltre, dopo aver rotto i rapporti con il regime di Maduro ed essere fuggito all’estero, Ramirez sarebbe anche riuscito a far uscire dal paese, attraverso una rete di società offshore, denaro ottenuto illegalmente quando era alla guida dell’azienda pubblica di Caracas (da qui l’accusa di riciclaggio).
Nel maggio del 2024 la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione. I legali del governo venezuelano, che avevano presentato la denuncia, si sono opposti. A settembre di quest’anno sono stati però costretti ad arrendersi: il tribunale di Roma ha infatti accolto le richieste della procura e messo la parola fine alla vicenda giudiziaria. L’Italia non processerà l’oppositore di Maduro.
Parallelamente al procedimento penale, le autorità venezuelane hanno continuato a chiederne l’estradizione al ministero della Giustizia, ma, da quando appreso da Domani, il ministro Carlo Nordio non avrebbe finora mai preso in considerazione la richiesta. La risposta di Caracas è arrivata nemmeno due mesi dopo l’archiviazione del procedimento penale contro Ramirez: Trentini è stato arrestato.
Nei giorni scorsi la premier Giorgia Meloni ha fatto sapere di aver avuto una conversazione telefonica con Armanda Colusso, la madre di Trentini, e di averle assicurato che il governo vuole
percorrere «tutte le strade praticabili» per ottenere la liberazione del cooperante. «Il presidente Meloni – si legge in una nota di Palazzo Chigi – ha rinnovato la propria personale vicinanza e quella del governo alla famiglia dell’operatore umanitario italiano, che ha potuto ricevere una visita del Capo missione italiano a Caracas lo scorso 23 settembre». Difficile però capire in che modo la premier e i suoi collaboratori possano riuscire a risolvere la faccenda.
Quest’estate la Farnesina aveva provato a sbloccare l’impasse nominando come inviato speciale per i detenuti italiani in Venezuela Luigi Vignali, diplomatico di lungo corso, già consigliere per le relazioni internazionali di Finmeccanica (oggi Leonardo), negli ultimi otto anni direttore generale per gli Italiani all’estero.
Come avevamo scritto ad agosto, la nomina di Vignali era stata pensata dal governo per provare ad aprire un nuovo canale di dialogo con Caracas, visto che fino ad allora la responsabilità del dossier era stata in mano al ministro Antonio Tajani, i cui rapporti con il regime socialista di Maduro non avevano permesso di produrre alcun risultato soddisfacente.
Anche la carta Vignali, però, finora non si è finora rivelata risolutiva: ad agosto il diplomatico si è infatti recato in Venezuela, ma è stato respinto dalle autorità locali.
LA CARTA ENI
Una delle idee di Palazzo Chigi era quella di provare a ottenere il
rilascio di Trentini puntando sui circa 2 miliardi di euro di crediti che l’Eni vanta nei confronti di Caracas. Al 31 dicembre 2024, la partecipata pubblica italiana ha infatti dichiarato un’esposizione creditizia nei confronti di Pdvsa (azienda guidata fino al 2012 da Ramirez) pari a «circa 2,1 miliardi di euro».
La montagna di crediti deriva dal gas che Eni, insieme alla spagnola Repsol, estrae dal giacimento venezuelano chiamato Perla e utilizza per fornire elettricità alla popolazione locale. L’idea era quella di sacrificare i crediti vantati da Eni, o almeno una parte di essi, per ottenere la liberazione di Trentini. Secondo quanto appreso da Domani, questa strada non è stata finora considerata praticabile dal regime di Maduro, perché l’interesse del Venezuela resta sul rimpatrio di Ramirez.
Ma la richiesta di estradizione è teoricamente impossibile da soddisfare visto che la commissione prefettizia italiana gli ha già riconosciuto lo status di rifugiato.
L’arresto di Trentini s’inserisce nella cosiddetta “diplomazia degli ostaggi”, portata avanti da Caracas: arrestare cittadini stranieri innocenti per ottenere dei vantaggi, in questo caso la testa dell’oppositore Ramirez.
È la stessa tattica utilizzata con successo dall’Iran nel caso della giornalista Cecilia Sala, liberata a pochi giorni di distanza dal rilascio dell’ingegnere Mohamed Abedini Najafabadi. In quel caso, Meloni aveva dovuto ottenere il via libera di Trump (Abedini era ricercato dagli Stati Uniti), mentre qui la situazione
è diversa.
Resta in teoria un’altra carta negoziale che l’Italia potrebbe tentare di giocare: riconoscere il governo venezuelano come legittimo. Vorrebbe dire contraddire quanto dichiarato lo scorso 10 gennaio, dopo l’insediamento di Maduro per il suo terzo mandato. Ma significherebbe soprattutto prendere un’altra strada rispetto a Washington. Un’ipotesi che appare particolarmente lontana per Giorgia Meloni, adesso che la tensione tra il Venezuela e gli Stati Uniti è tornata ai massimi storici.
(da Domani)

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COM’È TRISTE VENEZI… LE PROTESTE CONTRO LA SUA NOMINA COME DIRETTRICE MUSICALE DELLA “FENICE” DI VENEZIA, NON SI FERMANO ALLO SCIOPERO PROGRAMMATO PER VENERDÌ 17: GLI OLTRE 300 LAVORATORI DEL TEATRO SONO PRONTI A FERMARSI PER L’INTERA STAGIONE E POTREBBERO CHIEDERE LE DIMISSIONI DEL SOVRINTENDENTE NICOLA COLABIANCHI

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

I SOVRANISTI SENZA VERGOGNA DIFENDONO LA “BACCHETTA” MELONIANA, MA I SINDACATI REPLICANO: “UN DIRETTORE MUSICALE DOVREBBE ESSERE SCELTA PER CURRICULUM E QUALITÀ RICONOSCIUTE”

La rivolta contro Beatrice Venezi non finirà con lo sciopero di venerdì 17, che farà saltare la prima del Wozzeck di Alban Berg. Se la nomina della direttrice musicale imposta dal governo
Meloni non sarà revocata dal sovrintendente della Fenice, Nicola Colabianchi, la lotta degli oltre 300 lavoratori del teatro veneziano, tra cui 175 orchestrali e artisti del coro, salirà di livello. I musicisti si dichiarano pronti a fermarsi per l’intera stagione, bloccando tutte le cinque recite del Wozzek, la prima della stagione lirica in novembre e perfino il concerto di Capodanno.
Già la prossima settimana potrebbe però partire la richiesta di dimissioni del sovrintendente, in carica da soli sette mesi, dopo che giovedì la sfiducia è stata messa nero su bianco.
La petizione che gli chiede di andarsene, avanzata dal gruppo “Sconcerto grosso”, in poche ore ha raccolto oltre 500 firme. L’appello che invoca invece un passo indietro di Venezi, è già oltre quota 15mila.
Venerdì, in un palcoscenico mondiale come Venezia, la protesta assumerà un profilo senza precedenti: assemblea pubblica in un campo del centro storico e concerto gratuito offerto alla città, sotto i riflettori dei media internazionali.
A preoccupare, il rifiuto di revocare l’imposta nomina della direttrice musicale, o le sue dimissioni, già anticipate da Colabianchi e dal sindaco Luigi Brugnaro.
Sulla Fenice in queste ore si scontrano visioni opposte. Il ministro alla Cultura Alessandro Giuli, gli esponenti di FdI schierati con Venezi, Colabianchi e Brugnaro, considerano prevalente il “fattore pop assicurato da social e numero di follower”.
Chi lavora alla Fenice pretende invece che un direttore musicale venga scelto “in base a curriculum e qualità riconosciute, dopo un percorso di conoscenza e fiducia” con i maestri dell’orchestra. «Sindaco e sovrintendente — dice il mezzosoprano Francesca Poropat — ci hanno chiesto perché siamo preoccupati. Dicono che Venezi è la regina di social e tivù e che siccome è giovane la Fenice farà il botto e potrà aumentare il prezzo dei biglietti. In realtà concerti e tournée, anche grazie al livello di direttori come Myung-whun Chung, sono esauriti da decenni: è umiliante accettare l’indifferenza totale per il valore artistico che un direttore musicale deve possedere».
«Ci accusano di sessismo — dice il violoncellista Marco Trentin — ma le donne sono la metà della Fenice. Ci accusano di essere di sinistra, ma la destra è in maggioranza anche tra noi. Abbassare il livello culturale, asservendo le sue istituzioni, è parte di un progetto di potere. Noi chiediamo una direzione musicale non imposta dalla politica e di livello-Fenice. Per questo tentano di liquidarci: speriamo che tutti comprendano la dimensione globale della posta in gioco a Venezia».
Nessuno cede: senza uno scatto di Venezi, invitata a dirigere in Georgia dalla nostra ambasciata si annunciano mesi di tristezza.
(da La Repubblica)

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“CONSIDERAVAMO L’OCCIDENTE UN ARGINE ALL’AUTORITARISMO. ORA RISCHIATE DI FINIRE COME NOI”: PARLA L’ARTISTA CINESE DISSIDENTE BADIUCAO, INVISO AL REGIME DI PECHINO E SCAPPATO IN AUSTRALIA

Ottobre 11th, 2025 Riccardo Fucile

“VI STATE CINESIZZANDO, LASCIANDOVI INCANTARE DALL’AUTORITARISMO RUSSO. SE PUTIN VINCE, XI JINPING INVADERA’ TAIWAN”… “IL REGIME CINESE CERCA DI INTIMORIRMI CON MINACCE DI MORTE SUI SOCIAL. MI MOLESTANO OVUNQUE VADA. OGNI MIA MOSTRA È ACCOMPAGNATA DA TENTATIVI D’INTIMIDAZIONE”

«La mia Cina, che ho abbandonato per non essere messo a tacere, non si accontenta più di censurare i suoi cittadini all’interno del Paese: esporta l’oppressione anche fuori. Chi come me critica il governo attraverso il soft power dell’arte, è preso di mira ovunque si trovi nel mondo e su tutte le piattaforme digitali».
Badiucao è l’artista dissidente nato a Shanghai nel 1986, che dopo aver iniziato la carriera esibendo anonimamente i suoi lavori – tanto da essere chiamato il “Banksy cinese” – fu identificato dalle autorità e costretto a fuggire in Australia. Fino al 2019 ha sempre indossato la maschera in pubblico, abbandonandola poi in occasione del trentesimo anniversario delle proteste di Piazza Tienanmen.
«So che ogni mio lavoro mi rende più indigesto al regime. Ho paura, ma non mi fermo», dice. Domani è l’ultimo giorno in cui è possibile visitare negli spazi di Exma a Cagliari la sua mostra Un cambiamento che non si vedeva da un secolo (frase pronunciata da Xi Jinping a Vladimir Putin).
Perché Pechino ha paura di lei?
«Tutti i regimi hanno paura di chi pensa controcorrente. I dittatori si sentono semidei, superiori agli esseri umani: non a caso Xi Jinping e Vladimir Putin hanno parlato di immortalità. Vogliono essere percepiti come divinità, controllare tutto. E purtroppo questo non accade più solo in Paesi autoritari come Cina, Russia e Iran. Anche l’America di Trump attacca arte e artisti per gli stessi motivi. Dovrebbe essere un monito. Un
tempo consideravamo l’Occidente un argine all’autoritarismo. Invece rischiate di finire come noi».
Come cercano di intimorirla?
«Con minacce di morte sui social o creando falsi account con il mio nome da dove spargono fake news su di me. E poi mi molestano costantemente, in Australia dove vivo e ovunque vada. Ogni mia mostra è accompagnata da tentativi d’intimidazione di ambasciate e consolati cinesi che scrivono ai governi, ai Comuni, ai galleristi dicendo che se mi ospiteranno, ci saranno conseguenze nelle relazioni diplomatiche ed economiche con la Cina.
Quando non basta, mandano i loro agenti. Mi seguono, mi fanno avere messaggi sinistri. È successo anche qui in Italia, quando esposi a Brescia nel 2021: alcuni cittadini cinesi vennero a stringermi la mano. Ripetendomi tutti lo stesso messaggio: “L’Italia è un Paese pericoloso, c’è la mafia, attento, potrebbero spararti per strada”».
Che cosa significa essere un artista dissidente?
«Significa non cercare solo la bellezza estetica, ma provare a toccare mente e anima con quel che metti nei tuoi lavori. Affrontare la missione impossibile di esprimersi quando la censura è ovunque.
Una battaglia difficile, ma che vale la pena combattere perché la libertà di parola, insieme all’ironia, sono le armi più efficaci contro gli autoritarismi. L’arte innesca pensiero e questo fa
paura, sanno che può distruggerli. Per questo cercano di portar via libertà, sperimentazione, espressione agli artisti.
Vogliono fare il lavaggio del cervello alla gente. Certo, paghiamo un prezzo alto. E non solo noi in prima persona: anche i nostri familiari, collaboratori, galleristi».
È in contatto con gli artisti rimasti in Cina?
«Impossibile: i contatti con me li metterebbero in pericolo. Non mancano gli artisti dissidenti underground, ma le loro voci sono soppresse. Di recente ci sono stati due casi clamorosi. Uno dei Gao Brothers è stato arrestato per una scultura vecchia di dieci anni che rappresentava un Mao pentito. Stessa sorte per i Nut, artisti ambientalisti, finiti in manette per il loro lavoro di denuncia sociale».
Pensa che le cose possano cambiare?
«Speravo in una spinta della classe media che dopo l’apertura del mercato ha mandato i figli a studiare all’estero. Invece vi state cinesizzando voi, lasciandovi incantare dall’autoritarismo: russo oltre che cinese. Per questo ritengo la questione degli aiuti europei all’Ucraina importante: se Putin vince, Pechino invaderà Taiwan, gli Stati Uniti la Groenlandia. Tutto andrà all’aria. Solo difendendo la democrazia qui in Europa arginerete l’autoritarismo degli altri».
Lei non ama essere paragonato a Banksy. Perché?
«Non mi fraintenda, è un onore essere comparato a lui. Ma trovo che ribellarsi all’interno di una democrazia occidentale sia
relativamente facile. Insomma, non mette nei guai la sua famiglia coi suoi murales. E poi lo trovo un po’ troppo silenzioso sull’Oriente. Perché limitare il proprio campo? Di recente io ho disegnato più vignette su Trump che su Xi: con la mia arte voglio contribuire a far aprire gli occhi a tutti».
(da Fanoage)

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