Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
SERVIZI DI SPYWARE SOLO AD AUTORITÀ ISTITUZIONALI: CI SONO APPARATI “FUORILEGGE”
Ogni giorno, oplà!, ne spunta uno. Secondo quanto ricostruito da Irpi Media e “La Stampa” lo scorso gennaio l’imprenditore editore Francesco Gaetano Caltagirone avrebbe ricevuto una notifica da Apple sul suo telefono della presenza di un software spia.
Il giorno dopo, il quotidiano diretto, ancora non si sa per quanto ancora, da Andrea Malaguti informa che anche Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit, avrebbe infatti ricevuto una notifica da Apple ad aprile del 2024, della presenza di un software spia sul suo telefono.
Oggi è la volta del giornale-ammiraglia del Gruppo Gedi, “La Repubblica”, a farci sapere che Apple ha avvisato, per ‘’una compromissione della mail’’, Flavio Cattaneo.
L’amministratore delegato di Enel, carissimo alla seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, ‘’ha presentato denuncia alla polizia postale ed è stato appurato che non si trattava di uno spyware Graphite della azienda israeliana, poi americana, Paragon ma di un altro software spia.
“Al momento non è possibile sapere se sui cellulari di Caltagirone e Orcel sia stato usato Graphite o un altro spyware)”, sottolinea Giuliano Foschini.
Quindi, non ci troviamo più davanti allo spionaggio di attivisti di Mediterranea (Luca Casarin e il sacerdote Mattia Ferrari) o di giornalisti (Cancellato e Pellegrino di Fanpage e Roberto D’Agostino di Dagospia), bensì di tre grossi protagonisti del mondo degli affari e della finanza.
Sostenuto attivamente dai Fratellini d’Italia, Caltagirone è il maggior interprete del risiko bancario in corso che, in groppa al
Cavallo di Troia del Monte dei Paschi di Siena, dopo la presa di Mediobanca, ora punta al vero obiettivo del risikone: espugnare il “forziere d’Italia” di Assicurazioni Generali,
Orcel è l’ad di Unicredit che, oltre al tentativo di dare la scalata al capitale della seconda banca tedesca, Commerzbank, ha avuto la cattiva idea di lanciare un’Opa su Banco Popolare di Milano (Bpm), guidata da Giuseppe Castagna, dimenticando che trattasi di una banca cara al sistema di potere della Lega sul territorio padano, cosa che non ha fatto assolutamente piacere al ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti.
Da Palazzo Chigi, tirando in ballo un’insostenibile “sicurezza nazionale”, è partita una controffensiva a colpi di prescrizioni (Golden Power) che alla fine ha costretto il determinatissimo Orcel a rinunciare alla scalata ma, nello stesso tempo, ha risposto alla “sconfitta di Stato” denunciando un atto, mai accaduto nella pur tumultuosa Repubblica italiana, alla Procura di Milano, dove i pm hanno aperto un’inchiesta, sia alla commissione europea ai servizi finanziari.
In paziente attesa di cosa deciderà di fare la Procura guidata da Marcello Viola, (che sullo scandalo urbanistico milanese è stata di una rapidità sorprendente), un lancio dell’agenzia Reuters ha riportato che la Commissione europea è pronta a spedire entro metà novembre due lettere di contestazione al governo italiano.
‘’Una in base all’art 21 comma 4 del regolamento sulla Concorrenza che intima di ritirare il Dpcm del 18 aprile, con cui Palazzo Chigi ha dato un via libera con prescrizioni (Golden
Power) all’operazione Unicredit-Banco Bpm… La seconda lettera fa riferimento invece a una procedura di infrazione delle regole comunitarie’’.
Per Bruxelles, i veti utilizzati sono stati sproporzionati e impediscono lo sviluppo del mercato unico dei servizi finanziari. Con le norme europee attualmente in vigore, la contestazione non ha fatto né caldo né freddo a Giorgetti che ha replicato serafico che le decisioni del governo rientrano nel perimetro della protezione della sicurezza nazionale e quindi è consentito agli Stati membri intervenire. Amen.
Quanto sopra per delineare il quadro gravissimo in cui lo spionaggio ha colpito un imprenditore (Caltagirone) e un manager (Orcel) che sono impegnatissimi in operazioni miliardarie che stanno ribaltando il sistema economico e finanziare del Belpaese (Cattaneo è solo un membro del cda di Generali entrato in quota Caltagirone).
Attenzione: i personaggi spiati illegalmente non sono, come si dice, nient’altro che la punta dell’iceberg. Gli “attenzionati”, infatti, sono molti, ma molti più numerosi. Se “Stampa” e “Repubblica” non li fanno smettere, vedrete, che ogni mattina sbucherà un nuovo e clamoroso nome che è stato avvisato di avere un bel spyware nel telefonino.
E qui si ritorna a bomba: chi spia chi? quali informazioni si voleva raccogliere? e per quale utilizzo? Perché Caltariccone, pur proprietario del “Messaggero”, non ci ha mai fatto sapere di essere finito sotto ascolto e solo dieci mesi dopo il fattaccio
viene portato alla ribalta dalla torinese “La Stampa”?
Come nel caso degli accessi abusivi del finanziere Striano alla Procura antimafia (finiti in chissà qualche scantinato), anche nel pasticciaccio brutto di “Caltaspia”, Orcel, Cattaneo, i mandanti dello spionaggio non possono essere troppo lontani dall’area del potere, in quanto Paragon fornisce i suoi servizi di spyware solo ad autorità istituzionali.
A questo punto, il caso è cornuto: o si sono tutti spiati da soli oppure, attraverso il sottosegretario con delega ai servizi segreti, il pio Alfredo Mantovano, la Presidenza del Consiglio deve chiarire in Parlamento se ci sono apparati di stato “fuorilegge” in azione, chi aveva interesse a ficcare il naso nella vita e negli affari dei protagonisti del risiko bancario.
Meloni e camerati hanno il dovere di rispondere chi è stato perché se lo Stato entra nei cellulari dei cittadini, non c’è più democrazia.
(da agenzie)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
A 40 ANNI DALLO SCONTRO TRA ITALIA E STATI UNITI PER LA CATTURA DEI DIROTTATORI DELLA “ACHILLE LAURO”, GIULIANO AMATO RICORDA: “NON ERA UN’EPOCA IN CUI IL DIRITTO INTERNAZIONALE VALEVA FINO A UN CERTO PUNTO…LO FACEMMO VALERE FINO IN FONDO, NONOSTANTE LA PRUDENZA VERSO GLI AMERICANI SUGGERISSE DI ACCONSENTIRE ALLE LORO RICHIESTE”
“A Sigonella fu difesa la sovranità nazionale con una fermezza che era mancata nella storia
repubblicana precedente e che raramente avremmo visto nei quarant’anni successivi. Non era un’epoca in cui il diritto internazionale valeva fino a un certo punto… Lo facemmo valere fino in fondo, nonostante la prudenza verso gli americani suggerisse di acconsentire alle loro richieste».
Da quel 12 ottobre del 1985, epilogo del braccio di ferro con Ronald Reagan nella crisi di Sigonella, è passata un’era geologica. Ma Giuliano Amato, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ripercorre nel dettaglio la vicenda
Come seppe del sequestro dell’Achille Lauro?
«Una telefonata del presidente Craxi nella notte: un gruppo di terroristi palestinesi teneva in ostaggio quattrocento civili nella nave da crociera italiana che navigava in acque egiziane. Convocai subito un consiglio di gabinetto con Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, e Giovanni Spadolini, ministro della Difesa. Ne faceva parte anche Renato Altissimo, ministro dell’Industria. E conoscendo le abitudini sue e di De Michelis, lo feci cercare a colpo sicuro al Tartarughino, lo storico piano bar di via Veneto».
Non fu una riunione sobria.
«Lasci perdere Altissimo, costretto a molti caffè. Rimasi colpito da Spadolini, che arrivò già attrezzato con un piano militare di assalto alla nave. Andreotti fu il primo a dire: andiamoci piano. E Craxi concordò che occorreva trovare una soluzione non rischiosa per i quattrocento ostaggi».
A quel tavolo si confrontavano due visioni politiche diverse: Craxi e Andreotti più dialoganti con i palestinesi, Spadolini filoisraeliano e vicino agli americani.
«Gli americani erano i guardiani del Mediterraneo, e del resto continuano a esserlo tuttora. Ma in quella fase ancora non si erano fatti vivi. Craxi pensò di rivolgersi ad Arafat. Si fidava di lui. E Arafat gli indicò come mediatore Abu Abbas, dicendosi sicuro che avrebbe raggiunto un accordo con i palestinesi a bordo. Ci credo! Era lui il regista dell’operazione, ma noi non lo sapevamo».
Possibile che uomini accorti come lei, Craxi, Andreotti, vi siate lasciati ingannare?
«Posso assicurare che nessun sospetto sfiorava Craxi. Forse gli faceva velo la sua amicizia con il leader dell’Olp».
La negoziazione sembrava arrivata al traguardo — liberi gli ostaggi, il salvacondotto per i sequestratori — quando giunse la notizia dell’uccisione a bordo di un passeggero.
«Ricordo come se fosse ieri l’improvviso pallore sul volto di Bettino. Nella sua stanza affacciata su via della Missione, ci preparavamo ad annunciare al Paese il successo italiano. Prima però, colto da una strana inquietudine, Craxi volle sentire al
telefono il comandante della nave De Rosa, il quale gli diede la notizia tenuta nascosta: i palestinesi avevano ammazzato l’ebreo americano Leon Klinghoffer. Una tragedia politica, oltre che umana. La conferenza stampa avrebbe mutato segno».
Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre i caccia statunitensi intercettano l’aereo egiziano su cui viaggiano i terroristi con i “mediatori”, costringendolo ad atterrare nella base militare di Sigonella.
«Craxi riceve una telefonata di Ronald Reagan. Tra loro il dissenso è totale. Il presidente americano vuole portare i palestinesi negli Usa perché la vittima è un americano; Craxi difende il diritto di processarli in Italia perché l’omicidio è avvenuto in una nave italiana».
Ma c’è anche la questione di Abu Abbas: gli americani lo ritengono colpevole.
«Craxi non ha elementi per giudicarlo tale. Ma, in ogni caso, è un affare che riguarda l’Italia. Nella notte parte l’ordine per il comando militare di Sigonella di accerchiare l’aereo egiziano. Contro i carabinieri e gli avieri italiani puntano le armi i soldati americani, composti in circolo alle spalle dei nostri. E poi, di seguito, si forma un terzo cerchio di militi armati. La scena è da film, ad alta tensione. Uno di quei carabinieri mi confessò la sua angoscia: aveva avuto paura di non uscirne vivo».
Il braccio di ferro viene vinto dall’Italia. Gli americani ufficialmente si ritirano.
«Solo ufficialmente, però. Io ero a Ciampino, con il consigliere Antonio Badini e Renato Ruggiero, quando sulla pista atterra l’aereo egiziano con i terroristi e anche Abu Abbas, scortato clandestinamente da un velivolo americano che si ferma a un passo dalla vetrata: l’ala sfiorava il salottino dove ci eravamo seduti nell’attesa. Ci fu tra noi uno sguardo d’intesa, sicuri bersagli dello spionaggio statunitense. Così ci accucciammo sotto le poltrone, continuando a confabulare sottovoce».
L’indomani lei avrebbe convocato un altro consiglio di gabinetto.
«Sì, nella notte l’ambasciatore americano Rabb aveva fatto avere a Martinazzoli quelle che riteneva le prove schiaccianti contro Abu Abbas, ma i magistrati del ministero della Giustizia non le ritennero sufficienti. Così lasciammo partire Abu Abbas a Belgrado e restituimmo finalmente a Mubarak l’aereo egiziano con il suo personale. Il giorno dopo Spadolini, che prudentemente si era sottratto a ogni decisione, provocò la crisi di governo».
L’episodio rappresentò un’eccezionalità nella storia italiana.
«A Sigonella fu difesa la sovranità nazionale con una fermezza che non s’era mai vista in un Paese uscito sconfitto dalla guerra e costretto a molti compromessi rimasti segreti. Una vicenda che avrebbe lasciato un segno nella storia italiana».
Allora il diritto internazionale non valeva fino a un certo punto. Che cosa pensa della recente affermazione del ministro degli Esteri?
«Beh, è un’affermazione giusta fino a un certo punto È una constatazione che — come tale — è irrefutabile: purtroppo il
punto fino al quale vale oggi il diritto internazionale è un punticino minuscolo. Però guai se noi oggi avalliamo questa vigenza così marginale».
Il fatto che le regole valgano poco non può essere un pretesto per non farle valere.
«È una delle cose più sconsolanti del nostro tempo. Trump è l’espressione più evidente della forza che sostituisce il diritto
È stata la protervia della sovranità degli Stati a smantellare progressivamente il diritto internazionale, a cominciare dalle Nazioni Unite».
(da La Repubblica)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
GIORGIA MELONI, SALVINI E I LEGHISTI MODERATI VOGLIONO CAPIRE QUANTI VOTI INCASSERA’ L’EX PARA’ – LA DUCETTA PER CAPIRE SE VANNACCI LE SFILA VOTI A DESTRA; SALVINI PER RENDERSI CONTO SE IL MILITARE E’ LA CARTA GIUSTA PER NON SPROFONDARE… IL NOSTRO PENSIERO; VANNACCI NON CONTA UN CAZZO
L’asticella del centrodestra, in Toscana, è fissata sopra il 40%. La leghista Susanna Ceccardi, candidata governatrice nel 2020, arrivò al 40,5%. Alessandro Tomasi (FdI), nel 2017, riuscì nell’impresa di diventare sindaco di Pistoia. La candidatura di Tomasi, prodotto della «cantera» meloniana, nello scacchiere delle Regioni è stata sostenuta direttamente anche dalla premier, che ne apprezza il profilo pragmatico.
Giorgia Meloni si è spesa con forza per il «suo» candidato anche per provare a regolare i rapporti di forza interni. Perché anche il centrodestra deve fare i conti con la sua «mina vagante», che si chiama Roberto Vannacci. E anche in questo caso la sfida si gioca tutta sul secondo posto. Chi lo conquisterà: Forza Italia o la Lega?
Se il leader berlusconiano Antonio Tajani ha schierato una big come Deborah Bergamini, quello del Carroccio Matteo Salvini
ha sfoderato l’artiglieria pesante, mettendo in campo il generale. Vannacci, a cui sono stati conferiti «pieni poteri» per organizzare la campagna elettorale, ha deciso tutte le candidature e fatto tabula rasa di tutti i leghisti storici.
Una «vannaccizzazione» totale, che ha scatenato persino le ire di Susanna Ceccardi.
I consensi della Lega sono in calo: nel 2020 furono eletti in Toscana ben 8 consiglieri, mentre stavolta potrebbero essere appena 2 o addirittura 1. Ma la questione, dopo il boom degli azzurri in Calabria, è arrivare prima di Forza Italia. In Toscana la Lega spera di conquistare i voti di quegli elettori più radicali (stile AfD), che ad esempio ritengono troppo moderate le posizioni di Fratelli d’Italia.
(da Corriere della Sera)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
DOMANI IL PREMIER FRANCESE DOVRÀ PRESENTARE LA FINANZIARIA: PER EVITARE LA SFIDUCIA GIÀ ANNUNCIATA DAL RASSEMBLEMENT NATIONAL E LA FRANCE INSOUMISE, LECORNU HA BISOGNO DEL VOTO DEI SOCIALISTI
Il nuovo governo di Sébastien Lecornu non è ancora nato ma perde già pezzi. Dopo la
clamorosa riconferma, arrivata pochi giorni dopo le sue dimissioni, sia la destra che la sinistra hanno ufficializzato che non manderanno ministri nel nuovo esecutivo. E anche tra i centristi il malumore è diffuso. Molti vedono nella decisione di Emmanuel Macron l’ennesima forzatura, segno di un potere presidenziale sempre più isolato.
Sulla composizione del futuro governo, Macron avrebbe concesso «carta bianca» al premier redivivo, incoraggiandolo a scegliere profili tecnici per evitare veti incrociati. Lecornu ha
spiegato di volere ministri «senza ambizioni presidenziali», assicurando che lui per primo non si candiderà all’Eliseo nel 2027. Il premier ha invitato le forze politiche a «porre fine allo spettacolo ridicolo» degli ultimi giorni. Ma il divorzio con i Républicains è ormai consumato.
Il partito di destra, che aveva partecipato agli ultimi tre governi, ha deciso di chiamarsi fuori. Bruno Retailleau, presidente dei Républicains, lascerà quindi il ministero dell’Interno. Anche il presidente del Senato, Gérard Larcher, figura di peso della destra, sostiene la linea della non partecipazione al governo Lecornu bis. Diversa la posizione di Laurent Wauquiez, capogruppo dei deputati dei Républicains, che spinge invece per un accordo con il premier, temendo un ritorno alle urne.
La destra si dice pronta comunque a sostenere alcuni provvedimenti essenziali «in modo responsabile», ponendo però una linea rossa invalicabile: la difesa della riforma delle pensioni del 2023, che ha portato l’età pensionabile da 62 a 64 anni. È su questo punto che l’equilibrio diventa quasi impossibile. Per evitare la sfiducia già annunciata dal Rassemblement National e la France Insoumise, Lecornu ha bisogno dell’astensione dei socialisti.
Ma per Olivier Faure, segretario socialista, la sfiducia sarà «immediata» se la riforma non verrà sospesa. All’Eliseo si lascia intendere che Macron sarebbe disposto a riaprire il dibattito parlamentare, prendendo in considerazione l’ipotesi avanzata dal sindacato riformista Cfdt, che propone di rinviare di un anno, al
2028, l’entrata in vigore della legge.
Domani il premier dovrà presentare la finanziaria, termine ultimo previsto dalla Costituzione. Lecornu ha chiesto ai partiti di superare le divisioni e approvare il testo entro fine anno, per riportare sotto controllo il deficit pubblico
Lecornu ha già fissato come obiettivo la riduzione del deficit tra il 4,7% e il 5% del Pil nel 2026, un livello superiore al 4,6% fissato dal predecessore François Bayrou. Ma dopo il via libera del consiglio dei ministri, dovrà affrontare le forche caudine del parlamento. Nei prossimi giorni però la mozione di sfiducia potrebbe arrivare in parlamento
L’esito è appeso a pochi voti, in una Assemblée Nationale dove la base centrista di Macron appare sempre più fragile. L’ex premier Édouard Philippe si è apertamente smarcato dal capo dello Stato, suggerendo che le dimissioni del presidente sarebbero «l’unica soluzione alla crisi politica». Ancora più simbolica è la traiettoria di Gabriel Attal, leader di Renaissance, il partito presidenziale, che ha rotto con Macron, accusandolo di essere «incapace di condividere il potere» e di «rifiutare ogni compromesso politico».
(da La Repubblica)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
DONNE MODELLO FOCOLARE DOMESTICO, RAGAZZI CHE “NON TROVO UNA RAGAZZA CHE VOGLIA FARE QUATTRO FIGLI”, RAZZISTI CHE NON AMMETTONO DI ESSERLO E FIGLI DI PAPA’ MA CHE “NON SI INTERESSANO DI POLITICA” (MEGLIO FARE QUATTRINI)
“Essere conservatore” è il trend del momento. In Germania come negli Usa. Soprattutto intorno ai trent’anni. Definirsi conservatori oggi invece è un vanto per alcuni, una medaglia per altri. «Perché nel XXI° secolo vivo i rapporti in modo molto conservatore, per cui non parlo con altri uomini, non frequento luoghi pubblici senza il mio fidanzato, mi vesto senza mettermi in mostra? Ora ve lo spiego».
Comincia così il suo post Luceperildomani, una Tik-Toker tedesca che riceve milioni di likes. Anche in Germania il trend Usa delle Trad-wives, le mogli tradizionali, sta dilagando.
Giovani donne che non desiderano altro nella vita che consacrarsi a rendere felice il proprio uomo, si vedono sempre più spesso a fare proseliti in tv. «Mio figlio è conservatore,
molto più di me», ci racconta senza entusiasmo Jan, padre di 58 anni nonché insegnante in una scuola di Wiesbaden.
Suo figlio Tobias – diciassette anni a novembre – «un anno fa ha deciso di convertirsi al cattolicesimo perché considerava noi protestanti troppo tolleranti rispetto alle scelte sessuali delle persone. Poi» prosegue Jan «ha pianificato che dopo la maturità entrerà come volontario nella Bundeswehr per servire il suo Paese».
È un concetto largo, una coperta contesa almeno da due partiti. I giovani dell’ultradestra di Afd, per esempio, si definiscono conservatori. «Non riesco a trovare una ragazza che condivida i miei valori», ci raccontava qualche tempo fa per i corridoi del Bundestag l’assistente parlamentare di un deputato di Alternative fuer Deutschland.
«Nessuna è disponibile a fare quattro figli» spiegava con tristezza il ragazzo, costretto a vivere in una Babylon Berlin poco disponibile a digerire il nuovo trend.
Anche i coetanei cristiano-democratici della Jungen Union, però, rivendicano lo stesso appellativo. C’è una battaglia culturale a destra per rivendicare il copyright su termini, valori e stili di vita tradizionali. Esemplare è il caso di Simon Rubbert, 16 anni, social media manager dei giovani della Cdu di Frechen.
Il ragazzo si definisce «un giovane conservatore» e ha postato su Tik-Tok un video in cui consiglia i coetanei di «non votare Afd» ma al tempo stesso «non permettere agli altri di definirti un razzista o un radicale di destra. I veri uomini sono normali, sono
sani patrioti e non nazionalisti» perché anche così «si trovano le ragazze».
C’è una disperata campagna acquisti nella destra e nel centro destra per mettere le mani sul voto conservatore dei giovani. L’esempio più recente lo offre la vicenda della giornalista Julia Ruhs, 31 anni, a cui non è stato prolungato il contratto a Ndr per un format pilota. La donna, che si definisce di centro-destra ma non sostenitrice di Afd, è stata difesa al Bundestag dal deputato dell’ultradestra Götz Frömming, che l’ha rappresentata come una martire «conservatrice» della libertà di pensiero.
Cogliendo al volo la posta in gioco, il capogruppo della Cdu Jens Spahn si è affrettato a definire la decisione dell’emittente «problematica». Ma se anche i giovani konservativ si rappresentano come poco interessati alla politica, l’ideologia li interessa eccome. Lo dimostra un sondaggio commissionato in Germania dall’app di incontri Tinder prima delle elezioni federali.
Dal rilevamento è emerso che per oltre il 30% degli utenti nella fascia 18-24 il principale fattore per filtrare il profilo è sapere se lei o lui va a votare. Per il 27% è importante che il possibile partner sia disposto/a ad affrontare temi politici, mentre la differenza di opinioni politiche nel 13% dei casi è un deal-breaker, un punto di rottura.
(da agenzie)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
“PRENDO ATTO CHE PRIMA SPARISCE LA LISTA CIVICA, LA LISTA ZAIA, POI SCOMPARE ANCHE IL MIO NOME SUL SIMBOLO” … FDI TEME CHE IL TRAINO DEL “DOGE” POSSA ACCORCIARE, SE NON ANNULLARE IL DISTACCO TRA LA LEGA E IL PARTITO DI GIORGIA MELONI, CON INEVITABILI RICADUTE SUI RAPPORTI DI FORZA E SUL NUMERO DI ASSESSORI (FDI AL MOMENTO NE RIVENDICA 5)
«Forse io e il mio cognome siamo un problema per qualcuno. Vedremo di farlo diventare un
problema reale». E dire che Luca Zaia pensava di essere una risorsa. Invece, dopo essere stato per mesi il convitato di pietra della partita sul terzo mandato e aver assistito dagli spalti alla disputa romana su chi dovesse essere il suo successore nella corsa alla guida del Veneto, il presidente uscente che anche recenti sondaggi accreditano di un bottino considerevole di voti si trova in una singolare situazione.
Quando manca una decina di giorni alla presentazione ufficiale delle liste che concorreranno alla sfida del 23 e 24 novembre, il Doge si lascia scappare un’amara constatazione: «Non c’è nulla di deciso sul mio ruolo alle prossime Regionali. Prendo atto che prima sparisce la lista civica, la Lista Zaia, poi scompare anche il mio nome sul simbolo».
Non è affatto casuale quel che sta succedendo ma è la diretta conseguenza del patto siglato dai leader della coalizione di centrodestra. In particolare, lo stop alla lista personale come all’inserimento del nome nel simbolo sono il frutto di veti posti da Fratelli d’Italia in cambio del via libera all’indicazione di Alberto Stefani come candidato presidente.
La sfida è aperta e fino all’ultimo voto dentro il centrodestra. FdI è consapevole del traino che la figura di Zaia può determinare per la Lega che alle Politiche del 2022 (32,7 dei meloniani contro il 14,5% del partito di Salvini) e alle Europee del 2024 (37,6 rispetto al 13,2%), non avendo il governatore in pista, rimase a grande distanza. Il timore è che il nome del Doge possa accorciare, se non annullare il distacco. Con inevitabili ricadute sui rapporti di forza e, quindi, sul numero di assessori (FdI al momento ne rivendica 5).
«Prendo atto del no alla mia lista civica deciso dal tavolo nazionale — annota Zaia — anche se non è mai accaduto che si vieti a una persona di utilizzare il proprio nome in campagna elettorale».
Ma siccome il divieto non può spingersi fino alla candidatura a consigliere, il presidente uscente per il momento sta sul vago e non conferma quel che appare scontato, e cioè che si candiderà capolista in tutte le circoscrizioni.
Ma una frase la dice: «Il campo di battaglia non facile è la cosa che mi piace di più». Chi lo conosce bene la traduce così: «Si butterà nella partita dando il massimo per dimostrare quanti voti può spostare. Luca è determinatissimo».
Le tensioni tra FdI e Lega stanno crescendo. Il caso Zaia va ad aggiungersi alle fibrillazioni che l’accordo sul Veneto sta causando in Lombardia.
I leghisti non accettano di essere trattati come merce di scambio e risuona ancora il no secco con cui il segretario della Lega lombarda Massimiliano Romeo si è opposto a firmare una dichiarazione che impegnava il suo partito a lasciare la guida della Regione a FdI nel 2028.
(da Corriere della Sera)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
OGNI DECISIONE DI POLITICA ESTERA HA UNA RICADUTA INTERNA PER TRUMP: RIPERCUSSIONI SULL’ELETTORATO EBRAICO AMERICANO CHE HA ABBANDONATO I DEMOCRATICI E ORA LO FINANZIA … ARABIA SAUDITA E ALTRI PAESI DEL GOLFO HANNO DETTO CHE BISOGNA ARRIVARE ALLA SOLUZIONE DEI DUE STATI. MA NON È LA DIREZIONE IN CUI STIAMO ANDANDO”
“Il Medio Oriente è a un passaggio cruciale: il vecchio ordine è distrutto e il nuovo non è ancora nato. Trump aspira a ritagliarsi il ruolo centrale di stabilizzatore e definire il futuro della regione: spinto da interessi economici e dall’aspirazione a passare alla Storia come pacificatore, magari vincendo il Nobel nel 2026. Ma la situazione è complessa, gli interessi di mondo arabo e Israele non coincidono su troppi punti». Joshua Landis è l’analista a capo del Center for Middle East Studies dell’Università dell’Oklahoma, fra i maggiori conoscitori americani di dinamiche mediorientali.
Domani si firma l’accordo di pace tra Israele e Hamas alla presenza di Trump e dei maggiori leader europei e arabi. E poi?
«Tacito diceva: “Hanno creato un deserto e la chiamano pace”. Perché di questo si tratta: gli Stati Uniti hanno dato a Netanyah vuna vittoria totale sostenendolo a suon di miliardi. Ma è difficile prevedere se la pace sarà duratura. Impedire che Israele riprenda la guerra è la più grande sfida dell’amministrazione Usa: il piano è pieno di punti ancora oscuri, come la questione del disarmo di Hamas, pronto a rinunciare alle armi pesanti ma non a quelle personali.
E poi il ritiro completo israeliano: non sono sicuro che Netanyahu possa farlo senza distruggere la sua coalizione. E ancora, chi controllerà la Striscia nella fase di transizione, garantendo sicurezza ai camion di aiuti. Riformare le forze di polizia ora è molto complicato…».
Ma il piano di Trump per il Medio Oriente è molto più ampio.
«Sì, ha interessi immensi in questa faccenda: la pace a Gaza è la sua creatura, il suo lascito e pure un affare di famiglia in cui ha coinvolto il genero e i migliori amici. E le decisioni che prenderà su Gaza, ma anche su Iran e Siria, avranno ripercussioni enormi. C’è l’opportunità di una de-escalation: ma solo se Netanyahu glielo permetterà. Non dimentichiamo che ogni decisione di politica estera ha una ricaduta interna per Trump: ripercussioni sull’elettorato ebraico americano che per il suo sostegno a Israele ha abbandonato i dem e ora lo finanzia».
L’attacco del 7 ottobre fu anche un modo per bloccare gli Accordi di Abramo. Con Hamas sconfitta, non si riparte proprio da lì?
«C’è molto da recuperare. Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo
hanno detto chiaro che prima bisogna arrivare alla soluzione dei due Stati. Ma non è la direzione in cui stiamo andando. il piano è privo di soluzioni definitive per il futuro dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania.
Certo, ad allettare gli arabi c’è la questione dell’aggirare il Qualitative Military Edge, il trattato che impone agli Usa di aiutare Israele a dispiegare mezzi superiori in termini di efficienza e numero rispetto agli avversari: il motivo per cui finora non abbiamo mai fornito tecnologia all’avanguardia ai nostri alleati arabi
Ciò che più di tutto li ha spinti a considerare gli Accordi di Abramo. Ma nel frattempo Netanyahu è diventato molto più aggressivo verso i vicini. E questo mette i Paesi del Golfo molto a disagio: spingendoli a guardare sempre più alla Cina come un possibile contrappeso».
Non sta descrivendo un Medio Oriente più pacificato.
«Henry Kissinger diceva: “I Paesi in cerca di sicurezza assoluta creano insicurezza assoluta intorno a sé”. È esattamente quel che sta facendo Netanyahu. Vuole impedire a Siria, Libano e Iraq di rimettersi in piedi: gli sono più utili divisi. Dunque, se l’America non risolverà una volta per tutte la questione palestinese e non guiderà il nuovo corso sarà messa di fronte a una scelta fra i suoi due principali interessi nella regione: appunto Israele e il petrolio arabo».
(da Repubblica)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
INVECE DI TACERE, IL GOVERNO DICA CI HA SPIATO E PER QUALE MOTIVO
La doppia notizia è una bomba, e solo in un Paese strano come l’Italia buona parte dei media
decidono di ignorarla o quasi, derubricandola nel migliore dei casi a un trafiletto in prima pagina. Dopo me e dopo Ciro Pellegrino, dopo Roberto D’Agostino di Dagospia e un altro “preminente giornalista”, anche Francesco Gaetano Caltagirone e Andrea Orcel sarebbero stati spiati con Graphite, lo spyware prodotto dall’israeliana Paragon Solutions che entra e scarica tutto il contenuto di quel che ci scambiamo su qualunque app di messaggistica. Così, perlomeno, sostengono i giornalisti Raffaele Angius e Gianluca Paolucci, che hanno firmato il doppio scoop per Irpi Media e La Stampa.
Due parole sui personaggi, non foste avvezzi al mondo della finanza e delle banche.
Francesco Gaetano Caltagirone è il settimo uomo più ricco d’Italia, azionista di maggioranza di Cementir, uno dei più importanti gruppi di costruzioni del Paese, editore del Messaggero, del Mattino e di altre testate locali. Sopratutto però è il co-protagonista – assieme alla Dolfin, la finanziaria della famiglia Delvecchio – della scalata di Mediobanca da parte di Monte dei Paschi di Siena, banca di cui Caltagirone possiede più del 10 per cento delle azioni, più o meno quante ne ha il ministero del Tesoro. È una scalata, quest’ultima, che secondo tutti gli osservatori ha due obiettivi finali: il controllo di Assicurazioni Generali, il forziere della finanza italiana.
È una strada, quella di Caltagirone, che si intreccia con quella di Andrea Orcel, ad di UniCredit, che nei mesi scorsi era entrata in collisione con il governo proprio perché aveva cercato di acquisire Banco Bpm, trovando l’opposizione ferma dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni – e soprattutto dei ministri leghisti Salvini e Giorgetti – che aveva deciso di esercitare il golden power, ossia il potere di veto sulla vendita di asset giudicati strategici per il Paese.
Ecco: entrambe queste partite iniziano a succedere lo scorso autunno. E al periodo tra la fine del 2024 e il 2025 risulterebbe il tentativo di spionaggio dei due banchieri – definiamolì entrambi così, per comodità. Caltagirone avrebbe ricevuto l’avviso di essere oggetto di spionaggio da Whatsapp il 31 gennaio scorso, quando l’ho ricevuto io. Orcel invece, l’avrebbe ricevuto da Apple, lo scorso 29 aprile, quando l’ha ricevuto Pellegrino.
Mettiamo alcuni punti fermi. È molto improbabile, se non impossibile, che non si tratti di Paragon. La natura e la tempistica dell’avviso ricevuto da Caltagirone e Orcel rendono improbabile ogni altra ipotesi, anche quella di un’intercettazione disposta dalla magistratura, che in ogni caso non ha alcun contratto con Paragon.
Secondo punto: è altrettanto improbabile, se non impossibile, che l’autorità delegata ai servizi segreti, con a capo il sottosegretario Alfredo Mantovano, abbia potuto autorizzare lo spionaggio di due banchieri, in assenza di sospetti di reati come
il terrorismo internazionale, il traffico di stupefacenti o l’affiliazione a organizzazioni criminali come mafia e camorra. Non è possibile perché, in teoria, lo vieta il contratto con Paragon, che vincola l’utilizzo di questo spyware a poche, selezionate e gravissime fattispecie di reato.
Terzo punto, conseguenza dei primi due: chiunque ha spiato Caltagirone e Orcel – e Roberto D’Agostino, e Ciro Pellegrino e me – l’ha fatto illegalmente. Ed evidentemente disponendo di un software come quello di Paragon, con cui il contratto ce l’avevano solo i servizi segreti italiani, Aisi e Aise, interno ed esterno, e il cui accesso – come apprendiamo dal rapporto Copasir – era rigidamente monitorato: ogni ricerca era tracciata su un server dedicato, e su un registro di audit immodificabile.
Quarto punto, quindi: o siamo tutti spiati da qualche servizio segreto estero, oppure esiste un cliente italiano di Paragon di cui nessuno sa l’esistenza. Oppure, terza possibilità, le cose non stanno come le hanno raccontate i servizi segreti al Copasir, e il Copasir nel suo rapporto.
Quinto punto: in ciascuno di questi casi, il governo dovrebbe attivarsi per capire che sta succedendo. Anche solo, nel caso di Caltagirone, come azionista del medesimo istituto bancario che lo stesso Caltagirone controlla. E invece, da nove mesi ormai, assistiamo a uno svilente balletto di omissioni, bugie, segreti di stato messi e tolti. E silenzi, soprattutto, come quello di Giorgia Meloni stessa, che interpellata dal senatore Matteo Renzi sul
tema l’ha liquidato con un laconico “rispondo solo sulle cose importanti”. Affermando, in sostanza, che tre giornalisti spiati non sono una cosa importante.
Domanda: due tra i più grossi banchieri italiani, entrambi coinvolti in operazioni che puntano a ridefinire lo scenario finanziario italiano – una in cui il governo è coinvolto come azionista, l’altra in cui lo stesso governo ha esercitato il suo Golden power – sono una “cosa importante”? Siccome supponiamo lo siano anche per chi come Meloni non ha esattamente a cuore il destino della stampa libera e indipendente, attendiamo fiduciosi novità in merito.
Così come, del resto, attendiamo dal Copasir, la commissione parlamentare per la sicurezza della repubblica, un nuovo rapporto sulla questione, visto che in quello pubblicato a inizio giugno scorso non erano menzionati né il caso di Ciro Pellegrino, né quello di Roberto D’Agostino né ovviamente quelli di Caltagirone e Orcel. Se a suo tempo il Copasir aveva rubricato il mio caso come un possibile – ancorché molto improbabile – caso di “falso positivo”, senza fornire alcuna spiegazione al tentativo di spionaggio nei miei confronti, è evidente che i nuovi casi richiedano ben altre risposte. Soprattutto perché nel telefono di Pellegrino, che come me lavora a Fanpage.it, sono state trovate tracce di Graphite che fanno decadere la tesi del “falso positivo”.
Attendiamo, non troppo fiduciosi. Perché il silenzio sempre più
imbarazzato del governo, del parlamento, dei media è lo specchio di un vicenda che sta diventando troppo grande da gestire, troppo calda da maneggiare, troppo grave per raccontarla per quel che è: un clamoroso e sistemico caso di spionaggio illegale con uno spyware mercenario di giornalisti e banchieri – e ci fermiamo qua, per ora – nel greto di una democrazia occidentale.
E questo imbarazzo, generalizzato, è già una risposta. Di quelle molto brutte.
(da Fanpage)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
LO SPYWARE SECONDO I PRODUTTORI ISRAELIANI E’ VENDUTI SOLO AI GOVERNI… CHI LO HA USATO I ITALIA?
Non solo l’ad di Unicredit Andrea Orcel e l’editore Francesco Gaetano Caltagirone, anche l’amministratore delegato di Enel e membro del Cda di Generali Flavio Cattaneo è stato spiato. Tra febbraio e marzo Apple aveva inviato un avviso sul suo dispositivo che lo informava di un attacco spyware. Modalità simili a quelle con cui attivisti e giornalisti, tra cui il direttore di Fanpage Francesco Cancellato e capo redattore Ciro Pellegrino,
sono venuti a conoscenza dello spionaggio tramite Graphite, il software dell’azienda israeliana Paragon.
A darne notizia oggi è Il Fatto quotidiano, che aggiunge il nome di Cattaneo a quelli emersi finora dalla lista delle 90 persone che hanno ricevuto un alert per software spia sui loro telefoni. Negli ultimi giorni il caso Paragon ha avuto nuovi sviluppi, dopo che l’inchiesta condotta da La Stampa e Irpi Media ha rivelato che Orcel e Caltagirone sono stati intercettati tramite lo spyware di Paragon. Si tratta di due importanti uomini d’affari, un manager bancario e una delle figure più potenti in Italia, finite vittima dello spionaggio che ha colpito anche gli attivisti dell’ong Mediterranea Saving Humans, Beppe Caccia e Luca Casarini.
Per quanto riguarda Cattaneo, non conosciamo i dettagli sul software inoculato sul suo dispositivo (solo un’analisi successiva alla notifica di allarme permette di identificarlo). Per il momento Enel non ha commentato la notizia: se confermata, è abbastanza probabile che l’azienda farà scattare dei controlli interni per verificare che la sicurezza e la riservatezza delle comunicazioni resti garantita.
Come ricostruisce Il Fatto, il periodo in cui l’ad sarebbe stato intercettato non è casuale. In quel momento infatti, Generali (di cui Cattaneo è consigliere d’amministrazione) aveva appena annunciato un’alleanza nel risparmio gestito con Natixis, banca d’investimento francese. La mossa- in cui ci sono di mezzo circa 650 miliardi di asset – non sarebbe piaciuta al governo e sarebbe
stata contestata dallo stesso Cattaneo. Come è noto poi, nei mesi successivi, è andata concretizzandosil’operazione di acquisizione di Mediobanca, che a sua volta controlla una parte di Generali, da parte di Monte dei Paschi di Siena (di cui il governo è azionista).
Si tratta solamente di ipotesi, ma è chiaro che i tre nomi delle vittime di spionaggio saltate fuori in queste ore sono tutti personaggi centrali nel risiko bancario. Finora l’indagine del Copasir ha concluso che le intercettazioni contro Caccia e Casarini sono da attribuire ai servizi segreti italiani mentre ha escluso il coinvolgimento del governo nello spionaggio contro i giornalisti Pellegrino e Cancellato, su cui ancora resta un enorme punto di domanda.
(da Fanpage)
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