Destra di Popolo.net

NELLA STRISCIA NON SI FERMA L’ORRORE: IL GIORNALISTA SALEH AL-JAFARAWI UCCISO A GAZA CITY IERI SERA

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

E’ STATO UCCISO DA MILIZIE LOCALI SOSTENUTE DA ISRAELE MENTRE RACCONTAVA GLI SCONTRI

Immaginatevi di sopravvivere a due anni di incessanti bombardamenti, di essere sfollati decine e decine di volte, di vivere lontano dalla vostra famiglia, di svegliarvi per più di 730 mattine e raccontare della vostra gente uccisa dai droni, morta di fame e di sete e intanto tenervi in piedi grazie ad acqua e sale. Immaginatevi di essere un giornalista di Gaza, di sopravvivere al genocidio, di festeggiare il tanto sperato cessate il fuoco ed essere ucciso due giorni dopo, nella vostra città natale.
Saleh Al-Jafarawi aveva 27 anni e gli occhi pieni di gioia mentre, due giorni fa, annunciava il cessate il fuoco: “State vivendo questa immensa gioia, la gioia delle strade della Striscia di Gaza, in questo momento sentiamo queste emozioni, dopo due anni di torture, di massacri, di sfollamenti forzati e uccisioni oggi la gente di Gaza ha finalmente il diritto di essere felice, ha il diritto di festeggiare, il diritto di dormire in pace”, aveva urlato per le strade di Gaza City mentre veniva preso in braccio dalla popolazione in festa.
Ma a Gaza non c’è fine all’orrore, non c’è fine al terrore, non c’è fine al sangue, non c’è fine ai crimini di guerra e Saleh Al-Jafarawi è stato ucciso qualche ora fa nelle stesse strade in cui
aveva festeggiato, nel Sud di Gaza City, nel Nord della Striscia.
Nessuna pace senza giustizia, dicono, eppure a Gaza non si può ancora neanche parlare di cessate il fuoco. Al-Jafarawi è stato sparato in testa da milizie locali sostenute e finanziate da Israele, come denunciano media locali, in chiave anti-Hamas. Il giornalista è stato ucciso mentre stava raccontando gli scontri a Gaza City tra le milizie rivali di Hamas e le forze di sicurezza interna affiliate al gruppo islamista, al potere nella Striscia. Negli stessi scontri, secondo quanto riferito da Hamas, alcuni suoi agenti sono stati uccisi da una milizia rivale.
Dopo il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza City, infatti, è iniziata l’operazione di “pulizia” da parte dei miliziani palestinesi contro tutte le milizie gazawi considerate “traditrici” e che nel corso di questi mesi sono state finanziate direttamente da Tel Aviv contro Hamas (come dimostrato da diverse inchieste indipendenti, in ultimo quella di Sky News 24). Decine di sospetti collaboratori e membri di clan anti-Hamas, sono stati arrestati dalle forze di sicurezza palestinese, che fanno riferimento ad Hamas, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco con Israele nella Striscia di Gaza. Secondo media palestinesi molti di essi “saranno giustiziati”.
Al-Jafarawi è il 255esimo (dato riportato dall’emittente qatariota Al Jazeera) giornalista ucciso nella striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 ad oggi. Un video che in queste ore sta girando online lo ritrae insieme ad Anas al-Sharif, finalmente riuniti dopo mesi di guerra. Al-Sharif, volto simbolo del giornalismo a Gaza, fu
ucciso all’ospedale Al-Shifa lo scorso 10 agosto, in un attacco mirato dell’esercito israeliano. Oggi li immaginiamo di nuovo insieme.
(da Fanpage)

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E’ ROCCO IL NUOVO SINDACO DI AOSTA: IL CANDIDATO DEL CENTROSINISTRA ELETTO AL BALLOTAGGIO PER 15 VOTI

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

L’INGEGNERE DI 63 ANNI SUCCEDE A NUTI COME PRIMO CITTADINO

Raffaele Rocco è il nuovo sindaco di Aosta. L’ingegnere, 63 anni, sostenuto dal Partito Democratico e dalle forze autonomiste, ha vinto il ballottaggio contro l’imprenditore Giovanni Girardini con appena 15 voti di differenza.
Il neoeletto sindaco ha ottenuto 6.420 voti (50,06% del totale) contro i 6.405 totalizzati da Girardini (49,94%), espressione del centrodestra. L’affluenza alle urne per il turno di ballottaggio è stata del 45,7% (pari a 13.071 elettori), in linea con il dato del 2020 (45,93%). Anche in quell’occasione Giovanni Girardini era uscito sconfitto contro il candidato indipendente di centro-sinistra, all’epoca Gianni Nuti.
«Una vittoria sul filo di lana»
I due candidati erano arrivati vicinissimi anche al primo turno elettorale, tenutosi lo scorso 28 settembre insieme alle elezioni regionali. Rocco aveva ottenuto il 45,3% e Girardini il 42,7% dei voti. Oggi, dopo l’arrivo dei risultati definitivi, Rocco ha riconosciuto che è stata «una vittoria sul filo di lana», aggiungendo che «il dato più importante è che più della metà degli elettori non è andato a votare». Il nuovo sindaco avrà come vice l’avvocato Valeria Fadda.
(da agenzie)

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GIULIA SCHIFF, LE FRUSTATE E I COLLEGHI ASSOLTI: “NON FINISCE QUI”

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

DOPO LA VERGOGNOSA ASSOLUZIONE DEI SUOI COMMILITONI FARA’ APPELLO ALLA SENTENZA… ESPULSA PER “INETTITUDINE MILITARE” PER AVER DENUNCIATO LE PATETICHE PRATICHE DI NONNISMO E’ ANDATA A COMBATTERE IN UCRAINA RICEVENDO QUATTRO MEDAGLIE AL VALORE

Giulia Schiff ha visto i suoi commilitoni assolti nel processo per il «battesimo del volo». Lei è stata espulsa per «Inettitudine militare». Oggi con il Corriere della Sera parla della sentenza: «Sono delusa ma non provata. Dopo aver vissuto la guerra e l tragedie del fronte c’è ben poco che possa ferirmi. Sono invece delusa per una giustizia lenta e povera di risultati e perché speravo di dimostrare che c’è speranza per chi denuncia. Ma mi rifiuto di accettare che sia chiusa qui, anche se mi sento come Davide contro Golia».
L’appello
Schiff chiederà l’appello sperando che le motivazioni arrivino «prima della prescrizione che purtroppo incombe sui reati. Troppi anni, troppo tempo è passato. Sono fatti del 2018!». Secondo Schiff «quel che hanno fatto a me non è normalizzabile ed è frutto di una mentalità malata. Erano frustate e io non avevo dato il consenso. Il paradosso è che durante il processo ho avuto la brutta sensazione di dover essere io a difendermi, più che loro. Un po’ come una donna stuprata costretta a giustificare la minigonna. Questa sentenza getta le basi perché tutti gli aggressori possano non fermarsi anche quando la vittima dice no. Ho visto poi tanta omertà, testimonianze troppo simili tra loro».
Le scarse attitudini militari
Alla sua espulsione per scarse attitudini militari replica «con quattro medaglie conquistate in Ucraina. Eccole: questa per aver lavorato in zone rosse, quella per il coraggio e l’onore, poi per il servizio al popolo ucraino e l’ultima per aver rischiato la vita nel tentativo di non lasciare indietro nessuno quando ci siamo trovati sotto una pioggia di bombe». L’Aeronautica ne fa però una questione comportamentale e disciplinare. «Avrei voluto pilotare
i caccia per una questione di cuore, mio padre è pilota. Per me comunque era più importante avere una vita operativa, difendere gli indifesi, al servizio dei più deboli, per la democrazia, per la libertà. E questo in Ucraina l’ho fatto e sono soddisfatta. Ora la precedenza ce l’ha comunque mio figlio e gli eventuali fratellini».
La solidarietà
Dice che nessuno degli ex colleghi le è rimasto vicino. Però ha ricevuto messaggi di solidarietà. Anche da Gino Cecchettino. Adesso «c’è Nathan Loris nella mia vita, scrivi entrambi i nomi per favore che i parenti italiani ci tengono. Amo profondamente questo bimbo, bello buono e discolo, e amo mio marito Victor, un soldato ucraino, un uomo speciale che mi difenderebbe con la vita. Altro che l’ufficiale dell’Accademia con cui stavo. Quello l’ho lasciato il giorno in cui ha fatto l’omertoso in Procura militare sulla mia vicenda: la testimonianza più breve della storia. E diceva di volermi sposare entro tre anni. Ah, nei ritagli di tempo faccio l’università».
(da agenzie)

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LA PAROLA PACE E’ STATA SVUOTATA DI SENSO

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

NON BASTA UN PATTO A FAR CESSARE IL MASSACRO

Viviamo forse l’epilogo di una secolare vicenda culturale, di cui tutti siamo artefici e vittime.Abbiamo cominciato col credere che non vi fosse altra realtà che nel linguaggio, poi abbiamo scoperto che il linguaggio sono infinite lingue nazionali e
individuali, in continuo divenire, e perciò nessuna solidità è in esso riscontrabile. Così il pensiero che al linguaggio è connesso inscindibilmente si è fatto debole, sempre più debole. Pensiero e linguaggio si sono ridotti a pronunciare nomi, a emettere fiati di voce. E con questi fiati cui non corrisponde alcun significato, o a cui possono esserne attribuiti metaforicamente innumerevoli a piacere, andiamo giocando.
La nostra civiltà ha destrutturato sistematicamente tutte quelle parole con le quali si cercava di dare un senso, un fine alle forme del fare politico, del diritto, dell’economia. “Valori” si chiamavano – e non si intendeva qualcosa di astratto, poiché si trattava di principi e idee regolative che orientavano effettivamente l’agire di istituzioni e organizzazioni, non solo di singole persone. La nostra civiltà ha scavato il vuoto sotto di loro, attraverso un lavoro critico spietato e metodico.
Questa critica ha svolto il suo compito e sembra ora essersi ritirata, non so quanto soddisfatta di sé. Così ora il campo è lasciato a quelle parole ormai del tutto svuotate, meri segni a disposizione del potere di turno, che ne fa uso come di nobili, antichi pezzi di arredo delle proprie stanze, o per anniversari – come osano fare in questi giorni addirittura per San Francesco, negazione vivente di ogni retorica.
La critica era necessaria; denunciava uno svuotamento reale. Ma si è trasformata nella dogmatica affermazione che il discorso in generale non potesse avere sostanza, non potesse definire o indicare alcunché di sostanziale. E perciò dalla critica non si è
passati ad alcuna proposta, ad alcun progetto. Una critica senza virtù, avrebbe detto Machiavelli. Era necessario mettere a nudo il fatto che proseguire con certi ritornelli sulla “democrazia”, senza tener conto che i rapporti sociali, gli equilibri tra le classi, i modi di produzione erano stati rivoluzionati, non aveva significato. Era necessario sottoporre a una critica rigorosa principi del diritto internazionale fondati su astratte idee di “uomo” e “tolleranza” (intollerante, poiché collegata a filo doppio con il fine dell’assimilazione). Ma quale nuova democrazia? Quale nuovo Nomos della terra? Qui sulle nostre carte c’è ancora scritto: hic sunt leones.
Chierici e politici hanno fallito. E ancor più clamoroso è il loro fallimento, o la loro impotenza a pronunciare qualcosa più di nomi, atti solo a coprire e giustificare in qualche modo il proprio agire, quando si affronti il problema della pace. Pace si è ridotta a significare il nudo fatto della sistemazione che il conflitto occasionalmente riceve in base al diritto del più forte. Qualsiasi pace, certo, sancisce un vincitore e un vinto, è asimmetrica.
La pace presuppone lo stato di guerra. Ma è l’imposizione al vinto che ne costituisce l’essenza? Osserviamo il modello “teologico” di pace – quella custodita nell’arca del Tempio, quella tra il Signore e Israele. Forse che Israele la subisce? Israele è, anzi, con-vinto che obbedire a quel patto rappresenta la propria salvezza. Le paci di cui la miseria umana è capace non avranno mai questo carattere, è vero – ma a quali condizioni possono essere dette reali? E cioè in che limiti alla parola pace
può corrispondere un significato concreto?
Prima condizione: soltanto se ha luogo un qualche “riconoscimento” tra vincitori e vinti; il vinto riconosce la sconfitta (non importa se la ritiene “giusta” o meno), e il vincitore il diritto da parte del vinto di continuare a esistere. Altrimenti può trattarsi soltanto di un momentaneo armistizio. Su questa linea, dettata dalla ragione e dall’esperienza storica, si erano svolte le trattative di Camp David e di Oslo, sulla base del possibile riconoscimento da parte palestinese dello stato di Israele e da parte di Israele della possibile costituzione di uno stato palestinese. Questa possibilità sembra naufragata una volta per sempre. Se le cause di una inimicizia quasi secolare non sono minimamente rimosse, ma anzi, dopo tante stragi, minacciano di diventare assolute, come è seriamente possibile parlare di pace, e cioè di un patto ragionevolmente duraturo? Non di un patto, che presuppone due contraenti, ma di una sistemazione comunque forse sì.
E qui sta il problema per il vincitore. Che fare del vinto (che in questo caso non è uno stato, ma un popolo)? Ricostruiamo Gaza e ricollochiamo qui i sopravvissuti, magari con gli altri palestinesi via via espulsi dalla Cisgiordania? Magari sotto il protettorato americano o di qualche alleato di Stati Uniti e Israele? Oppure Gaza diviene territorio di Israele? E i palestinesi cittadini a tutti gli effetti di questo Stato, oppure il modello che si ha in mente è una sorta di neo-apartheid? Oppure ancora si favorisce in tutti i modi, con “incentivi” di ogni sorta, l’esodo di
massa dei palestinesi, e si “libera” Gaza dalla loro ingombrante presenza? Verso quali altri Paesi? Se ne ha una vaga idea? Sono ipotesi odiose tutte? Ma quando mai negli ultimi anni la politica ha avuto scrupoli etici.
Chi ha vinto, e dunque deve assumere su di sé la responsabilità della vittoria, dica in quale realistica direzione intende agire. Non sarà né la pace, né un patto, ma almeno un assetto dell’area in grado di far cessare per qualche tempo il massacro. E a permettere a noi, buoni europei, di dimenticarcene.
(da agenzie)

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SE IL DIAVOLO SI NASCONDE NEI DETTAGLI: COSI’ L’ACCORDO PER GAZA RISCHIA DI INCEPPARSI

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

FINORA TUTTO FUNZIONA PERCHE’ I PROTAGONISTI NE TRAGGONO UN VANTAGGIO SENZA CONCEDERE MOLTO

Di fronte alle grandi tragedie, quando dolore e terrore sembrano per un attimo sospesi miracolosamente, invece di scomodare subito la Storia, la Speranza e l’ottimismo ad ogni costo, bisognerebbe dire quello che è meno consolante: la verità. Al
momento in Palestina stiamo tornando, con lo scambio dei prigionieri ancora nebuloso e il cessate il fuoco, faticosamente al sei di ottobre. Ovvero al livello di violenza che l’Occidente (e i regimi arabi) hanno da sempre considerato come accettabile; ricalcato in fondo sull’unica strategia seria a cui hanno fatto tappa, ovvero lavarsene le mani limitandosi a esecrazioni, ammonimenti, compianti teorici.
È ridurre in limiti ragionevoli le cose tragiche, in modo da renderle quasi inoffensive, suvvia non consumiamo troppe energie. Certo finisce lo strazio degli ostaggi e si apre uno spazio in cui il ritmo infernale dei morti nella Striscia scrive un meraviglioso zero. I palestinesi festeggiano: è bello essere vivi. Con le tregue coloro che soffrono possono respirare. Coloro che hanno voluto la guerra invece dubito meditino sulle loro colpe. Ma perché il piano Trump poi vada oltre l’ennesimo effetto illusionistico, una finta letizia, un finto riposo pronto a ridiventare guerra e orrore, occorre molto di più. I processi di pace funzionano, vanno fino in fondo quando tutti i protagonisti dello guerra, come Hernàn Cortés che aveva fatto bruciare i vascelli della sua spedizione nel Nuovo Mondo, dicono: «No hay vuelta atràs», non c’è più ritorno.
È davvero così nel vicino Oriente? La trama del piano di Trump nelle fasi successive alla tregua è leggera come la tela di un ragno: ma ne ha la stessa elastica resistenza? A furia di inventare favole, tra polluzioni di ottimismo verbale, si diventa bugiardi e si accusa chi si ostina a svelare mali e lacune di rivelar piaghe e
miserie, mentre assicurano che tutto si sta mettendo a puntino.
Un esempio: il disarmo di Hamas. Non assomiglierà alla resa tedesca nel 1945 o all’addio alle armi dei sudvietnamiti a Saigon. Bisogna applicare una modalità sperimentata al termine di altri conflitti civili, che richiede condizioni e capacità. Non basta che chi deve disarmare lo annunci, bisogna che i suoi miliziani escano dai rifugi o dalle zone che controllano (i labirintici tunnel, la Gaza sotterranea e largamente inviolata), si presentino in luoghi fissati, consegnino le armi e ottengano un lasciapassare per tornare alla vita civile o partire per l’esilio. Si fa fatica a immaginare i lugubri talebani di Hamas che hanno affollato le scene delle precedenti liberazioni degli ostaggi prestarsi a questo ruolo. E poi chi dovrebbe controllare se si presentano davvero tutti coloro che devono deporre le armi, e se in rifugi segreti altri sono pronte per riprendere la lotta?
E l’amministrazione controllata (o meglio il mandato coloniale) che dovrebbe sollevare Gaza dalle rovine e portarla al buon governo e alla pace su cosa si reggerà: caschi blu arabi che dovrebbero obbedire a Tony Blair? Mercenari a contratto modello iracheno?
Finora tutto sembra funzionare perché ognuno dei protagonisti ne trae qualche vantaggio senza dover rinunciare a nulla di sostanziale. Si fa tutto per far figura. Purché lo si creda. Tutti giocano una parte, guerrieri e pacieri, sembra che tutti aspettino di rimediare, di trattare. Alla fine tutto può sfasciarsi per un errore di calcolo. Nessuna idea starà più in piedi.
I protagonisti di questi giorni, presidenti, petro-emiri, raiss e terroristi: sono, a guardarli in controluce, personaggi di decadenza che nei momenti di stanchezza del mondo salgono sul palcoscenico di una storia tramontata e irripetibile. Trump per alcuni giorni può pavoneggiarsi come signore della guerra e della pace, far collezione di foto storiche (la scena del foglietto con l’annuncio che tutto è concluso…). È il microscopico orizzonte temporale della sua diplomazia. Poi, mentre tutto rimpicciolisce, passerà comunque all’incasso: altro che premio Nobel, semmai ricostruzione e affari petroliferi in nome del povero Abramo. Parte economica affidata non a caso a due faccendieri di larga manica come suo genero e Blair, delegati perfino al tavolo diplomatico a tener d’occhio gli affari più strettamente di famiglia.
Netanyahu riporta a casa gli ostaggi chiudendo una falla sul fronte interno, libera le piazze dal molesto grido di dolore dei parenti dei sequestrati del sette ottobre. Il ritiro, se ci sarà, in fondo non gli costa nulla: in pochi secondi Tzahal può riprendere a frantumare Gaza o quanto ne resta. Quanto al programma di annientare Hamas fino all’ultimo gregario o di annettere la Striscia, era ciancia dei suoi alleati che esigono la Grande Sion. Anzi: poiché ha verificato che né l’uno né l’altro obiettivo di vittoria erano tecnicamente realizzabili può rinunziarvi dandosi arie di moderazione.
I regimi arabi salvano la faccia dopo aver consentito che i fastidiosissimi palestinesi venissero massacrati per due anni.
L’abominevole Al-Sisi mette in cassaforte i complimenti dei suoi datori di lavoro americani; il Qatar completa con incantevole faccia tosta il suo triplo gioco, regista, finanziatore del jihadismo e suo rispettato ministero degli esteri.
E poi c’è Hamas. Che dovrebbe nel copione di Trump recitare la parte dello sconfitto che si auto elimina. In attesa che accada il gruppo jihadista ha ottenuto lo status di controparte con cui gli americani hanno trattato senza problemi. Vi par poco? Dopo due anni di massacri esiste ancora. Anche se i capi dovessero andare in esilio lasciano nella Striscia una eredità di odio contro Israele su cui può lavorare nei prossimi anni. E le migliaia di palestinesi che ha sacrificato alla sua guerra? Hamas è una parte del jihad totalitario: anche le vittime collaterali, i martiri involontari nella guerra santa sono sangue senza importanza.
Domenico Quirico
(da lastampa.it)

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RIARMO DELLA UE, ECCO QUANTO PAGHERA’ L’ITALIA

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

IL PIANO DI DIFESA UE: CHI PAGHERA’?

Nell’ultimo vertice della Nato, che si è tenuto nel giugno scorso all’Aia, i 32 Capi di Stato e di governo hanno deciso di portare dal 2 al 5% del prodotto interno lordo l’ammontare della spesa militare. Non è un obbligo giuridicamente vincolante, ma un impegno politico da raggiungere entro il 2035 e che, per altro, prevede una verifica nel 2029. La soglia del 5% è divisa in due parti: il 3,5% è la spesa per gli armamenti, il restante 1,5% riguarda infrastrutture, telecomunicazioni, cybersicurezza. Il vero numero su cui ragionare è dunque il 3,5%: significa passare, in dieci anni, dagli attuali 1.451 miliardi di dollari (dati Nato riferiti al 2024) a circa 1.750 miliardi di dollari. Si tratta però di stime basate sui valori attuali del prodotto interno lordo:
da qui a dieci anni il Pil dovrebbe aumentare, ma anche rimanere stagnante e di conseguenza l’ammontare in termini assoluti delle spese potrebbe crescere o rimanere stabile. In ogni caso quasi tutti gli europei, qualunque sia il livello del prodotto interno lordo, dovranno incrementare la percentuale di spesa destinata alla difesa. Fanno eccezione Stati Uniti, Polonia e Paesi Baltici che il 3,5% lo raggiungono già. E quindi non dovranno sborsare altri soldi, a meno che non decidano di aumentare la quota destinata alla difesa per altre ragioni.
Il prezzo per i Paesi Ue
Nel 2024 i Paesi dell’Unione hanno destinato 362 miliardi di dollari alla difesa, una somma pari all’1,9% del Pil. Per arrivare al 3,5% bisognerà salire in dieci anni più o meno a quota 600 miliardi. Sulla base dei valori correnti, dunque, dovranno aggiungere al livello attuale di spesa circa 240 miliardi di dollari; l’Italia 34. Ma a che cosa servono tutte queste risorse aggiuntive? Dal vertice di Vilnius del 2023 in poi, i generali della Nato e dei vari Paesi hanno elaborato un piano dettagliato che prevede, in grandi sintesi, quattro aeree di intervento: il potenziamento di cinque volte della difesa aerea, comprendendo i jet, le batterie antimissili, i droni; il rafforzamento dei battaglioni di manovra; l’aumento delle armi a lunga gittata; la logistica. E ogni Paese dovrà contribuire, aumentando le spese militari e quindi i mezzi da mettere a disposizione dell’Alleanza. È bene ricordare di nuovo che nel 2029 i 32 membri della Nato si riuniranno per decidere se confermare questo piano, oppure
ridurne i costi. Per altro nel 2029 Donald Trump, che ha imposto l’aggravio delle spese per gli europei, avrà chiuso il suo mandato alla Casa Bianca.
Il piano di Bruxelles
Su un binario parallelo corre la strategia studiata dalla Commissione europea. I governi dei principali Paesi europei e le istituzioni di Bruxelles condividono un concetto di fondo: la difesa comune dell’Unione non può fare a meno della presenza degli Usa ancora per diversi anni, pertanto serve costruire un pilastro europeo che possa contare di più nelle decisioni politiche e militari della Nato. Su questa premessa politica si è innestato il progetto della Commissione, «Readiness 2030», entrato in vigore il 29 maggio scorso e che spinge gli europei a investire nella difesa con una velocità superiore a quella prevista dalla Nato, quattro anni anziché dieci. Il motivo è che abbiamo una minaccia alle porte, gli stock di alcuni Paesi si sono svuotati a causa degli aiuti all’Ucraina e, in più, abbiamo sistemi di difesa tecnologicamente arretrati. Tradotto in euro comporterebbe una spesa totale di 800 miliardi di euro. In realtà, al momento, gli unici fondi a breve disponibili sono i 150 miliardi di euro del fondo Safe(Security action for Europe) che la Commissione recupererà sul mercato con la formula dell’indebitamento comune, dove sarà l’Unione europea a fare da garante. Questi soldi verranno prestati ai Paesi che ne faranno richiesta, con un basso tasso di interesse, da iniziare a rimborsare dopo 10 anni e da estinguere in 45 anni.
Le condizioni del prestito
Per ottenere il prestito i singoli governi dovranno fare acquisti congiunti almeno insieme a un altro Stato europeo. Il Regolamento precisa anche quali sono le due categorie di armamenti da acquistare, definite sulla base dei criteri fissati dalla Nato. Prima categoria: munizioni, missili, sistemi di artiglieria. Seconda: difesa anti-area, droni, vigilanza spaziale, applicazioni belliche dell’intelligenza artificiale e dell’elettronica. Inoltre il 65% dei componenti di ogni prodotto deve essere costruito in un Paese europeo. Finora hanno chiesto di utilizzare i fondi «Safe» 19 governi, tra i quali l’Italia, ed entro la fine di novembre dovranno sottoporre i progetti dettagliati a Bruxelles. Il Paese più attivo è la Danimarca che ha ipotecato 46,7 miliardi; segue la Polonia con 43,7 miliardi. L’Italia è sesta con 14,9 miliardi di euro.
Dal 2020 al 2024, gli Stati Uniti hanno fornito il 63% delle armi comprate dai Paesi dell’Unione europea
Acquistare made in Ue
La norma pone un argine all’acquisto di armi «made in Usa», ma solo per quanto riguarda il fondo da 150 miliardi garantito dalla Ue. Nello stesso tempo, però, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, all’inizio di agosto nel quadro dell’accordo con Trump sui dazi, ha sottoscritto l’impegno europeo ad acquistare armi americane. È una contraddizione che resta sul tavolo. Anche perché, dal 2020 al 2024, gli Stati Uniti hanno fornito il 63% delle armi comprate dai Paesi dell’Unioneeuropea, come ha notato Mario Draghi nel suo «Rapporto sulla competitività» (2024). Nelle prossime settimane la Commissione presenterà un aggiornamento della strategia, che prevede il muro antidroni sul fronte Est. Ma dove si vanno a trovare i 650 miliardi che mancano per arrivare agli 800 del piano von der Leyen? Ci sono solo ipotesi.
Sforamento del patto di stabilità
Per raggiungere l’obiettivo del 3,5% fissato dall’Alleanza Atlantica, i Paesi Ue, che oggi spendono in media 1,9%-2% di Pil, potrebbero essere costretti a sottrarre risorse alle altre voci di bilancio: sanità, pensioni, istruzione e così via. O, in alternativa, dovrebbero aumentare il deficit rischiando, però, di sforare il patto di stabilità. Per uscire da questa strettoia la Commissione offre la possibilità di sforare dell’1,5% i vincoli previsti dal patto di stabilità, ora fissato al 3% del Pil. In pratica Bruxelles consente di arrivare fino al 4,5% per finanziare la spesa per gli armamenti aumentando l’indebitamento, senza toccare gli altri capitoli del bilancio e senza finire in procedura di infrazione. Una clausola di salvaguardia che varrà quattro anni (cioè il tempo del mandato della Commissione). Secondo le stime di Bruxelles, se tutti i Paesi Ue adotteranno questa clausola, se decideranno di aumentare la spesa per la difesa in quattro anni e non in dieci, se alcuni di loro volessero spendere di più del 3,5% fissato dalla Nato (vedi Polonia, Germania, Baltici) si potrebbe arrivare ad una spesa aggiuntiva pari a 650 miliardi di euro.
Riassumendo: il riarmo europeo procederà su due binari. Il
primo è rappresentato dal fondo Safe e prevede un minimo di coordinamento tra i singoli Paesi. Il secondo, cioè la possibilità di sforare il tetto del deficit, è lasciato alla discrezionalità dei singoli governi. Come si muoveranno?
La dipendenza Usa
Si parte da un quadro pesantemente condizionato dai contratti conclusi negli anni scorsi con le industrie americane. In particolare gli ordinativi che riguardano la difesa antiaerea, come le batterie di missili Patriot, e i caccia da combattimento, come gli F-35. Secondo le cifre pubblicate da The International Institute for Strategic Studies e rielaborati dal The Guardian, oggi le forze armate degli Stati dell’Unione europea, più Norvegia e Regno Unito, utilizzano largamente mezzi costruiti negli Stati Uniti. Per esempio: sono «made in Usa» il 46% dei jet da combattimento, il 42% dei sistemi missilistici, il 24% dei veicoli blindati e il 23% dell’artiglieria. Negli ultimi cinque anni lo stesso blocco di Paesi, più la Svizzera, ha comprato oltre 15 mila missili, 2.400 blindati e 340 aerei dagli Usa. Regno Unito, Germania e Italia si sono rivolti più al mercato americano che a quello europeo. Fa eccezione solo la Francia. La dipendenza dagli Usa dipende anche dalla qualità delle forniture: la tecnologia più avanzata proviene dalle industrie americane. Il caccia F-35, sviluppato dalla Lockheed Martin, è più richiesto dai Paesi europei rispetto ai concorrenti: l’Eurofighter Typhoon – costruito in joint venture da aziende britanniche, italiane (Leonardo), tedesche e spagnole – e il francese Rafale. Un altro
caso è quello dei sistemi di contraerea: nell’Unione europea, Germania, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Svezia e Spagna possiedono circa 25 batterie di Patriot; Francia e Italia hanno 12 Samp-T, prodotti in joint venture dai due Paesi. Il 12 settembre la Danimarca ha deciso di scegliere i Samp-T, anziché i Patriot, dopo che Trump aveva minacciato di annettere la Groenlandia agli Stati Uniti.
Nel breve e medio termine, dunque, non è realistico immaginare che i Paesi europei possano fare a meno delle industrie americane. Del resto, l’operazione in corso sul piano politico-militare non è quella di costruire un esercito comune europeo, ma di rafforzare il coordinamento tra i vari Stati del Vecchio Continente, senza spezzare il legame con gli Usa.
Secondo studi condotti dal Parlamento europeo, «la mancanza di cooperazione nel campo della difesa comporta uno spreco stimato tra i 25 e i 100 miliardi di euro all’anno».
Uno spreco da 100 miliardi l’anno
La questione urgente è quella di eliminare la frammentazione degli armamenti europei. Secondo studi condotti dal Parlamento europeo, «la mancanza di cooperazione nel campo della difesa comporta uno spreco stimato tra i 25 e i 100 miliardi di euro all’anno». Troppe sovrapposizioni e duplicazioni industriali. Stando al rapporto The Military Balance 2025 compilato da The International Institute of Strategic Studies, nel 2024 nell’Unione europea erano operativi 13 versioni di carri armati, mentre negli Stati Uniti ce n’era uno solo; in Europa disponiamo di 14
modelli di caccia, gli Usa ne hanno sei.
Gli organismi dell’Alleanza Atlantica lavorano al processo di standardizzazione degli armamenti tra i Paesi membri, servirebbe però una strategia concordata tra i vari governi europei che, per ora, manca. C’è chi suggerisce di razionalizzare gli investimenti dividendosi il lavoro a seconda delle diverse specializzazioni, almeno tra i grandi Paesi produttori di armamenti: Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Turchia. Peraltro è lo schema che sta emergendo sul versante industriale.
L’industria corre, i governi sono lenti
Le aziende del settore difesa stanno moltiplicando gli accordi internazionali per costruire insieme gli armamenti principali. I nodi principali di questa rete sono costituiti da alleanze tra aziende francesi e tedesche per fabbricare carri armati e blindati da destinare agli eserciti di Germania e Francia. Anche l’Italia partecipa a diverse intese, in particolare con Leonardo, ex Finmeccanica, società controllata al 30% dal ministero dell’Economia che detiene il «golden power», il potere decisionale sulle scelte strategiche aziendali. Il gruppo ha concluso una joint-venture con la tedesca Rheinmetall per la produzione di 132 carri armati e 1.050 blindati; con i turchi di Baykar per la costruzione di droni; con il consorzio Mbda (i britannici Bae Systems, Leonardo e Airbus) per i missili; con il gruppo Eurofighter per i caccia; con i francesi di Thales per lo spazio.
L’orologio delle industrie oggi corre più veloce rispetto a quello
della politica. Questo è il commento del generale Aurelio Colagrande, vice Deputy Supreme Allied Commander Transformation della Nato: «Naturalmente noi non possiamo entrare nelle scelte delle industrie e della politica. La cosa importante è che si contenga la frammentazione e, in ogni caso, che i mezzi, gli strumenti messi a nostra disposizione siano compatibili tra loro». Come dire: non sarà facile eliminare completamente la concorrenza tra le imprese. Quanto ai governi: sarebbe opportuno spiegare con la massima trasparenza all’opinione pubblica le ragioni che impongono di aderire al piano di riarmo. E come verranno spese tutte queste risorse.
Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina
(da corriere.it)

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L’ITALIA PER TRE VOLTE POTEVA ARRESTARE IL CRIMINALE NETANYAHU E NON L’HA FATTO

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

SONO STATI TRE I PASSAGGI AEREI SUL NOSTRO PAESE DEL VELIVOLO CON IL RICERCATO PER CRIMINI DI GUERRA …UN TEAM DI AVVOCATI HA CHIESTO LE CARTE AL GOVERNO CHE HA RISPOSTO DICENDO DI “IGNORARE” CHI L’ABBIA AUTORIZZATO… O SIAMO IL PAESE DI DON ABBONDIO O DEI COMPLICI DEI CRIMINALI

Un team di avvocati ha chiesto a Palazzo Chigi le carte relative alle autorizzazioni per i tre passaggi nello spazio aereo italiano del velivolo del primo ministro israeliano tra febbraio e luglio di
quest’anno, quando era già ricercato dalla Corte penale internazionale. La presidenza del Consiglio ha scritto però di non esserne in possesso, e così il ministero delle Infrastrutture. Una vicenda che potrebbe legarsi alle accuse di complicità nei crimini commessi a Gaza
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ricercato dalla Corte penale internazionale, ha attraversato per tre volte lo spazio aereo italiano tra febbraio e luglio di quest’anno ma il Governo Meloni sostiene di non avere alcuna informazione in merito all’autorizzazione di quei transiti. “La materia esula dalle competenze di questa amministrazione [e] si fa presente di non avere agli atti la documentazione richiesta”. Così recita la risposta che la presidenza del Consiglio dei ministri ha fornito a inizio ottobre 2025 a seguito di un’istanza di accesso civico avanzata da un gruppo di legali composto, tra gli altri, dagli avvocati Luca Saltalamacchia, Michele Carducci, Veronica Dini e Antonello Ciervo. Nella stessa replica Palazzo Chigi ha fatto sapere che anche il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti -tecnicamente responsabile del transito nei cieli- avrebbe comunicato la “non competenza in materia e l’assenza ai propri atti dei documenti richiesta”.
“È inquietante che la presidenza del Consiglio dica di non sapere -spiegano i legali ad Altreconomia-. Si tratta infatti di una procedura con passaggi precisi e ufficiali, non di un evento improvviso o che possa sfuggire; ma soprattutto, oltre alla rappresentanza politica, la presidenza ha anche una funzione di
coordinamento fra tutti i dipartimenti e i ministeri dello Stato. Avrebbe dovuto ottenere la documentazione da chi di pertinenza. Significa che chiunque può sorvolare l’Italia a insaputa dell’esecutivo?”.
L’ultimo passaggio nello spazio aereo italiano del primo ministro israeliano -che da novembre 2024, come detto, è ricercato dalla Corte penale internazionale per gravissimi crimini di guerra e contro l’umanità commessi a danno della popolazione civile di Gaza- risalirebbe al 25 settembre 2025, circostanza da aggiungere alle tre menzionate nella richiesta dei legali (datata 9 settembre). Il Wing of Zion -l’omologo israeliano dell’Air force one statunitense- avrebbe peraltro deviato il suo percorso abituale per raggiungere New York allungando il tragitto di 600 chilometri proprio per evitare lo spazio aereo di Spagna e Francia. “Potrebbe aver scelto di cambiare rotta per sorvolare solo Paesi amici”, ipotizzano gli avvocati, facendo notare che gli uffici della presidenza del Consiglio non hanno in alcun modo contestato l’autenticità degli accadimenti o il loro numero, né hanno optato per un diniego giustificato “da motivi di segreto, o rapporti tra Stati, o di sicurezza, o di opportunità”.
L’ostentata indifferenza, quindi, può essere interpretata come una strategia. “È chiaro che cerchino di adottare una linea difensiva per loro il più tutelante possibile”, continuano dal gruppo legale. Ammettere anche solo di avere quei documenti significherebbe esporsi alla possibilità che la Corte penale internazionale chieda conto delle autorizzazioni
all’attraversamento dello spazio aereo: “La loro preoccupazione è dover giustificare perché l’hanno permesso, visto che avrebbero avuto l’obbligo di arrestarlo. Obbligo che scatta nel momento in cui il ricercato mette piede sul suolo ma anche quando sorvola la competenza territoriale aerea”.
Non sarebbe il primo affronto che il Governo Meloni rivolge alla Corte penale internazionale, come dimostra il caso della liberazione di Osama Njeem Almasri, capo della polizia giudiziaria libica e autore di torture e crimini efferati, con tanto di volo di Stato dall’Italia in Libia, all’inizio di quest’anno, in palese violazione degli obblighi di cooperazione internazionale.
Nel caso delle autorizzazioni ai voli di Netanyahu, però, l’inadempienza ai doveri previsti dallo Statuto di Roma potrebbe implicare responsabilità più gravi rispetto alle sanzioni. L’8 ottobre di quest’anno, infatti, Giorgia Meloni, insieme a Roberto Cingolani (amministratore delegato di Leonardo Spa) e ai ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto, è stata denunciata all’Aia dal Global movement to Gaza Italia per concorso in genocidio. Se la Corte decidesse di aprire anche in questo caso un cosiddetto “pre-trial”, queste autorizzazioni potrebbero configurarsi come un ulteriore elemento di complicità. “Potrebbe essere un tassello dell’accusa perché è della stessa matrice di altri comportamenti sottolineati nella denuncia -concludono i legali-. Se un governo rispettasse gli obblighi internazionali allora non supporterebbe uno Stato criminale in alcun modo, nemmeno consentendo al suo primo ministro di sorvolare i
proprio spazio aereo. Perché l’Italia non ha fatto come la Spagna? Se non si può ancora dire che questo è un atto di complicità si può pacificamente affermare che si tratta quanto meno di una manifestazione di un atteggiamento colpevolmente supportivo”.
(da agenzie)

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SEGRE AL VETRIOLO CONTRO LE PAROLE DI ROCCELLA SU AUSCHWITZ: “LA MEMORIA FA MALE SOLO A CHI HA SCHELETRI NELL’ARMADIO”

Ottobre 13th, 2025 Riccardo Fucile

LA SENATRICE RIBADISCE L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA STORICA PER LE NUOVE GENERAZIONI… CERTO CHE MINISTRI PIU’ SPROVVEDUTI DI QUELLI SCELTI DALLA MELONI ERA DIFFICILE TROVARLI

«Stento a credere che una ministra della Repubblica, dopo avere definito “gite” i viaggi di istruzione ad Auschwitz, possa avere detto che sono stati incoraggiati per incentivare l’antifascismo». Così Liliana Segre, senatrice a vita e testimone della Shoah, commenta le dichiarazioni della ministra alla Famiglia Eugenia Roccella sui viaggi di istruzione ad Auschwitz, che avrebbe definito «gite».
Segre sull’importanza della conoscenza storica
Segre sottolinea l’importanza della conoscenza storica per le nuove generazioni: «Quale sarebbe la colpa? Durante la seconda guerra mondiale, in tutta l’Europa occupata dalle potenze dell’Asse, i nazisti, con la collaborazione zelante dei fascisti locali – compresi quelli italiani della RSI – realizzarono una colossale industria della morte per cancellare dalla faccia della terra ebrei, rom e sinti e altre minoranze». La senatrice conclude con un messaggio chiaro sull’importanza della memoria: «La formazione dei nostri figli e nipoti deve partire dalla conoscenza della storia. La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi».
(da agenzie)

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