Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
“DAL 2026 AVREMO UNA PRESSIONE FISCALE PIÙ ELEVATA, E QUINDI, MENO CRESCITA. E MENO CRESCITA ANCHE PER IL MODO IN CUI IL GOVERNO HA CHIESTO DI RISCRIVERE LA CODA DEL PNRR, AMMESSO CHE BRUXELLES LO ACCETTI. SENZA ALTRE FONTI DI CRESCITA DALL’ANNO PROSSIMO L’ECONOMIA POTREBBE ENTRARE IN RECESSIONE”
Le leggi di bilancio del ministro Giorgetti sono un insieme di luci e di ombre. Delle luci, il miglioramento dei conti pubblici, abbiamo tratto vantaggio nei primi tre anni del governo.
Delle ombre rischiamo di pagare lo scotto fra qui e la fine della legislatura. La sequenza di queste leggi di bilancio è curiosa: i governi che pensano di durare un’intera legislatura, di solito cominciano varando provvedimenti utili, ma spesso impopolari, cercando di riguadagnare la popolarità prima delle elezioni.
Qui è accaduto il contrario: vediamo perché.
Nei primi tre anni del governo la pressione fiscale è salita un po’ più di un punto, dal 41,4 nel 2023 al 42,6 nel 2024. Questo è avvenuto senza che il Parlamento votasse alcun aumento di tasse. Semplicemente per effetto del picco di inflazione verificatosi nel 2023 a causa dell’aumento del prezzo del gas. L’aumento dei prezzi, e in misura minore dei salari, ha spinto molti contribuenti verso fasce di reddito con aliquote di tassazione più alte.
Da un paio d’anni questo «giochino» fa sì che i cittadini, a parità di beni e servizi acquistati, paghino, e lo Stato incassi, 25 miliardi di euro in più all’anno, dei quali solo 17 sono stati restituiti con la riforma fiscale. Questo spiega gran parte del miglioramento tanto vantato dei conti pubblici.
Un’altra misura che dovrebbe migliorare i conti pubblici è una
tassa sui profitti delle banche. Il governo ci aveva già provato due anni fa, ma le banche riuscirono a convincere il Parlamento a trasformare quella tassa in un aumento di capitale per le banche stesse. Risultato: banche più solide (ma nel 2023 già lo erano) e nessun gettito fiscale. Dubito che questa volta la tassa funzioni.
Se si pensa che le banche fanno troppi profitti la via maestra è aumentare la concorrenza fra gli istituti di credito. Con più concorrenza non solo si riducono i profitti delle banche, si riduce anche il costo dei prestiti alle imprese e così si aiuta la crescita. Si potrebbero anche ridurre le garanzie pubbliche sui prestiti alle imprese che trasferiscono allo Stato il rischio di prestiti non rimborsati. Le garanzie pubbliche erano state introdotte durante il Covid, quando raggiunsero la cifra di 294 miliardi, di cui 110 per proteggere le imprese durante la pandemia. Oggi la pandemia è finita, ma quei 110 miliardi di garanzie sono ancora lì: un altro motivo per cui i profitti delle banche sono tanto elevati.
Il governo sta cercando di migliorare i conti pubblici anche attraverso una riforma del Pnrr. Da qualche anno gli investimenti del Pnrr mantengono il nostro tasso di crescita un punto e mezzo circa più elevato. Il piano finisce il prossimo anno e da quel momento, in assenza di altri fattori che lo sostituiscano, la crescita rallenterà. Fin qui nulla di nuovo.
Ora il governo sostiene che fa sempre più fatica a spendere i fondi rimasti nel Pnrr perché i finanziamenti europei arrivano solo se si fanno le riforme concordate con Bruxelles, ad esempio si riducono le rendite dei produttori di energia elettrica. Ha quindi chiesto alla Commissione europea di trasferire quei fondi
ai normali capitoli del bilancio dello Stato, che non comportano impegni a fare riforme.
Il risultato è che alcuni capitoli del bilancio si alleggeriscono e i conti pubblici migliorano. Ma i progetti del Pnrr erano stati scelti fra quelli che si pensava potessero dare una spinta alla crescita: usarli per finanziare una sospensione dell’aumento dell’età pensionabile non avrà il medesimo effetto.
In conclusione: dal 2026 avremo una pressione fiscale più elevata, e quindi, già per questo, meno crescita. E meno crescita anche per il modo in cui il governo ha chiesto di riscrivere la coda del Pnrr, ammesso che Bruxelles lo accetti. Senza altre fonti di crescita dall’anno prossimo l’economia potrebbe entrare in recessione.
Francesco Giavazzi
per il “Corriere della Sera” –
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
CON IL GOVERNO MELONI LA LIBERTÀ DI STAMPA GODE DI PESSIMA SALUTE: OLTRE A QUERELARE, L’ESECUTIVO DA’ LA CACCIA ALLE FONTI DEI CRONISTI PRESENTANDO ESPOSTI IN PROCURA
Una delle fotografie della delegittimazione della destra nei confronti di Report e di Sigfrido
Ranucci è agli atti al Senato, datata novembre 2023. A prova di smentita.
Il senatore di Forza Italia, Roberto Rosso, ha depositato un’interrogazione dal contenuto quantomeno singolare: sollecitare le indagini, a suo giudizio ferme, per le querele per diffamazione fatte contro il programma di inchiesta di Rai 3.
Nell’atto presentato a palazzo Madama, il parlamentare di FI chiedeva al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di «comprendere le ragioni della inerzia investigativa nonostante
doglianze sovente introdotte da autorevoli personaggi con ruoli significativi nella vita del paese».
E da quella premessa ha chiesto successivamente al Guardasigilli di «disporre dei propri poteri ispettivi per accertare le ragioni che avrebbero determinato tale stato di cose da cui discenderebbe». Un senatore della maggioranza, insomma, si è preso la briga di sollecitare una velocizzazione del lavoro giudiziario contro Ranucci e Report.
Ed è solo un caso specifico tra i tanti. Perché la destra di Giorgia Meloni, che dopo l’esplosione dell’auto di Ranucci ha inneggiato all’unisono alla libertà di stampa, è la stessa parte politica che osteggia il giornalismo di inchiesta indipendente con vari modi. Compresa la caccia alle fonti dei cronisti autori di inchieste sgradite.
Come funziona questo meccanismo? Al posto della querela per diffamazione (o a supporto della querela) viene presentato un esposto per chiedere alla magistratura di indagare su come i giornalisti abbiano ottenuto le informazioni per i loro articoli.
È il “metodo Crosetto”, inaugurato dal ministro della Difesa dopo che Domani aveva pubblicato alcuni scoop sulle sue consulenze (negli anni della presidenza dell’Aiad) con i colossi dell’industria della difesa pochi mesi prima di assumere l’incarico di governo.
Un racconto di potenziale conflitto di interessi, che ha provocato la reazione di Crosetto. Così è andato in procura, chiedendo ai pm di scoprire la genesi dell’inchiesta giornalistica.
Quello di Crosetto è poi diventato un modello, che ha fatto scuola nel governo. Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari
gran consigliere di Meloni, aveva infatti annunciato un esposto alla procura per sapere per quale motivo fossero stati pubblicati alcuni articoli sui rapporti con la società di lobby. Non era bastato riportare le posizioni dei diretti interessati, le precisazioni: l’obiettivo era la scoperta delle fonti attraverso la via giudiziaria.
Da palazzo Chigi anche il capo di gabinetto di Meloni, Gaetano Caputi, (sebbene non sia un esponente politico dell’esecutivo) ha seguito la stessa strada: ha chiesto ai magistrati di indagare sulle inchieste giornalistiche fatte da Domani, in cui venivano raccontati gli affari e del manager pubblico, oggi al fianco della presidente del Consiglio in un ruolo centrale.
Anzi rispetto a Crosetto e Fazzolari ha fatto un passo ulteriore: ha contestato l’uso di banche dati pubbliche per la realizzazione di inchieste giornalistiche. Ma non c’è solo il metodo della caccia alle fonti, che rappresenta solo la punta dell’iceberg dell’offensiva contro la stampa da parte dei meloniani. Le querele fioccano, talvolta anche verso testate “amiche”, come testimoniano il caso dell’azione legale avviata dal ministro delle Imprese, Adolfo Urso, contro il Tempo (con la precedente direzione di Davide Vecchi) e il Giornale.
La maggioranza, nel corso di questa legislatura, ha votato una norma-bavaglio (prendendo spunto da un emendamento del deputato Enrico Costa, prima di Azione ora di Forza Italia) che vieta la pubblicazione delle ordinanze cautelari, integrali o per estratto, fino al termine dell’udienza preliminare
Dal punto di vista normativo, invece, è rimasta lettera morta qualsiasi ipotesi di riforma del reato di diffamazione. Un testo
era stato incardinato al Senato, a prima firma del meloniano Alberto Balboni, presidente della commissione Affari costituzionali di palazzo Madama.
Il contenuto, però, rischiava di peggiorare il quadro normativo, introducendo delle pesanti sanzioni pecuniarie per i giornalisti. E senza trattare la materia più delicata, quella delle querele temerarie, ampiamente praticate, per silenziare le voci dissonanti. Il confronto in parlamento si è quindi arenato, visto che l’intento di andare avanti in maniera bipartisan era complicato.
Al netto delle dichiarazioni di facciata, insomma, il governo Meloni non è destinato a passare alla storia come un modello di confronto con l’informazione libera. Gli attacchi alla stampa non si contano più. Del resto la premier è nota per evitare il confronto con i giornalisti.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
SE ANCHE I GIORNALISTI CONSIDERATI “DI SINISTRA” FINISCONO NEL MIRINO, LA SORA GIORGIA NON PUO’ PIÙ FRIGNARE SOSTENENDO DI ESSERE LA SOLA VITTIMA DI UNA PRESUNTA CAMPAGNA D’ODIO… IL PATETICO TEAM ORGANIZZATO DALLA “FIAMMA TRAGICA” (FAZZOLARI IN TESTA) CHE MONITORA LE TRASMISSIONI IN CERCA DI QUALCHE FRASE DA ESTRAPOLARE E USARE PER FAR SEMBRARE I MAL-DESTRI DEI MARTIRI
Il presunto clima d’odio che soffierebbe contro la destra. E, sorpresa, l’immigrazione, con una campagna ad hoc in via definizione, titolo dal sounding molto salviniano: «Fermati sbarchi, trafficanti e Ong». Sono questi i due temi attorno a cui
ruoterà la comunicazione di FdI, in vista di un anniversario cerchiato di rosso sui calendari di via della Scrofa: il 23 ottobre, tre anni di governo Meloni, che saranno celebrati sabato 25 al Parco dei Principi, l’albergo dei Parioli dove la premier festeggiò le Politiche del ‘22. E domani c’è un’altra data cerchiata: l’esecutivo Meloni diventerà il terzo governo più longevo dell’Italia repubblicana, superando Craxi.
Sul secondo argomento, l’immigrazione, è appena stata diramata una circolare interna firmata dal capo dell’organizzazione, Giovanni Donzelli. Sul primo, la strategia comunicativa non è diretta, dichiarata. È sempre, formalmente, una «reazione». Ma la macchina di Palazzo Chigi è ben rodata. L’operazione è in atto da mesi, venuta a galla più chiaramente dopo l’omicidio di Charlie Kirk.
Una squadra ristretta di parlamentari e dirigenti della fiamma, coordinata dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, monitora le ospitate tv (come quella di Maurizio Landini su La7, con la sortita su Meloni «cortigiana di Trump») o le trasmissioni generaliste, inclusa la tv di Stato, a caccia della frase da rilanciare.
Esempio recente: l’inviato Rai Jacopo Cecconi, che commentando il dibattito sulla possibile esclusione della nazionale israeliana di calcio dai Mondiali, aveva detto che gli azzurri, affrontandola a Udine, avevano l’occasione di «eliminare Israele almeno sul campo, vincendo».
Uscita estrapolata dal contesto e rilanciata da una batteria di agenzie stampa dei colonnelli meloniani indignati. Lo stesso team monitora i social della galassia antagonista: post estremisti
vengono utilizzati per poi chiedere all’opposizione parlamentare di dissociarsi (è avvenuto con l’indecente post di un semisconosciuto collettivo che ritraeva proprio Kirk a testa in giù).
C’è una chat “Comunicazione” di FdI, dove si preparano le uscite: ne fa parte naturalmente Fazzolari, ma anche Donzelli, i capigruppo Galeazzi Bignami e Lucio Malan, più alti dirigenti, eletti e non. Un’altra squadra, quella dei social guidata dall’esperto Tommaso Longobardi, controlla invece il «sentiment» sui social. E la narrazione sul clima d’odio contro Meloni funziona. Una conferma arriva dai recenti sondaggi: l’ultimo sfornato da Porta a Porta accredita FdI al 31%.
L’attentato contro Ranucci rischia però di scombinare la narrazione dell’odio solo contro la destra. Anche per questo ieri Meloni si è inalberata particolarmente per le dichiarazioni di Elly Schlein, che inseriva quell’episodio in un ragionamento sui rischi per la libertà di stampa con la destra al potere. Peraltro dall’estero, dopo tre anni in cui Meloni cerca di avvicinare i suoi Conservatori al Ppe (e a von der Leyen).
La campagna che l’opposizione definisce «vittimista» può servire anche a offuscare, nel dibattito pubblico e dell’informazione, altri temi meno graditi: l’attacco a Landini per l’offesa su «Meloni cortigiana» è partito due giorni dopo quelle dichiarazioni, mentre a destra si litigava sulla tassa sulle banche da inserire in manovra e mentre Marine Le Pen, in teoria un’alleata sovranista di Meloni, pungeva l’Italia per i troppi fondi ricevuti grazie al Pnrr, attribuendo principalmente a quei soldi i risultati economici del governo di Roma.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL GIORNALISTA DELL’HUFFPOST CHE HA POSTO LA DOMANDA È STATO INSULTATO DALLA PORTAVOCE KAROLINE LEAVITT: “NEMMENO I TUOI COLLEGHI TI RISPETTANO, MA NON HANNO IL CORAGGIO DI DIRTELO IN FACCIA. SMETTI DI PORRE DOMANDE DISONESTE, FAZIOSE E RIDICOLE”
«Chi ha scelto Budapest, in Ungheria, come sede del vertice tra Donald Trump e Vladimir
Putin?» A questa domanda, rivolta da un giornalista di HuffPost, la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha risposto con un laconico e pure surreale: «Tua madre». Poco dopo, il direttore delle comunicazioni Steven Cheung ha rincarato con la stessa battuta: «Tua madre».
Di fronte al tono derisorio, la testata ha chiesto chiarimenti, ricevendo in cambio attacchi personali. Leavitt ha definito il giornalista «un attivista di sinistra che nessuno prende sul serio», aggiungendo: «Nemmeno i tuoi colleghi nei media ti rispettano, ma non hanno il coraggio di dirtelo in faccia. Smetti di mandarmi domande disoneste, faziose e ridicole».
HuffPost, che ha raccontato l’episodio, ha spiegato che il quesito sulla scelta di Budapest era tutt’altro che provocatorio, ma legato al forte valore simbolico della città: proprio lì, nel 1994, fu firmato il Memorandum di Budapest, con cui l’Ucraina rinunciava alle armi nucleari in cambio della promessa – poi violata dalla Russia prima con l’annessione della Crimea e poi
con l’invasione su larga scala – di rispettarne la sovranità e i confini.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
I MANIFESTANTI SI SONO RADUNATI IN 2600 CITTA’ IN TUTTI I 50 STATI AMERICANI – A WASHINGTON C’ERA ANCHE BERNIE SANDERS: “PERSONE HANNO LOTTATO E SONO MORTE PER PRESERVARE LA DEMOCRAZIA. NON PERMETTEREMO A TRUMP DI PORTARCELA VIA”
Non ci sono due cartelli uguali in tutto il corteo: si va da “Impeach Trump” a “No Wannabee Dictator” appiccicato su un modellino di gomma della Statua della Libertà che una donna tiene in mano. Lungo Pennsylvania Avenue trionfano la fantasia degli addobbi e la paura per lo stato della democrazia negli Stati Uniti
Ci sono colori carnascialeschi, gente vestita da carcerati con teste agghindate da caricature di Trump. E poi slogan e canti si ripetono, quattro mesi dopo la manifestazione No Kings del 14 giugno. «Sfiliamo», dicono gli organizzatori, contro quello che hanno definito “l’autoritarismo” del presidente americano. Sul sito Web si legge: «Il presidente pensa che il suo potere sia assoluto».
Anziché il National Mall, questa volta il cuore è lo spiazzo antistante Capitol Hill, sede di un Congresso dove democratici e repubblicani non riescono a trovare nemmeno un punto di appoggio per mettere fine allo shutdown ormai giunto al giorno numero 19.
I numeri della protesta sono imponenti: 2600 raduni in tutti i 50 Stati americani; le manifestazioni più importanti sono nelle grandi città e ognuna trova un particolare, un dettaglio della politica di Trump da mettere sotto la lente e criticare. A Butler Field nel Gran Park di Chicago ad esempio la folla protesta contro i raid degli agenti dell’immigrazione (Ice) e lo schieramento della Guardia Nazionale ormai in realtà schierata in quasi dieci città.
Migliaia di persone anche a Times Square a New York. L’onda travalica i confini nazionali: manifestazioni ci sono state a Firenze, Berlino, Londra. «Non c’è nulla di più americano nel dire che non vogliamo re ed esercitare il diritto alla protesta pacifica», ha detto Leah Greenberg. È la co-fondatrice di Indivisible un’organizzazione progressista tra gli organizzatori della coalizione che ha messo in piedi nei mesi scorsi il movimento No Kings.
Sono centinaia le sigle, fra cui la Aclu, (American Civil Liberties Union) che hanno gestito logistica e pianificazione nei 2600 luoghi di protesta. Una delle indicazioni fornite ai partecipanti era quella di indossare vestiti o qualcosa di colore giallo,
richiamo alla “Protesta degli ombrelli” a Hong Kong.
Si sono mobilitati pure i senatori. A Washington c’era Chris Murphy, Connecticut, sul palco: «Trump sta mettendo in atto passo dopo passo un piano per distruggere ogni cosa protegga la democrazia, ma non ha vinto, è il popolo a governare il Paese». Anche Bernie Sanders, il senatore indipendente, ha preso la parola: «Nel corso della storia persone hanno lottato e sono morte per preservare la democrazia. Non permetteremo a Trump o a chiunque altro di portarcela via».
Sostegno alle marce è arrivato dalla deputata progressista Alexandria Ocasio-Cortez, da Hillary Clinton e dal mondo di Hollywood. John Legend, Jane Fonda Alan Cumming hanno partecipato alle marce. Robert De Niro ha pubblicato un video per esortare gli americani «ad alzare la voce in modo non violento».
A differenza di altre manifestazioni questa volta i repubblicani non sono stati a guardare. Lo speaker della Camera Mike Johnson ha coniato il termine “Hate America rally” per descrivere i raduni bollati come non americani. «Scommetto che ci saranno sostenitori dei terroristi di Hamas fra quelle persone» ha detto.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELLA REGIONE LOMBARDIA PARLA ANCHE DEL PROGETTO DELLE DUE LEGHE, SULLA FALSARIGA DEI DUE PARTITI POPOLARI TEDESCHI CDU E CSU, CHE PERO’ “PRESUPPORREBBE ANZITUTTO LA ROTTURA” … E SALVINI AMMETTE CHE NEL PARTITO “QUALCOSA VA REGISTRATO”
Da quando è diventato un partito nazionale, c’è sempre qualcuno che spiega ai leghisti cos’è la
Lega. Perciò il governatore della Lombardia ce l’ha con i soldati di ventura, quelli con le stellette e quelli senza, che hanno alterato il volto del Carroccio
rendendolo irriconoscibile agli occhi dei suoi elettori tradizionali.
Anni fa Attilio Fontana fu costretto persino ad ascoltare una lezioncina sul futuro del partito da Francesca Donato, un’europarlamentare siciliana appena salita sul Carroccio. Da dove, manco a dirlo, sarebbe scesa poco tempo dopo. Non è quindi una questione di gradi: che sia un caporale o un generale, il nuovo arrivato s’incarica di indicare una strategia vincente agli eredi del Senatùr.
Solo che l’altro giorno, quando Roberto Vannacci ha addossato la responsabilità della debacle in Toscana ai vecchi dirigenti leghisti, il presidente della Lombardia ha esternato la sua amarezza a un collega di partito: «Non possiamo buttare via tutto. Non possiamo accettare un’erosione dei nostri valori e dei nostri elettori».
In quella frase c’era la percezione di un tradimento e il senso di un’incompatibilità comportamentale prima ancora che politica con l’ex comandante della Folgore. «Il segretario ci aveva chiesto di tacere». E per Fontana la sconfessione di Matteo Salvini da parte di Vannacci è più grave della distanza ideologica che lo separa da chi evoca la Decima Mas, «altrimenti da giovane mi sarei iscritto a CasaPound».
Ma il punto è un altro: è che a furia di includere altre identità i leghisti d’antan hanno sentito escludere la propria. Ed è vero che il partito ha vissuto alti e bassi, però è sempre stato riconoscibile, convintamente federalista e territoriale. Anche nelle sconfitte non sbiadiva il suo tratto distintivo. «E proprio ora che in Europa e in Italia avanza un processo di centralizzazione — ha
commentato Fontana con l’amico — non possiamo essere autonomisti a Bruxelles e centralisti a Roma».
Questa forma di schizofrenia politica che rasenta la diarchia tra Salvini e Vannacci non è più gestibile. E infatti ieri il segretario della Lega ha iniziato a tirare una riga con il suo vice: «Quando si vince non lo si fa mai da soli. Quando si perde non lo si fa mai da soli. Quando perdi due a zero non puoi far finta di niente. Qualcosa va sistemato». In che modo, si vedrà. Il progetto delle due Leghe, sulla falsariga dei due partiti popolari tedeschi Cdu e Csu, appare al momento un escamotage lessicale. Perché — per usare le parole di Fontana — «presupporrebbe anzitutto la rottura».
Per quanto fosse consensuale, si tratterebbe insomma di una vera e propria scissione. Non certo una cosa indolore. E chi se ne assumerebbe la responsabilità? In che modo verrebbe gestita la transizione? Come si dividerebbero i ministri, i parlamentari, i consiglieri regionali e quelli locali? Quale tipo di rapporto si instaurerebbe tra forze che alla lunga avrebbero inevitabilmente interessi diversi? E quale impatto avrebbe sugli elettori?
Semmai il governatore lombardo invita i due colleghi leghisti del Nord a prendere un’iniziativa politica, «ma se poi ognuno pensa a sé stesso…».
Cosa si nasconda dietro questa frase lo ha raccontato un consigliere regionale del Carroccio, secondo il quale «il presidente aveva proposto a Luca Zaia e Massimiliano Fedriga di lanciare un segnale pubblico. Niente di clamoroso ma visibile. Una loro foto corredata dalla scritta “Autonomia, territori, moderazione”. E quando ho chiesto notizie a Fontana, lui mi ha
risposto che se va avanti così si rimette a giocare a golf».
(da Corriere della Sera)
–
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
UNO SNODO CRUCIALE: UNA VITTORIA CONSENTIREBBE ALLA SEGRETARIA DEL PD DI METTERE LE BASI DI UNA RIVINCITA DEL CENTROSINISTRA ALLE POLITICHE
È stato un attacco a freddo, ben meditato, quello di Elly Schlein a Giorgia Meloni. La segretaria del Pd non è un’improvvisatrice. E a dare enfasi al suo allarme sulla «democrazia a rischio con l’estrema destra al governo» ha contribuito anche la coreografia del Congresso dei socialisti europei ad Amsterdam, che si è chiuso con le note di Bella ciao.
Schlein ha un obiettivo in testa e perciò punta a un autunno caldo e, se possibile, a un inverno ancor più bollente, in previsione della primavera del 2026, quando si terrà il referendum costituzionale sul disegno di legge che introduce la separazione delle carriere, che dovrebbe essere approvato in via definitiva dal Senato entro il 30 ottobre.
Un referendum dall’esito incerto, il cui risultato può decidere le sorti delle elezioni politiche del 2027. Una vittoria consentirebbe alla segretaria del Pd di mettere le basi di una rivincita del centrosinistra tra due anni. Ma per riuscirci il Pd nella campagna referendaria non può «indugiare nei tecnicismi» o «appiattirsi sui magistrati».
Perciò, in un referendum che non prevede il quorum, la leader dem vuole mobilitare il più possibile il proprio elettorato. Come? Lo spiega il senatore Andrea Giorgis, che in commissione Affari costituzionali ha seguito per il Pd l’iter del ddl: «Dobbiamo lanciare messaggi semplici ed efficaci per far capire che la posta in gioco non è rappresentata dagli aspetti tecnici della riforma ma dal fatto che è un ulteriore passo verso la democrazia totalitaria, quella della destra, secondo cui chi vince può tutto».
Schlein mira a mobilitare il popolo dem e quello del centrosinistra «a difesa della Costituzione», puntando l’indice
sul «reale obiettivo di Meloni», che è quello di «assumere i pieni poteri».
La segretaria non vuole farsi scavalcare in questa battaglia da Conte. Perciò, anche se il referendum è scontato, visto che la riforma non sarà approvata dai due terzi del Parlamento e che la stessa maggioranza ha annunciato che solleciterà il voto sul suo ddl, il Pd farà comunque la richiesta di andare alle urne, con un quinto dei suoi parlamentari.
(da Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
NESSUNO LO DICE MA E’ RIDICOLO CHE A UN SOGGETTO SOTTO SCORTA NON VENGA ASSEGNATA UNA VIGILANZA DEL’ABITAZIONE E CHE VENGA PEDINATO DPER SETTIMANE SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA
Continuano le indagini sull’ordigno fatto esplodere giovedì notte sotto l’automobile di Sigfrido
Ranucci a Pomezia. Il lavoro degli inquirenti non lascia indietro alcuna ipotesi. La principale è che a piazzare la bomba, fabbricata con un chilo di polvere pirica, una quantità ritenuta dagli artificieri sufficiente per uccidere, sotto l’automobile del giornalista di Report possano essere state figure legate alle sue ultime inchieste, dai clan alla criminalità organizzata fino al mondo degli ultras.
Non si esclude, però, che a posizionare la bomba sia stata una persona “su commissione”. Escludendo che i grandi gruppi
criminali vogliano affidarsi a terzi, il mandante potrebbe essere una figura che ha agito per ragioni “strettamente personali”.
Chi indaga, inoltre, sta trovando correlazioni che potrebbero collegare l’ordigno con il rinvenimento di due proiettili di una P38, ritrovati lo scorso anno davanti all’abitazione di Ranucci. Le ricerche adesso si concentrano anche su un’automobile scura a bordo della quale sarebbe arrivato chi ha piazzato la bomba.
L’ordigno sotto alla macchina e i due proiettili della P38
Per cercare di chiarire chi possa aver piazzato la bomba esplosa giovedì scorso, le indagini continuano anche nel passato di Ranucci e scavano fra le tante minacce e gesti intimidatori che hanno preceduto questo: non a caso, Ranucci vive sotto scorta dal 2009. Un anno fa, ad esempio, davanti all’abitazione del giornalista sono stati ritrovati due proiettili di una P38, lasciati nello stesso luogo in cui è stata ritrovata la bomba, a pochi passi dall’ingresso in cui parcheggia l’automobile il giornalista, davanti a uno degli ingressi della casa, l’unico utilizzato dal giornalista. Questo sembra confermare il fatto che a piazzare proiettili e bomba sia stato qualcuno che seguiva ogni movimento di Ranucci.
Un altro punto in comune è che giovedì scorso, così come un anno fa, Ranucci rientrava a casa dopo un periodo di assenza, ulteriore prova che fosse monitorato da chiunque volesse minacciarlo, come ha spiegato lui stesso durante il colloquio con il pm Carlo Villani e il procuratore capo Francesco Lo Voi. Lo scorso anno, però, i due proiettili sono stati lasciati davanti
all’ingresso, con una “cura” che non è passata inosservata agli agenti della scorta, i primi ad accorgersi della loro presenza.
Caccia all’auto sospetta: acquisite le videocamere di sorveglianza
Oltre a cercare di risalire ai mandanti dell’attentato, gli inquirenti stanno cercando di individuare chi abbia materialmente posizionato la bomba sotto all’automobile. Al lavoro ci sono gli agenti della Digos, i carabinieri del nucleo investigativo di Frascati e di via In Selci, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia con l’aggiunta Ilaria Calò. Sono loro che stanno passando al vaglio le telecamere di videosorveglianza per cercare di ricostruire la serata di giovedì e individuare chi abbia piazzato l’ordigno. Riprese condominiali, telecamere in rotatorie e semafori, registrazioni esterne gli esercizi commerciali: l’obiettivo è ricostruire immagine per immagine il percorso di un’automobile ritenuta sospetta.
L’ipotesi della “minaccia su commissione”: indagini sui possibili mandanti
L’ipotesi che l’esplosione dell’ordigno sia stata una “minaccia su commissione” piuttosto che un atto intimidatorio da parte di un grosso gruppo di criminalità organizzata sembra farsi largo fra gli inquirenti. Il mandante potrebbe aver agito “a titolo personale”, riporta il Corriere della Sera, per interessi privati. E figure di questo genere non mancano nelle inchieste portate avanti dal giornalista: da imprenditori coinvolti in appalti non troppo trasparenti a personalità che dividono la propria vita fra quella in veste ufficiale e una più nascosta.
Sarebbe stato lo stesso Ranucci ci sarebbero almeno quattro o cinque piste che ricondurrebbero allo stesso ambito. Da non
tralasciare, infine, il fatto che nella stessa giornata di giovedì un pentito di mafia, fonte di Report, sia stato trasferito da una località protetta all’altra.
E mentre da una parte continuano le indagini, dall’altra non manca la solidarietà dei colleghi di Ranucci, dalla Rai che ha parlato di “attacco al pubblico servizio”, dal mondo della politica e anche dalle persone comuni che si sono ritrovate sotto casa sua in quattrocento per far sentire al giornalista la loro vicinanza.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 19th, 2025 Riccardo Fucile
VICINA AL FALLIMENTO LA SORELLE FONTANA DELLA FIDANZATA OLIVIA, SERVONO TANTI SOLDI
A casa per l’ex premier non va meglio che al consiglio nazionale del M5s. Finito l’effetto dei suoi vecchi decreti Covid c’è da ripianare il fiume di perdite del gruppo Paladino. Anche quella della storica maison di moda, che vestì i protagonisti della Dolce vita
Se nel M5s di cui è presidente in attesa di quasi certa riconferma Giuseppe Conte ha i suoi guai dopo le polemiche dimissioni di Chiara Appendino dalla vicepresidenza del movimento, quando a sera torna a casa dalla sua compagna Olivia Paladino il poveretto non cambia spartito. Anche lì, a pochi passi dalla centralissima via del Corso, i guai non mancano e sono perfino più sostanziali, perché riguardano le finanze della famiglia acquisita. L’ultima grana arriva dalle Sorelle Fontana, lo storico marchio di moda che fu simbolo del made in Italy e della Dolce vita negli anni Cinquanta, poi acquistato nel 1992 insieme al punto vendita di via della Fontanella Borghese dal suocero di Conte, Cesare Paladino.
Olivia per alcuni anni vicepresidente della maison, ora ne è proprietaria con la sorella Della maison Sorelle Fontana srl si è occupata qualche anno fa proprio Olivia, la compagna del leader M5s, che per alcuni esercizi ne è stata anche vicepresidente. Poi la conduzione della società è stata affidata all’architetta di
fiducia di famiglia, Roberta Bichel, che ne è diventata amministratrice unica fino all’approvazione del bilancio 2024 avvenuta il 17 settembre scorso. Un anno non felicissimo, visto che i ricavi delle Sorelle Fontana sono stati inesistenti (zero euro di fatturato), ma le perdite di una certa consistenza, visto che sono state di 148.850 euro. Il problema è che tutti gli ultimi anni anche quando qualche incasso è arrivato, l’emorragia non si è fermata e nei conti della società si è arrivati al punto limite.
Le perdite accumulate anno dopo anno senza doverle ricoprire subito
Dal 2020 ad oggi le Sorelle Fontana, che attraverso una lunga architettura societaria del gruppo della famiglia Paladino, appartengono alla fidanzata di Conte e a sua sorella, hanno solo perso soldi. Rosso di 166.913 nel 2020, altro rosso di 328.567 euro nel 2021, e poi ancora 114.709 di perdita nel 2022, altro rosso di 232.070 euro nel 2023 e ora questa ultima perdita di 148.850 euro. In tutti e cinque gli anni il patrimonio netto della società è stato negativo, ogni anno di più. In questa situazione una società a norma di codice civile deve convocare senza indugio l’assemblea dei soci chiedendo loro di mettere mano al portafoglio e ricostituire il capitale. Quest’obbligo è stato derogato però proprio da una norma di legge che porta la firma di Conte quando era presidente del Consiglio: l’articolo 6 del decreto-legge 23 del 2020. Eravamo in periodo Covid e tutta l’Italia era stata chiusa da Conte: ovvio che le imprese si trovassero in difficoltà, per cui è stato concesso loro di non portare i libri in tribunale dando 5 anni di tempo per coprire quelle perdite. La norma è stata poi prorogata sia per l’anno 2021 che per il 2022. E la sua efficacia è venuta meno a partire dal bilancio 2023.
La Sorelle Fontana srl ha dunque tempo fino alla fine di quest’anno per coprire le perdite 2020, alla fine del 2026 per coprire le perdite 2021 e fino alla fine del 2027 per coprire le perdite 2022. Ma avrebbe dovuto coprire lo scorso anno le perdite 2023 e nel settembre scorso le perdite 2024, cosa che al momento non è avvenuta. Così si trova con un patrimonio netto negativo di 1,674 milioni di euro che non possono restare lì sospesi senza mettere mano al portafoglio: si rischiano provvedimenti del tribunale. L’architetta Bichel che amministrava la società ne era ben consapevole, tanto che a settembre ha rassegnato le dimissioni dall’incarico, ceduto proprio al suocero di Conte che le è subentrato. Prima di andare via però ha fatto mettere a verbale: «La direzione aziendale fa presente che tra i fattori di rischio emerge tuttavia la riduzione del patrimonio netto a causa delle perdite, in quanto causa di scioglimento ex art. 2484 c.c. Tale causa è stata in ogni caso superata nel triennio precedente in base alle normative contenute, da ultimo, nel c.d. “Decreto Milleproroghe” che hanno previsto per gli esercizi 2020, 2021 e 2022 la possibilità di provvedere alla sterilizzazione degli effetti delle perdite registrate. Sono stati valutati infine piani aziendali futuri per fronteggiare tale fattore di rischio, tra i quali l’incorporazione della società nelle società partecipanti».
Il tentativo di fusione con la società che gestisce il Plaza, che è piena di suoi gua
L’ipotesi che la Bichel ha lasciato sul tavolo è quella di procedere alla fusione con l’azionista di maggioranza, che è altra società indirettamente di proprietà della fidanzata di Conte e della sorella: la Unione esercizi alberghi di lusso srl, che gestisce l’attività dell’Hotel Plaza di Roma. Quella società però ha la gestione dell’hotel, ma non la proprietà delle mura che è in carico ad altra società di famiglia (la Roma splendido srl). Anche se siamo a metà ottobre non ha ancora depositato in camera di commercio i suoi conti 2024. Però sono ben noti quelli del 2023, ed è chiaro che non se la passasse benissimo: esercizio in perdita di 8,2 milioni di euro, patrimonio netto negativo oltre gli 8 milioni di euro (quindi anche lei avrebbe bisogno di essere ricapitalizzata), ma soprattutto una pioggia di cartelle da parte del fisco per tasse non pagate in passato con una cifra enorme da saldare: 29,859 milioni di euro. Qualche numero potrebbe essere migliorato (ma anche peggiorato) nel 2024, però sembra davvero difficile che possa essere l’Hotel Plaza a salvare dai guai le Sorelle Fontana.
Il celebre marchio che vestì la Dolce vita, da Ava Gardner a Jackie Kennedy e Anita Ekberg
Lo storico marchio della moda era famosissimo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. La sartoria delle tre sorelle Fontana, Zoe, Micol e Giovanna (tutte e tre scomparse) confezionava abiti straordinari per la nobiltà romana (era loro cliente la regina Maria Josè di Savoia), e soprattutto per le grandi attrici internazionali protagoniste degli anni della Dolce Vita. Walter Chiari accompagnava nel loro atelier Ava Gardner ai tempi della loro relazione. Linda Christian si fece fare lì l’abito da sposa per il matrimonio con Tyrone Power. Si servivano dalle Fontana
Jackie Kennedy, Marella Agnelli, Liz Taylor, Anita Ekberg, Grace di Monaco, Kim Novak, Sophia Loren e tante altre star. Furono sempre le Sorelle Fontana a disegnare una delle prime divise delle hostess della neonata compagnia aerea di bandiera, Alitalia.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »