Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
LE SFORBICIATE DEL MEF HANNO APERTO UNO SCONTRO DENTRO LA MAGGIORANZA DI GOVERNO
«Sono scappato da Roma perché i ministri mi inseguivano per i tagli alla spesa pubblica, ma la gente vuole che si tagli». Nelle scorse ore, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha usato queste parole per difendere la sforbiciata ai ministeri che farà risparmiare alle casse dello Stato circa dieci miliardi nell’arco dei prossimi tre anni. Già, ma quali sono i dicasteri più colpiti dall’austerità della manovra approvata dal governo?
Quanto valgono le sforbiciate di Giorgetti
A mettere in fila i numeri è il Corriere della Sera. Che precisa come i tagli ai bilanci dei ministeri per il triennio 2026-2028 faranno sparire 10,4 miliardi di euro di spese previste e finanziate. Di questi, 7,2 miliardi slittano al prossimo triennio (e quindi anche oltre la legislatura in corso), altri 3,2 vengono cancellati definitivamente. La scure di Giorgetti si è abbattuta sugli stanziamenti inutilizzati. Ossia su quelle spese che vengono riscritte di anno in anno nel bilancio dei ministeri ma non sono ancora state sostenute.
I ministeri più colpiti
Uno dei ministeri che escono più malmessi dai tagli del Mef è sicuramente il ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini,
compagno di partito dello stesso Giorgetti. Al Mit la sforbiciata varrà 754 milioni nel 2026 e 1,2 miliardi nel triennio, a cui va aggiunto lo spostamento di 1,3 miliardi di investimenti al triennio successivo. Totale: 2,5 miliardi. Non va meglio al ministero dell’Ambiente di Gilberto Pichetto Fratin, costretto a rinunciare a 105 milioni nel 2026 e a veder rinviati altri 870 milioni a dopo il 2028. «Ho avuto un taglio notevole, vedremo di rimodulare», ha commentato il titolare del Mase, in quota Forza Italia. Al Viminale, il taglio di Giorgetti farà sparire 176 milioni di residui e porterà al rinvio di altri 580 milioni, mentre il ministero della Cultura perderà più di 300 milioni di euro nel triennio.
I tagli alle metro e alle manutenzioni di strade e gallerie
Le conseguenze pratiche di queste sforbiciate hanno già creato malumori nella maggioranza e proteste fra i cittadini. I definanziamenti al ministero di Salvini, per esempio, prevedono il ritiro di 50 milioni di euro per la Metro C di Roma, 15 milioni per la metro M4 di Milano e 15 milioni per la metro Napoli-Afragola. Ma a preoccupare sono anche i fondi venuti meno per il monitoraggio di viadotti e gallerie, tagliati di 150 milioni.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
OGNI SECONDO LA CEMENTIFICAZIONE CRESCE DI 2,7 METRI QUADRI… SECONDO L’ISPRA NEL 2024 LE COSTRUZIONI SONO AUMENTATE DEL 15,6%
Ieri è stato presentato l’ultimo rapporto nazionale dell’Istituto superiore per la protezione e la
ricerca ambientale (Ispra), sul consumo di suolo in Italia nel 2024. Prima di vedere alcuni dettagli del report chiedo: che valore ha il suolo? Una domanda del tutto legittima, ma che erroneamente tendiamo a pensare che possa essere d’interesse solo per gli esperti, o per chi con il suolo ci lavora. Eppure il suolo è tra le risorse vitali più importanti che la natura ci fornisce, solo che, stando sotto di noi, non lo consideriamo. E in quel noi si senta inclusa anche la classe politica degli ultimi 13 anni, che non è stata capace di approvare una legge che lo tuteli.
Il suolo ha a che fare con la nostra quotidianità: fornisce cibo, acqua pulita ed è un alleato del clima. L’urbanizzazione da un lato (quasi il 70% degli italiani vive in città), e l’industrializzazione del settore agricolo dall’altro (nel mondo l’1% delle aziende agricole coltiva il 70% dei campi), hanno reciso il nostro legame con la terra, facendoci dimenticare che tutto ciò di cui noi e le altre specie viventi ci cibiamo, in maniera più o meno diretta, proviene dal suolo. Il suolo inoltre agisce come un serbatoio che trattiene e rilascia l’acqua a seconda delle necessità; questa sua funzione serve a mitigare sia i periodi di siccità che per attenuare l’impatto delle inondazioni. Infine, non per importanza ma per mancanza di notorietà, il suolo è un immenso serbatoio di carbonio in quanto i microrganismi in esso presenti (microbi, funghi e batteri), hanno una straordinaria capacità di sequestrare la Co2 dall’atmosfera e immagazzinarla sotto la superficie terrestre. Alla luce della relazione che c’è tra Co2 presente in atmosfera e aumenti di temperatura, capiamo bene l’importanza di questa funzione. Se il suolo potesse fornire compiutamente questi e altri servizi ecosistemici, l’entità della crisi ambientale e della perdita di produttività agricola sarebbero meno allarmanti; a impedire che ciò avvenga sono i nostri comportamenti predatori spesso orientati unicamente al profitto.
Il consumo di suolo viene infatti ampiamente percepito come una rendita che, facendo girare una parte importante dell’economia, fa crescere il Pil; e se il Pil cresce allora significa che il nostro Paese sta bene. Se ci pensiamo però questo ragionamento da adito a situazioni assurde. Faccio un esempio: la costruzione di un nuovo capannone per un futuro centro
commerciale fa crescere il Pil, così come lo fa anche lo smaltimento delle macerie causate da un dissesto idrogeologico causato da piogge intense. La prima attività provoca il consumo di suolo, la seconda invece è causata dall’eccessivo consumo di suolo provocato da cementificazione, agricoltura intensiva, scarichi industriali che rendono più fragili i terreni. Secondo i dati del rapporto nazionale dell’Ispra, oggi le infrastrutture, gli edifici e le altre coperture artificiali occupano più di 21.500 chilometri quadrati, il 7,17% del territorio italiano. In Europa la media è del 4,4%. Oltre a quanto già cementificato, va aggiunto che il consumo di suolo continua ad aumentare. I dati dell’ultimo anno (2024) mostrano una crescita significativa: 83,7 chilometri quadrati di territorio trasformato in aree artificiali, con un incremento del 15,6% rispetto al 2023. Il ritmo raggiunge i 2,7 metri quadri al secondo, pari a quasi 230.000 al giorno. Questo significa che quando arriverete alla fine di questo articolo, si sarà cementificata una superficie probabilmente nettamente superiore alla dimensione della casa di ognuno di noi.
Tutti questi dati assumono un valore ancora più impattante se relazionati alla dimensione demografica del vecchio continente e, in particolare, della nostra penisola. In questo senso, il rapporto assume un carattere paradossale. Le statistiche ci parlano oggi di inverno demografico, ma i processi di urbanizzazione e di infrastrutturazione non sembrano avere alcun legame diretto con il calo della popolazione. In molte regioni si assiste così a una crescita delle superfici artificiali anche in presenza di decrescita della popolazione residente. Se dal 2006 al 2018 il suolo consumato per ogni italiano era aumentato di 6,5 metri quadri per abitante, negli ultimi 6 anni, tra il 2018 e il 2024, si è registrata una crescita quasi tripla, pari a 18,4 per abitante. La domanda sorge dunque spontanea, chi lo occuperà mai tutto questo suolo cementificato?
Questa dinamica evidenzia ancora meglio una logica predatoria che tende ad accumulare per il solo scopo di farlo, senza badare alle reali esigenze nostre di tutte le forme di vita con cui condividiamo gli spazi vitali. Che si tratti di beni, materie prime o terreni, noi non possiamo più permetterci di perseverare in questa logica malata.
Veniamo a una notizia positiva. Il Parlamento europeo ha approvato giovedì 23 ottobre, con una maggioranza risicata, la direttiva sul monitoraggio del suolo, la prima normativa europea che riconosce il suolo come risorsa viva e limitata, da tutelare al pari dell’acqua e dell’aria. Gli Stati membri dovranno istituire sistemi di rilevamento della condizione fisica, chimica e biologica dei suoli, basati su una metodologia comune Ue, e i dati saranno comunicati regolarmente alla Commissione europea e all’Agenzia europea dell’ambiente, per garantire un quadro comparabile e coordinato a livello comunitario.
In un mondo che ha bisogno di masticare dati e avere il risvolto economico di ogni singolo aspetto, è bene avere coscienza che anche ciò che non si vede ricopre un ruolo importantissimo per il mantenimento della vita sulla Terra. Tenere alta l’attenzione su importanti temi come questo impone di evidenziare che anche la funzione ecosistemica del suolo ha un suo valore monetario. Perché da un suolo malato, e oggi si stima che più della metà della superficie fertile europea non sia più sana, noi ci
esponiamo a un crescente rischio di dissesto idrogeologico, infertilità dei terreni, inquinamento delle falde acquifere: tutti aspetti che impattano fortemente anche sulla vita e sulla salute di noi esseri umani. Si stima infatti che nel solo continente europeo le esternalità negative che derivano da una cattiva salute del suolo arrivino a superare i 40 miliardi di euro. Sebbene si tratti di sottosuolo, non credo che una tale cifra possa passare inosservata, soprattutto se teniamo davvero al futuro di chi verrà dopo di noi.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
IL TEMA CRUCIALE E’ IL RISPETTO DEL PATTO COSTITUZIONALE
Com’era prevedibile, opinionisti benpensanti e servi salmodianti hanno menato scandalo per l’accusa che Elly Schlein ha rivolto a Giorgia Meloni, dopo l’attentato a Sigfrido Ranucci. In effetti, legare quella bomba alla «democrazia a rischio» quando
governano le destre è una forzatura. Ma è sbagliato fermarsi al dito che la indica senza vedere la luna che c’è dietro.
Come sempre lo “scontro Meloni-Schlein” ha la sua forza mediatica. Ma non facciamoci fuorviare dalla trappola del «mandante morale», di cui la premier abusa per stendere una cortina fumogena sulla manovra economia più mediocre dal 2014 a oggi. Parliamo del “contesto”, in cui precipita quell’odioso attacco alla libera informazione.
Se partiamo da qui, è difficile non vedere tracce di un certo «sovversivismo delle classi dirigenti» di cui parlava Gramsci quasi un secolo fa. Ed è impossibile non vedere la clamorosa menzogna con la quale la premier copre i deficit di democrazia che ha cumulato nella sua longeva legislatura. In Senato ha mentito spudoratamente, dicendo che l’Italia recupera posizioni nella classifica mondiale della libertà di stampa: è vero il contrario, nel 2025 Reporter sans Frontières certifica un ulteriore slittamento dal 46esimo al 49esimo posto, peggior risultato tra i Paesi dell’Europa occidentale.
Come l’ideologia possa sovvertire la verità, e quindi alla fine coincidere con la morte della democrazia, ce l’ha spiegato qui Massimo Recalcati. Ed è questo, adesso, il passaggio critico che non dovremmo sottovalutare. Al di là delle risse di giornata e di bottega.
Qualche anno fa Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, docenti di Scienza politica a Harvard, pubblicarono un saggio intitolato Come muoiono le democrazie. L’assalto para-golpista a Capitol Hill doveva ancora arrivare, ma i due già prefiguravano il piano inclinato sul quale scivolava l’America del primo Trump, grazie
a un dispositivo di potere che attraverso spinte progressive e regressive incrina i pilastri sui quali poggia una democrazia.
E non avevano ancora visto il secondo Trump: la sorprendente reinvestitura dello sceriffo di Washington e l’inquietante saldatura del kombinat militare-industriale-digitale che ormai domina sul disordine mondiale, a partire dalla “pace dei ricchi” firmata a Sharm el-Sheikh sulle spoglie della Palestina.
Ziblatt e Livitsky ci invitavano a liberarci da un’illusione. Non è più tempo di golpe cileni: le democrazie vengono erose con altri mezzi, più subdoli e sottili. I nuovi demiurghi sono votati dal popolo, ma quella che un numero sempre più ridotto di elettori gli affida è ormai una delega in bianco, e l’eletto la esercita con norme approvate da parlamenti ridotti a votificio e leggi vidimate da organi di garanzia sviliti a notai.
Così, passo dopo passo, le democrazie sfioriscono in autocrazie elettive, o peggio ancora in democrature. Cos’altro sono la Russia di Putin o l’India di Modi, l’America di Trump o l’Argentina di Milei, l’Ungheria di Orbán o la Turchia di Erdogan?
Allo stesso modo in Italia non è certo più tempo di camicie nere in marcia su Roma e di Mussolini con la gonna che commissionano l’attentato a Ranucci come il Duce ordinò alla banda Dumini l’assassinio di Matteotti. Questa rappresentazione macchiettistica fa comodo alle destre al comando, per replicare lo schema vittimistico-aggressivo con il quale sanno attaccare facendo finta di difendersi.
Il punto è un altro, e ancora una volta ci interroga tutti: la “qualità” della democrazia. La “lezione americana” è un modello di regressione civile che stiamo mutuando. Smottamenti graduali sul terreno della paura e del rancore, dell’indifferenza e dell’insofferenza verso l’altro. Costruzioni di nemici immaginari, da delegittimare e criminalizzare. Contaminazioni barbariche del linguaggio, avvelenato da quella tavola per antropofagi che è ormai diventata la rete.
Creato ad arte questo “contesto”, la soluzione è banale e brutale: serve il pugno di ferro, l’uomo o la donna forte che decidono qui e ora, insensibili ai controlli, ai riti polverosi della Repubblica e irresponsabili verso qualunque altro contro-potere.
Il tema cruciale, come ai tempi di Berlusconi, è il rispetto del patto che ci lega, cioè dei principi sui quali abbiamo costruito faticosamente la casa comune grazie alla Resistenza antifascista. La democrazia come riconoscimento del limite. Il costituzionalismo come equilibrio e bilanciamento tra i poteri, la triade libertà-uguaglianza-solidarietà (non Dio-patria-famiglia) su cui abbiamo sottoscritto il contratto sociale. In una parola, il liberalismo come valore condiviso.
È qui che bisogna aspettare Meloni, mettendo in fila tutto ciò che lei e il suo governo hanno detto e fatto da tre anni a questa parte. Giovanni Donzelli, Fratello d’Italia accorso insieme ad altri tre ex camerati a versare lacrime di coccodrillo sulla bomba a Sigfrido, ha detto che «questo governo è il miglior presidio della libertà in Italia». Purtroppo risulta il contrario.
Roma, 21 ottobre: una manifestazione per Sigfrido Ranucci
È illiberale il modo in cui la presidente del Consiglio insulta le opposizioni, irride le manifestazioni, sfugge alle domande dei giornalisti. È illiberale il decreto anti-rave, e ancora di più il
decreto sicurezza, che punisce con la galera quattordici nuove fattispecie di reato, sbattendo in cella studenti che occupano un ateneo o ragazzi che manifestano per strada. È illiberale la riforma dell’elezione diretta del premier, che assegna i pieni poteri al primo ministro, riducendo a Re Travicello il presidente della Repubblica e a collegio ancillare la Consulta.
È illiberale la riforma della giustizia, con una separazione delle carriere tra giudici e pm funzionale solo all’obiettivo di riportare la magistratura sotto il tallone della politica. È illiberale l’abolizione dell’abuso d’ufficio, che ridisegna l’ordinamento giudiziario a uso e consumo dei “colletti bianchi”. È illiberale il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, vera “legge-bavaglio” che limita il diritto di informare e di essere informati. È illiberale la gestione della Rai, che sfruttando la dissennata riforma Renzi trasforma il servizio pubblico in struttura servente dell’esecutivo. È illiberale l’ostracizzazione subita da Report e l’umiliazione inflitta a Ranucci, dalla Commissione di vigilanza e dal Garante della privacy.
È illiberale il conflitto di interessi, in capo a un sottosegretario alla Sanità che presiede la lobby delle farmacie e a un senatore che possiede tre gazzette di regime e un impero di cliniche private. È illiberale la flat tax per i lavoratori autonomi, che nega la redistribuzione del reddito a danno dei dipendenti. È illiberale il golden power, brandito come una clava nelle scalate bancarie a vantaggio dei capitalisti amici.
Mi fermo, per carità di patria. Alcuni di questi problemi il Paese se li porta dietro da anni. Il cavaliere di Arcore è stato il proto-populista che ha avviato il processo. Governi, anche di
centrosinistra, non lo hanno arginato: in qualche caso lo hanno persino assecondato. È ovvio che un’opposizione divisa e indecisa tra piazza e palazzo — come esigono i soliti intellettuali terzisti e moderati — debba chiedersi in che Italia pensa di abitare. Ma forse è ancora più urgente che la destra ci spieghi una volta per tutte in che Italia vuole farci vivere. Nei prossimi due anni, e forse anche oltre.
(da Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
IL TAGLIO IRPEF PREMIA CHI HA REDDITI TRA 50.000 E 200.000 EURO, GLI ALTRI PROVVEDIMENTI RIGUARDANO UNA PLATEA LIMITATA (E LO DICE IL GOVERNO)
Ci sono almeno 10 milioni di lavoratori italiani ai quali la manovra del governo Meloni non porterà
alcun aumento diretto in busta paga. Si tratta, per giunta, della maggior parte dei redditi medio-bassi del Paese, con guadagni sotto i 28 mila euro l’anno. Per molti altri, i vantaggi saranno di pochi euro al mese. La legge di Bilancio concentra le sue risorse nel taglio Irpef solo per chi ha almeno 28 mila euro di reddito, ma assegna il vantaggio pieno – 440 euro l’anno – solo a chi è sopra i 50 mila.
Prima di scappare dalla conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni aveva sì detto che “ci concentriamo sul
ceto medio”, ma anche aggiunto che si è cercato di intervenire “sul lavoro povero, cioè sui redditi più bassi, stimolando i rinnovi contrattuali per i redditi fino a 28 mila euro”. Messa così, sembra che gli aumenti siano per tutti, ma non è così. Finora abbiamo letto titoli su “chi ci guadagna”, ma non sull’ampia fetta di lavoratori che non vedranno nemmeno un centesimo di aumento e perderanno potere d’acquisto per l’inflazione: come detto, almeno dieci milioni di persone.
Guardiamo i numeri. I lavoratori dipendenti sotto i 28 mila euro di reddito sono tra i 15 e i 16 milioni. Questi sono del tutto esclusi dalla riforma Irpef, che porta al 33% l’aliquota per i redditi tra 28 mila e 50 mila euro. Come di consueto, i tagli Irpef danno vantaggi ai redditi più alti. Chi oggi dichiara circa 30 mila euro l’anno avrà un aumento di appena 3 euro al mese, sopra i 50 mila euro il ritorno in valore assoluto è molto più alto. Torniamo alle persone sotto i 28 mila euro, non coinvolte nel taglio Irpef. Per loro la manovra 2026 ha introdotto misure molto selettive, che ne “premieranno” una piccola parte, come ammesso dallo stesso governo nella relazione tecnica alla manovra.
La tassazione al 5% degli aumenti salariali dovuti al rinnovo dei contratti, come intuibile, si applica solo a quei lavoratori che hanno ottenuto il rinnovo del contratto collettivo nel 2025 o che lo otterranno nel 2026. Per loro l’aumento netto in busta paga sarà un po’ superiore a quello che avrebbero con l’attuale tassazione. A beneficiare dell’agevolazione, dice il governo, saranno solo 3,3 milioni di persone e il guadagno medio sarà di circa 146 euro l’anno. A una parte dei lavoratori coinvolti in aumenti contrattuali, infatti, l’aliquota al 5% non converrà,
perché hanno redditi talmente bassi che la loro Irpef netta è persino inferiore a quella percentuale. Ai ceti più deboli, in genere, le detassazioni portano molto poco in tasca.
L’altra misura per i redditi medio-bassi è l’imposta del 15% sul lavoro notturno o festivo. Un piccolo ritocco del guadagno netto sulle maggiorazioni per le notti o le domeniche. La relazione tecnica parla di 2,3 milioni di lavoratori coinvolti. Visto lo stanziamento, il guadagno medio sarà di 270 euro l’anno per lavoratore. Da questa misura sono esclusi gli addetti del turismo e della ristorazione, poiché per loro, dal 2023, esiste un bonus del 15% sugli straordinari. Per capire quanto poco abbia influito, la relazione tecnica ricorda che finora è costato 8,5 milioni l’anno.
Bisogna poi ricordare una caratteristica di queste misure di detassazione: il rischio è che, nel medio termine, non portino vantaggi ai lavoratori ma alle imprese. Queste, infatti, potranno offrire aumenti contrattuali o maggiorazioni lorde inferiori rispetto a quelle necessarie, poiché una parte dell’aumento netto è comunque garantito dallo Stato grazie agli sgravi fiscali. Infatti lo stesso governo spera che la detassazione degli aumenti salariali serva anche come leva per accelerare i rinnovi, dato che le imprese dovranno fare uno sforzo minore per garantire lo stesso netto in busta paga.
E ora facciamo i conti sui beneficiari di queste piccole misure. Ammesso, e certo non concesso, che i 3,3 milioni di lavoratori coinvolti dalla detassazione degli aumenti e i 2,3 milioni ai quali saranno detassati i festivi non siano platee sovrapposte, avremmo comunque almeno dieci milioni di lavoratori con redditi medio
bassi esclusi dai benefici diretti introdotti dalla manovra.
Ricapitolando: per effetto della legge di Bilancio, i redditi da 30 mila euro prenderanno una quarantina di euro in più all’anno; nelle buste paga dei dipendenti tra i 50 mila e i 200 mila euro, invece, andranno 440 euro annui. Zero aumenti, infine, per la gran parte dei redditi medio-bassi. Il governo ha motivato implicitamente la scelta: i redditi medio-bassi hanno avuto maggiori vantaggi nelle manovre degli anni scorsi, con la decontribuzione poi diventata taglio strutturale del cuneo fiscale. Quindi, per ragioni di marketing politico, serviva dare priorità al ceto medio, in cui l’esecutivo ha ricompreso anche i redditi da 200 mila euro, che difficilmente avranno grande utilità dal taglio Irpef, visto che inciderà assai poco sui loro guadagni. Si è comunque voluto dare un segnale… alla parte più benestante del Paese.
(da ilfattoquotidiano.it)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
“CON DE LUCA DOBBIAMO ESSERE I SAGGI CHE APRONO TERRE NUOVE ALLA POLITICA CAMPANA”
“Io nei Vaffa di Grillo ero quello messo in effigie, ma l’ho superato. Se ti fermi a contemplare il passato senza immaginare il futuro sei fregato sul piano politico». Clemente Mastella sceglie il centrosinistra alle regionali in Campania con Roberto Fico candidato presidente. L’ex Guardasigilli ora sindaco di Benevento presenta una sua lista — Noi di Centro, Noi Sud — dove candida al consiglio regionale il figlio Pellegrino.
Ma non aveva dubbi fino a ieri sulla scelta di Fico?
«Sono di scuola morotea, i processi politici si governano».
Sta con chi è dato in vantaggio, il centrosinistra?
«Non ho scelto perché si vince. Nessuno credeva che riuscissi a fare una lista, anche tra gli alleati. Poi mi hanno inseguito dal centrodestra. E io ho ragionato così: se mi inseguono, sono quello che fa vincere, allora resto dove sto. Sono il portafortuna. Ora tutti mi dicono: come fai a stare con Fico?».
Già, come fa?
«Ma se Forza Italia, Lega e gli altri l’hanno eletto col 70 per cento presidente della Camera. E poi scusatemi: il Pd si è alleato coi 5S, la Lega col Pd nel governo precedente. E sarei io il trasformista? È singolare. La verità è un’altra..»
La dica…
«I 5S sono diventati partito. Invece il centro non esiste. La sinistra senza il centro e senza l’evoluzione intelligente dei 5S non vincerà mai».
Però l’alleato Vincenzo De Luca continua ad attaccare Fico. Timori?
«Ho segnalato questo contrasto. Non ho scelto io Fico, ma il Pd. Ora tutti dobbiamo dare una mano. Io e De Luca siamo entrambi impegnati: lui col figlio Piero, diventato segretario del Pd campano, che stimo. E io con mio figlio che stimo».
Non si presta alle critiche la candidatura di suo figlio?
«Atteggiamento ipocrita, avete visto nelle liste quanti figli e mogli ci sono?»
Fico aveva annunciato candidature pulite, alla fine ha accettato anche indagati e imputati.
«Quando Rosy Bindi decretò mia moglie Sandra impresentabile, lei svenne. Poi la giustizia ci ha dato ragione. Certe bandiere però non valgono più. Dobbiamo scansare giudizi impropri sulle persone».
Anche Fico ha perdonato?
«Dei 5S il più democristiano che ho conosciuto è lui. Ma non lo dico per fargli perdere i connotati”
Il centrosinistra vincerà in Campania?
«Ci sto io, sì».
E De Luca?«Ma farà di tutto per evitare che Cirielli che è salernitano come lui diventi presidente».
E poi De Luca come si comporterà con Fico governatore?
«Fico dovrà rispettare De Luca, siamo una coalizione. Finirà una idea cesarista che imperversava in questi anni in Campania. Sarà una Regione meno accentratrice. Io e Luca dobbiamo essere i saggi che aprono cieli e terre nuovi alla dimensione politica campana».
(da repubblica.it)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
LA SEDUTA DELLA SEZIONE CENTRALE SI TERRA’ IL 29 OTTOBRE
Dopo che la Corte dei Conti ha chiesto chiarimenti al governo sulla delibera del Cipess relativa al
progetto definitivo del Ponte sullo Stretto, contestando problematiche sul piano procedurale, tecnico ed economico, l’esecutivo ha risposto lo scorso 13 ottobre con una corposa mole di documenti, su cui i magistrati contabili hanno continuato l’esame.
Ora però il dossier è passato nelle mani della Sezione Centrale di controllo della legittimità sugli atti del governo e delle amministrazioni della Corte dei Conti, che è l’organo collegiale che svolge il controllo preventivo. Nell’intestazione dell’atto con cui la Corte dei Conti ha inviato il fascicolo all’organo collegiale, si legge che ritenendo “non superati i dubbi di legittimità emersi a seguito dell’esame del provvedimento” viene avanzata “istanza di deferimento alla competente sede collegiale, della quale si condividono contenuti e conclusioni”.
Per il 29 ottobre alle 10 è stata calendarizzata l’adunanza della Sezione della Corte dei Conti sulla delibera del Cipess. La riunione di questo organo collegiale è di fatto l’esito delle procedure degli esami effettuati dall’Ufficio di controllo della stessa Sezione, che ha ritenuto di deferire la questione all’organo collegiale. Sarà dunque la Sezione Centrale di controllo di legittimità sugli atti del governo e delle amministrazioni dello Stato della Corte a pronunciarsi, il prossimo mercoledì 29 ottobre sulla delibera Cipess per il via libera definitivo all’opera.
Cosa ha detto al Corte dei Conti nella richiesta di deferimento
All’interno del documento della Corte dei conti, con cui si apre una richiesta di deferimento all’organo collegiale, si legge che “permangono dubbi” sui principi di derivazione eurounitaria “di concorrenza”, alla luce delle “significative modifiche intervenute nel progetto originario e alle nuove opere e varianti successivamente previste”. Criticità vengono sollevate anche rispetto “alle sostanziali modificazioni intervenute rispetto alle modalità di finanziamento dell’opera originariamente rimesso a capitale, anche privato, e attualmente a valere sulle finanze
pubbliche”. Nelle conclusioni si osserva dunque che “si prospetta l’opportunità di deferire alla competente sede collegiale la valutazione della delibera Cipess n. 41/2025 e della sua conformità al quadro normativo di riferimento oltre che ai principi eurounitari”.
Bonelli: “Atto gravissimo la richiesta della Corte dei Conti, Meloni fermi il progetto”
“La richiesta di deferimento della Corte dei Conti sulla delibera per il Ponte sullo Stretto è un fatto che il governo deve immediatamente chiarire. A questo punto non può essere più Salvini a farlo, ma la Presidente del Consiglio. Di fronte a una crisi economica e sociale e alla ristrettezza dei conti, Meloni ha deciso di seguire Salvini in questa follia economica, finanziaria e progettuale, oltre che dannosa dal punto di vista ambientale”, ha commentato in una nota Angelo Bonelli, deputato di Avs e co-portavoce di Europa Verde.
“La Corte dei Conti sta formulando rilievi su rilievi a un progetto che ha non solo un problema di copertura economica e finanziaria, ma che si basa su presupposti tecnici errati, come ad esempio i flussi di traffico che passerebbero da 3 milioni a oltre 13 milioni di veicoli l’anno: un caso assolutamente improponibile. Chiedo pertanto alla premier Meloni di fermare il progetto e di attendere le valutazioni dell’Unione europea circa la possibile violazione del diritto comunitario in materia di gare e di tutela ambientale, trattandosi di un’area sottoposta a vincoli”.
Per Bonelli, “di fronte a un quadro in cui il governo taglia il trasporto pubblico, taglia i fondi alle metropolitane, finanziare con 15 miliardi di euro un’opera che presenta criticitàgravissime, come quelle che la Corte dei Conti sta evidenziando, è un atto di irresponsabilità nei confronti del Paese. Giorgia Meloni fermi il progetto”.
La decisione dell’Ufficio della Corte dei conti “di chiedere il deferimento all’Organo collegiale della delibera Cipess 41/2025, con cui il governo ha approvato il progetto del Ponte sullo Stretto, conferma i punti da noi sollevati, anche alla commissione europea, relativi a chiare e gravi incongruenze procedurali rispetto alla normativa vigente”, ha dichiarato il segretario confederale della Cgil Pino Gesmundo, ribadendo che “il rispetto di leggi e procedure non è un elemento parziale, come lo stesso ministro Salvini ha più volte fatto intendere in questi giorni, ma e’ sostanziale per l’impiego di risorse pubbliche, come prescrive la Costituzione”.
“Invece di annunciare l’avvio imminente della sua realizzazione – ha detto ancora il dirigente sindacale – il governo dovrebbe ritirare il progetto approvato, sbagliato e dannoso per il Paese, e aprire un confronto vero su come costruire un efficiente sistema infrastrutturale in Calabria e Sicilia. Persistere su questa strada vuol dire esporsi a danni e sprechi cui i responsabili saranno chiamati a rispondere politicamente e, probabilmente, anche amministrativamente”.
In conclusione Gesmundo ha ricordato che “domani la Cgil manifesterà a Roma contro una manovra di tagli e sacrifici il cui importo è pressoché equivalente a quanto accantonato per il Ponte sullo Stretto. Considerando che il prossimo anno terminerà il PNRR, sarebbe molto più responsabile utilizzare queste risorse in modo certo per sostenere realmente le politiche infrastrutturali e industriali di cui il sistema Paese ha estremo bisogno”.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
“OGGI OGNI PRINCIPIO DELL’UE E’ SOTTO ATTACCO”
Le parole, con un pizzico di pessimismo, dell’ex premier italiano ed ex Presidente della Bce Mario Draghi al Premio Princesa de Asturias. «Immaginate nazioni con industrie della difesa avanzate che uniscono ricerca e sviluppo e finanziano appalti congiunti, una costruzione dal basso di uno scopo comune, non un’imposizione dall’alto»
«Oggi, la prospettiva per l’Europa è tra le più difficili che io ricordi. Quasi ogni principio su cui si fonda l’Unione è sotto attacco». Queste le parole dell’ex premier italiano ed ex Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi al Premio Princesa de Asturias per la Cooperazione internazionale in Spagna. nel suo discorso, rivolto anche ai reali spagnoli Draghi ringrazia con gratitudine per il premio conferito. E aggiunge: «Abbiamo costruito la nostra prosperità sull’apertura e sul multilateralismo: ora affrontiamo protezionismo e azioni unilaterali. Abbiamo creduto che la diplomazia potesse essere la base della nostra sicurezza: ora assistiamo al ritorno della potenza militare come strumento per affermare i propri interessi. Abbiamo promesso leadership nella responsabilità climatica: ora vediamo altri ritirarsi mentre noi sosteniamo costi crescenti. Il mondo intorno a noi è cambiato radicalmente e l’Europa fatica a rispondere».
«Perché non riusciamo a cambiare?»
«Questo solleva una domanda cruciale: perché non riusciamo a cambiare? Ci viene spesso detto che l’Europa si forgia nelle
crisi. Ma quanto grave deve diventare una crisi affinché i nostri leader uniscano le forze e trovino la volontà politica di agire?», si chiede l’ex numero uno della Bce.
«Dopo la grande crisi finanziaria e quella del debito sovrano, la BCE, anche grazie al suo mandato europeo, si è evoluta in un’istituzione più federale: è stata anche avviata l’unione bancaria. Ma da allora, le nostre sfide sono diventate sempre più complesse—e ora richiedono un’azione comune da parte degli Stati membri. Riguardano ambiti come la difesa, la sicurezza energetica e le tecnologie di frontiera che necessitano di scala continentale e investimenti condivisi», spiega. «E in alcuni di questi settori—soprattutto difesa e politica estera—è necessario un grado più profondo di legittimità democratica», sottolinea Draghi.
«La soluzione? Anche con più poteri all’Europa non abbiamo la legittimità democratica per farlo»
Non modificando la governance, ricostruisce l’ex premier, «oggi siamo una confederazione europea che semplicemente non riesce a far fronte a tali esigenze». La soluzione, per Draghi, sembra pressoché impossibile: «Questo lascia responsabilità a livello nazionale che non possono più essere gestite efficacemente. E anche se volessimo trasferire più poteri all’Europa, questo modello non ci offre la legittimità democratica per farlo. Non è solo una questione di vincoli giuridici dei Trattati UE. Il vincolo più profondo è che, di fronte a questo nuovo mondo, non abbiamo costruito un mandato condiviso—approvato dai cittadini—per ciò che, come europei, intendiamo davvero fare insieme».
Il federalismo? Impossibile, solo una via pragmatica
«Non in ossequio a un sogno ma per necessità, il futuro dell’Europa deve essere un percorso verso il federalismo. Ma, per quanto desiderabile sia una vera federazione, essa richiederebbe condizioni politiche che oggi non esistono. E le sfide che affrontiamo sono troppo urgenti per aspettare che emergano», spiega Draghi. L’unica luce è «un nuovo federalismo pragmatico» su temi specifici, «flessibile e capace di agire al di fuori dei meccanismi più lenti del processo decisionale dell’UE».
«Sarebbe costruito da “coalizioni di volenterosi” attorno a interessi strategici condivisi—riconoscendo che le diverse forze dell’Europa non richiedono che ogni paese si muova allo stesso ritmo», precisa Draghi.
La via del federalismo pragmatico
«Immaginate paesi con settori tecnologici forti – esorta Draghi – che concordano su un regime comune che consenta alle loro imprese di crescere rapidamente. Nazioni con industrie della difesa avanzate che uniscono ricerca e sviluppo e finanziano appalti congiunti. Leader industriali che co-investono in settori critici come i semiconduttori, o in infrastrutture di rete che riducono i costi energetici. Questo federalismo pragmatico permetterebbe a chi ha maggiore ambizione di agire con la velocità, la scala e l’intensità delle altre potenze globali. E, fatto altrettanto importante, potrebbe contribuire a rinnovare lo slancio democratico dell’Europa stessa. Perché aderire richiederebbe ai governi nazionali di ottenere il sostegno democratico per obiettivi condivisi specifici, diventando così una
costruzione dal basso di uno scopo comune—non un’imposizione dall’alto». «Tutti coloro che vogliono unirsi potrebbero farlo—mentre chi cerca di bloccare i progressi non potrebbe più trattenere gli altri. In breve, offre una visione piena di fiducia dell’Europa—e una in cui i cittadini possono credere. Un’Europa in cui i giovani vedono il loro futuro. Un’Europa che rifiuta di essere calpestata. Un’Europa che agisce non per paura del declino, ma per orgoglio di ciò che può ancora realizzare. Dobbiamo offrire questa visione se vogliamo che l’Europa si rinnovi. E sono fiducioso che possiamo farlo», ha concluso l’ex premier.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
E ALLA CASA BIANCA? NON SI È ANCORA ARRIVATI A TANTO, MA TRUMP SI È GIÀ SCAGLIATO CONTRO LA STAMPA, BOLLANDOLA COME “DISONESTA”
I principali media tradizionali americani avevano un reporter fisso all’interno del Pentagono ma
sono andati via, con gli scatoloni, il 15 ottobre: tra gli altri Nbc , Abc , Cnn , Npr , Ap , Washington Post , New York Times , ma anche media conservatori come Fox News dove lavorava in passato l’attuale capo del Pentagono Pete Hegseth, Newsmax , Washington Times , Washington Examiner , Daily Caller .
Hanno rifiutato di firmare le nuove linee guida del dipartimento della Guerra.
«Saranno loro a perderci», hanno replicato i portavoce del Pentagono, annunciando una «nuova generazione» di 60 reporter che si uniranno ai 26 rimasti da prima tra cui Oan ( One America News ), Federalist , Epoch Times . I nuovi arrivati appartengono soprattutto ai «new media» e includono The Gateway Pundit che patteggiò dopo essere stato denunciato per diffamazione da funzionari elettorali in Georgia per aver scritto che le elezioni del 2020 erano state «rubate»; il blog Human Events del podcaster di estrema destra Jack Posobiec, invitato da Hegseth nel suo viaggio in Europa (rifiutò) ma presente al summit in Alaska; il popolare podcaster e Youtuber Tim Pool, ceo di Timcast che in passato ha lavorato per Tenet Media (accusata dal dipartimento di Giustizia di Biden di essere sostenuta da RT , rete finanziata dal governo russo); Frontlines , braccio mediatico dell’organizzazione Turning Point Usa creata dell’attivista di destra assassinato a settembre Charlie Kirk; la newsletter su Substack Washington reporter ; LindellTV , creata dal ceo di «MyPillow» Mike Lindell, che faceva la pubblicità ai suoi cuscini su Fox News prima di unirsi ai media politici; il National Pulse che sulla pagina che descrive i suoi contenuti include una foto di Trump.
Ma anche i media conservatori si sono spaccati sulle linee guida del Pentagono. La tv Oan le ha accettate ma ha licenziato già a giugno l’allora corrispondente dal Pentagono, Gabrielle Cuccia: si definiva una «Maga Girl» (ragazza Make America Great Again) ma aveva criticato le restrizioni di Hegseth sulla stampa.
Le linee guida richiedono di indossare sempre i badge, di essere scortati dal personale se si va in certi uffici o aree del Pentagono per interviste autorizzate, mentre prima i reporter potevano
muoversi più liberamente.
Il Pentagono sta cercando di evitare i «leak», le rivelazioni sulla stampa imponendo ai funzionari di chiedere approvazione per parlare anche di contenuti non classificati non solo alla stampa ma anche al Congresso. Ai giornalisti non viene proibito di chiedere informazioni classificate ma si avverte che possono esserci «conseguenze» per le fonti e che esiste una «distinzione critica tra chiedere informazioni legalmente o attivamente incoraggiare i funzionari governativi a infrangere la legge… diffondendo informazioni confidenziali»; potrebbero essere considerati un «rischio alla sicurezza».
Alla Casa Bianca non è richiesto ai giornalisti di firmare un simile documento, ma Trump ha appoggiato il capo del Pentagono: «La stampa è molto disonesta».
Ha ordinato la chiusura di Voice of America , la radiotv del governo federale in 49 lingue.
L’associazione (indipendente) dei Corrispondenti della Casa Bianca mantiene il controllo di chi siede nella briefing room: in prima e seconda fila ci sono i principali media tradizionali, ma si sono moltiplicati i giornalisti in piedi, che includono media pro-Trump come Oan , Daily Signal , LindellTV , The Daily Wire , Turning Point Usa , Real America’s Voice (il cui corrispondente criticò l’abbigliamento di Zelensky).
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Ottobre 25th, 2025 Riccardo Fucile
IL QUESITO POSTO ALLA CONSULTA RIGUARDA LA PRESUNTA “MINORATA DIFESA” DEGLI 007 EGIZIANI IMPUTATI, PER LA MANCATA NOMINA DI UN PERITO – DOPO I DEPISTAGGI E LA RESISTENZA DEL GOVERNO EGIZIANO, ORA QUESTIONI TECNICHE FERMANO IL DIBATTIMENTO, PER CHISSÀ QUANTO TEMPO
Giunto a pochi passi dal traguardo, il processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni si blocca e approda — per la seconda volta — alla Corte costituzionale.
Ora il quesito posto alla Consulta riguarda la presunta «minorata difesa» degli imputati egiziani, assistiti da avvocati d’ufficio ma non ammessi al «gratuito patrocinio» perché non essendosi mai presentati non hanno dimostrato di averne titolo; di fronte a una perizia disposta dai giudici avrebbero diritto a nominare un consulente di parte, che però i loro legali dovrebbero pagare di tasca propria in assenza dei rimborsi statali previsti per la difesa delle persone non abbienti.
È compatibile questa situazione con i principi del «giusto processo» fissati dalla Costituzione? Questione squisitamente tecnica ma rilevante secondo la Corte d’assise, e in attesa di una risposta non si può andare avanti.
Dopo 28 udienze, l’ascolto di 38 testimoni e l’acquisizione di 28 verbali, mancava solo la perizia per la esatta traduzione dall’arabo della deposizione di un teste che (come altri residenti in Egitto) non è venuto in aula perché il governo del suo Paese si è rifiutato di notificargli la citazione.
Ora invece il dibattimento si ferma, per chissà quanto tempo: qualche mese nella migliore delle ipotesi, ma quasi certamente si andrà oltre il decimo anniversario della scomparsa del ricercatore friulano rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere sul ciglio di una strada, con evidenti segni di tortura sul corpo, il successivo 3 marzo.
Il nuovo stop ruota intorno alla testimonianza di Mohamed Abdallah Said, il sindacalista degli ambulanti cairoti che aveva filmato un incontro con Giulio su disposizione dei militari egiziani oggi accusati per il suo sequestro (e uno per l’omicidio). Tra le diverse traduzioni del verbale raccolto in Egitto sono state rilevate alcune discrepanze, e così la Corte ha deciso di ordinare una perizia per la versione definitiva.
A questo punto gli avvocati dei quattro imputati hanno fatto presente la difficoltà a nominare il proprio traduttore di fiducia,
che dovrebbero scegliere a proprie spese senza il «gratuito patrocinio»; ma quella possibilità è preclusa dall’assenza degli imputati. Di qui la denuncia di una «minorata difesa», condivisa ieri dalla Corte che l’ha recapitata alla Corte costituzionale.
Il colonnello egiziano Uhsam Helmi
Il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco aveva sostenuto che l’eccezione di costituzionalità proposta dagli avvocati andava superata attraverso una «interpretazione costituzionalmente orientata» dell’articolo del codice di procedura penale che regola l’accesso alla difesa garantita dallo Stato per gli imputati senza sufficienti risorse economiche.
E per sostenere questa tesi s’era appellato alla precedente sentenza della Corte costituzionale (sollecitata in quel caso dal procuratore Francesco Lo Voi) che due anni fa rese possibile la celebrazione di un processo per reati gravi assimilabili alla tortura pur in assenza degli imputati, e senza la prova che fossero a conoscenza del processo a loro carico.
I giudici della Consulta stabilirono, in quell’occasione, che i quattro militari sotto accusa erano a conoscenza dell’indagine a loro carico ma non della richiesta di rinvio a giudizio, poiché le autorità egiziane non avevano dato seguito alle notifiche per rogatoria: una situazione incostituzionale, secondo la Corte, perché non si può consentire che l’ostruzionismo di uno Stato aderente alla Convenzione internazionale contro la tortura impedisca di giudicare propri cittadini accusati di quel reato.
Quindi via libera al processo con gli imputati assenti e difesi da avvocati d’ufficio, ferme restando tutte le garanzie del «giusto processo» e il diritto, se e quando decidessero di presentarsi, a chiedere di rifare il processo con la propria partecipazione.
Dentro questa cornice, secondo la Procura, si poteva concedere il «gratuito patrocino» agli imputati, e quindi la nomina di un consulente di fiducia per la perizia, ma lo Corte d’assise ha ritenuto di no: dunque stop al processo e parola nuovamente alla Consulta.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »