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FDI VUOLE SFRATTI PIU’ VELOCI PER CHI NON PAGA L’AFFITTO PER DUE MESI, COSI’ LE VECCHIETTE PENSIONATE FINISCONO SOTTO UN PONTE, E’ LA CARITA’ CRISTIANA SOVRANISTA

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

SE NON RISTRUTTURI O COSTRUISCI CASE POPOLARI CHE ALTERNATIVA POSSONO AVERE I POVERI?… INTERVISTA AL SEGRETARIO DELL’UNIONE INQUILINI: “PURA PROPAGANDA, LE FORZE DELL’ORDINE POSSONO ESEGUIRE SOLO 100 SFRATTI AL GIORNO E LA PROPOSTA E’ INCOSTITUZIONALE”

La proposta di FdI allarma sindacati e opposizioni. Nelle prossime settimane il contro-tavolo con opposizioni e sindacati per parlare di Piano casa
Sfratti più veloci sì? «Pura propaganda». A parlarne con Open è Silvia Paoluzzi, segretaria dell’Unione Inquilini, che commenta la legge depositata in questi giorni al Senato a prima firma di Paolo Marcheschi di Fratelli d’Italia. La proposta punta a velocizzare gli sfratti per chi non paga l’affitto da almeno due mesi, affidando il compito a un’Autorità ad hoc, un ente pubblico amministrativo e non a un giudice, per liberare più rapidamente le abitazioni.
Una mossa che ha fatto saltare dalle sedie opposizioni e sindacati, anche perché arriva in un momento in cui la crisi abitativa è diventata un’emergenza: gli affitti continuano a salire e trovare una casa è sempre più difficile. E tutto questo avviene proprio durante i lavori sulla Legge di Bilancio, senza alcuna
misura concreta per la casa, mentre quel “piano casa” annunciato da Giorgia Meloni e Matteo Salvini in estate è sparito dalle pagine del testo. Ne abbiamo parlato con Paoluzzi.
In pochi mesi, lo sfratto: una misura efficiente o spietata?
«Spietata. Intanto, è pura propaganda. I dati sugli sfratti ci dicono che le sentenze aumentano, ma gli sfratti restano stabili. Perché? Perché i giudici emettono le sentenze, ma a eseguirle devono essere le forze dell’ordine. E nel nostro Paese ci sono già cento sfratti al giorno: con la carenza cronica di personale, è impossibile fare di più. Come possono le forze dell’ordine, che denunciano continuamente la mancanza di uomini e mezzi, gestire ancora più esecuzioni?»
Dicono che la misura renderà i contenziosi civili più rapidi, così da liberare prima le case e rimetterle sul mercato.
«Ma anche questo è fuorviante: i tempi si sono già notevolmente ridotti negli ultimi anni. Nella maggior parte dei casi, lo sfratto avviene entro un anno, massimo un anno e mezzo. Se passasse questa proposta di legge, i tempi delle sentenze potrebbero sì accorciarsi, ma alla fine si ricadrebbe comunque sulle forze dell’ordine: come nel gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza.BInoltre, la pdl è incostituzionale, perché affida gli sfratti a un’autorità amministrativa, mentre il diritto amministrativo si occupa solo di interessi pubblici. Si tratterebbe quindi di una palese violazione di giurisdizione».
E poi? Dove finiscono le persone sfrattate?
«Le amministrazioni dovrebbero garantire un passaggio da casa a casa, ma troppo spesso non accade. Molti finiscono in cooperative sociali o dormitori, ormai saturi, oppure in case-famiglia, nel caso di nuclei con minori. Così mamma e bambino trovano un posto, mentre il padre dorme per strada».
Qual è l’identikit della persona sfrattata in Italia?
«Prendo alcuni esempi reali: la signora anziana che, per un periodo, non è riuscita a pagare l’affitto perché vive solo con la pensione. C’è la ragazza precaria, che lavora per obiettivi e ha subito mobbing sul lavoro, rimanendo per mesi senza stipendio e quindi impossibilitata a coprire l’affitto e alcune spese condominiali. E poi c’è una famiglia con un bambino in sedia a rotelle, il cui padre ha perso il lavoro per un periodo. Insomma, le storie sono diverse, ma raccontano tutte la stessa realtà: questa situazione colpisce persone di ogni età e condizione».
E sul territorio, quali città registrano il maggior numero di sfratti?
«Palermo al primo posto, seguito da Roma e Milano».
Però la proposta di Fratelli d’Italia prevede un Fondo nazionale per l’emergenza abitativa.
«Questi fondi li abbiamo sempre criticati: possono dare un aiuto, ma non risolvono il problema. Arrivano troppo tardi e non sostengono davvero le famiglie, perché non sono soluzioni
strutturali. In questo Paese, il patrimonio pubblico è stato svenduto e continua a esserlo. Oggi ci sono 650mila persone in graduatoria con diritto a una casa popolare, mentre 90mila unità restano inutilizzate per mancanza di manutenzione. E non abbiamo nemmeno un quadro completo di tutte le abitazioni disponibili. Allora perché non investire su questo patrimonio, così da alleggerire il carico sui comuni e dare una risposta concreta a chi ne ha bisogno?»
Questa pdl arriva in pieni lavori sulla Legge di bilancio. Si sta parlando tanto di “Piano casa”.
«Un “piano casa” che di fatto non esiste e una Legge di bilancio in cui non si parla di casa. Nel frattempo, destra e sinistra continuano a proporre il social housing, che si rivela più una speculazione che una soluzione concreta, mentre il Paese si impoverisce sempre di più. Oggi, metà delle famiglie che vivono in povertà assoluta sono in affitto: circa 1 milione e 49mila nuclei. E il numero continua a crescere, a causa dei tagli drastici al welfare abitativo».
Cosa fare per cambiare davvero le cose?
«Oltre alla manutenzione di quelle 90mila case popolari, bisognerebbe investire nella riconversione di tutti i manufatti abbandonati in alloggi pubblici, offrendo alle famiglie la possibilità di vivere con dignità».
Avete parlato con il governo?
«Ora si stanno svolgendo le audizioni sulla legge di bilancio, ma noi non siamo mai stati interpellati, nonostante ne avessimo fatto richiesta. Salvini, durante i lavori per il piano casa, non ha interpellato alcun sindacato, ha coinvolto solo costruttori e gruppi immobiliari».
E con l’opposizione?
«La settimana scorsa si è tenuta una conferenza stampa in cui è stato annunciato un contro-piano a firma di Furfaro, Grimaldi e Santillo, con la convocazione di un tavolo alternativo a quello di Salvini. L’obiettivo è coinvolgere tutte le parti sociali, incluso il ministero, per discutere in maniera seria – e per la prima volta davvero – della crisi abitativa. La data dell’incontro verrà definita nelle prossime settimane».
(da Open)

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PER LA PRIMA VOLTA, MENO DEL 50% DEGLI ELETTORI AMERICANI HA UN’OPINIONE POSITIVA DEL CAPITALISMO: SOLO IL 44% LO RITIENE UN MODELLO APPREZZABILE

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

IL 49% CONTINUA A VEDERE NEGATIVAMENTE LA DOTTRINA MARXISTA, E SOLO IL 18% LA CONSIDERA POSITIVAMENTE

La quota di elettori registrati che ha un’opinione positiva del capitalismo è scesa sotto il 50% per la prima volta in sette anni di sondaggi NBC News sull’argomento — un cambiamento che arriva mentre alcuni socialisti democratici, come il candidato sindaco di New York Zohran Mamdani, guadagnano visibilità all’interno del Partito Democratico.
Nel complesso, il 44% degli elettori registrati afferma di avere un’opinione positiva del capitalismo, mentre il 28% ne ha una negativa. Si tratta di un calo rispetto ai precedenti sondaggi, che mostravano piccole maggioranze favorevoli al sistema economico.
Le differenze di opinione seguono forti linee di partito. Due terzi dei repubblicani vedono positivamente il capitalismo, contro il 44% degli indipendenti e appena il 25% dei democratici. Solo il
12% dei repubblicani ha un’opinione negativa, contro il 28% degli indipendenti e il 45% dei democratici.
Particolarmente significativo è il cambiamento tra i democratici: nel settembre 2024, il 39% lo vedeva positivamente e il 34% negativamente (un saldo positivo di 5 punti), mentre oggi il partito registra un saldo negativo di 20 punti, con molti più democratici che lo guardano sfavorevolmente.
Anche gli elettori sotto i 35 anni hanno virato nettamente verso giudizi più critici sul capitalismo nell’ultimo anno, così come gli elettori ispanici, oggi sostanzialmente divisi sul sistema economico.
Intanto, le opinioni sul socialismo sono rimaste più stabili: il 49% degli elettori lo vede negativamente, un leggero calo rispetto ai precedenti sondaggi (tra il 50% e il 55%), mentre il 18% lo considera positivamente, in linea con i dati raccolti dal 2018.
Dietro le cifre, le tendenze rispecchiano il movimento osservato sul capitalismo, ma in senso opposto. A settembre scorso, il 34% dei democratici vedeva positivamente il socialismo e il 29% negativamente; ora il 35% lo valuta positivamente e solo il 20% negativamente.
Gli elettori ispanici, pur diventati più scettici sul capitalismo, non hanno cambiato in modo analogo la loro opinione sul socialismo: nel 2024 lo vedevano negativamente con un margine
di 29 punti, oggi di 24.
Le percezioni su capitalismo e socialismo, soprattutto tra i democratici, stanno cambiando mentre Mamdani e altri socialisti democratici dichiarati — come il senatore Bernie Sanders e la deputata Alexandria Ocasio-Cortez — guadagnano peso politico nel partito, mobilitando una base sempre più attiva e visibile.
Mamdani, cresciuto politicamente come socialista democratico e tuttora legato a quell’identità, potrebbe essere vicino a conquistare la carica più importante mai raggiunta da un esponente di questo movimento.
Sebbene Mamdani concorra per una carica municipale, la notorietà della campagna nella città più grande d’America fa sì che circa due terzi degli elettori registrati a livello nazionale dichiarino di sapere abbastanza su di lui da esprimere un giudizio.
Nel complesso, il 22% degli elettori ha un’opinione positiva di Mamdani, il 32% negativa e il 14% neutra, mentre un altro 32% afferma di non conoscerlo abbastanza per valutarlo.
Quasi tutti i repubblicani che lo conoscono lo giudicano negativamente, mentre tra i democratici il 44% ha un’opinione positiva e il 10% negativa; tra gli indipendenti, il 16% lo vede positivamente e il 25% negativamente.
(da agenzie)

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IL POTERE: TRAFIGGE TUTTI. SOPRATTUTTO I PARVENU. E COSÌ, DA PALAZZO GRAZIOLI SIAMO PASSATI ALLA NUOVA DOVIZIOSA DIMORA DELL’EX ABITANTE DELLA GARBATELLA

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

UN IMMOBILE CHE STA SOLLEVANDO UN POLVERONE DI POLEMICHE: VILLA O VILLINO? COL SOLITO AGOSTINO GHIGLIA CHE AVREBBE SOLLECITATO GLI UFFICI DELLA PRIVACY DI TROVARE UN MODO PER LIMITARE LE INFORMAZIONI DA RENDERE PUBBLICHE ALLA CAMERA, IN RISPOSTA A UN’INTERROGAZIONE DELLA BOSCHI SULLA RISTRUTTURAZIONE DELLA VILLA

Ah, che stregoneria è il potere: trafigge tutti. Soprattutto i parvenu. E così siamo passati da Palazzo Grazioli, che si trasformò in sede informale di governo e di Bunga Bunga di Berlusconi premier, a “Villa Grazioli” con la nuova dimora di
Giorgia Meloni.
Prima di varcarne la soglia in compagnia della figlia Ginevra, la Presidente del Consiglio abitava l’appartamento di Giovanni Satta, Senatore di Fratelli d’Italia (ovviamente, in comodato d’uso gratuito). Poi, si è trasferita nella villa subito dopo la fine dei lavori di restyling.
Locata nella zona residenziale del Torrino, una località nella zona sud di Roma all’altezza del Grande Raccordo Anulare tra Via Cristofero Colombo e la Via Pontina, caratterizzata dalla presenza di oltre 40 mila abitanti, l’abitazione sta sollevando un polverone di polemiche, a partire dai dubbi del “Domani”: villa o villino?
Secondo alcuni esperti catastali, contattati dal quotidiano diretto da Fittipaldi, l’immobile rientra pienamente tra le abitazioni di lusso e, di conseguenza, non dovrebbe godere di agevolazioni fiscali. Invece, “così ha risparmiato 70mila euro di tasse”.
Ma già all’inizio del 2025, ci aveva pensato “Il Fatto quotidiano” a ficcare il nasino sulla magione di 18 stanze, compresi due soggiorni di ampio respiro, una cucina grande e una superaccessoriata cabina armadio nella camera padronale, più una piscina di 9 metri (direbbe “Io so’ Giorgia”: “’na bagnarola”), scoprendo che era costata la sommetta di 1.2 milioni di euro.
Aggiunge il giornale diretto da Travaglio, la premier alla Fiamma aveva già sottoscritto un preliminare d’acquisto nel 2023. Inoltre, al di là della doviziosa cifra, pare che l’ex Underdog della Garbatella l’abbia acquistata senza fare un mutuo.
Mica è finita: un’altra questione delicata sembra profilarsi all’orizzonte che vede coinvolto il solito e premuroso Garante per la Privacy in quota Fratelli d’Italia.
Nella puntata andata in onda ieri sera, “Report” infila il dito nella piaga in merito all’approfondimento chiesto il 28 febbraio scorso da Agostino Ghiglia sull’interrogazione del gennaio 2025 di Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi di Italia Viva che domandava se fossero state utilizzate risorse pubbliche, fondi per la sicurezza o benefici fiscali nel ristrutturare la casa. Ma anche di conoscere quali imprese avessero eseguito i lavori e come fossero stati effettuati i pagamenti.
Secondo Sigfrido Ranucci, Ghiglia avrebbe sollecitato i suoi uffici a trovare un modo per limitare la quantità di informazioni da rendere pubbliche alla Camera.
“Cercatemi l’interrogazione onorevole Bonifazi su casa Meloni. Approfondiamo se è suo diritto avere risposta a tutte le domande in dettaglio o se qualcosa si può coprire in termini di protezione dati, al netto della trasparenza e dell’interesse pubblico. Urgente”.
“Pare che la richiesta di Ghiglia sia partita da lui”, aggiunge “Il
Fatto”. “Il sospetto è che abbia agito per proteggere Meloni sul piano politico, evitando che venissero divulgate informazioni che dovrebbero invece essere trasparenti, soprattutto quando riguardano una figura istituzionale e lavori potenzialmente rilevanti per i cittadini”.
‘’Il governo ha risposto il 18 marzo tramite il ministro Luca Ciriani, anche lui di Fratelli d’Italia, assicurando che non sono stati utilizzati fondi pubblici, ma senza specificare informazioni sulle spese sostenute e sui fornitori utilizzati. Una circostanza che ha spinto Italia Viva a manifestare la propria insoddisfazione riguardo alla risposta seguita all’interrogazione parlamentare. In pratica, la sensazione è che il governo avesse qualcosa da nascondere’’.
Interessante anche da chi la Statista della Sgarbatella che dal tu a Trump ha comprato nel 2024 l’immobile: Massimiliano e Serafino Scarozza, figli di Giancarlo Scarozza, marito in seconde nozze di Lucia Mokbel, sorella di Gennaro Mokbel, ex esponente dell’estrema destra romana.
Senza padri né mariti, oltre ad intrattenere l’amatissimo matriarcato familiare formato dalla madre Anna e dalla sorella Arianna, avendo tanto spazio a disposizione, l’ex compagna di Giambruno ha pensato bene di trasformarlo nel proprio bunker personale, lontano dagli sguardi e orecchie indiscrete che infestano Palazzo Chigi.
Del resto, che sia sempre stata arcigna e guardinga verso la presenza dei funzionari e degli addetti alla sicurezza della sede di governo, insieme al terrore della ricattabilità e di essere osservata fin dentro il portone di casa, è emerso in più occasioni.
Nella conferenza stampa di inizio 2024, la premier evocò addirittura un complotto ai suoi danni, ordito “da chi in questa nazione ha pensato di dare le carte”, “affaristi, lobbisti e compagnia cantante”.
Era il settembre del 2024 quando Ilario Lombardo sulla “Stampa” portò alla ribalta la sindrome di accerchiamento di “Io so’ Giorgia e nun me fido de nessuno!”. Per paura di essere “attenzionata”, la Ducetta avrebbe fatto allontanare i poliziotti in borghese che piantonavano il suo ufficio a Palazzo Chigi e fanno “da filtro” agli ospiti. Un fatto che mai era successo prima nella storia della Repubblica, cui seguì una smentita dello staff di Palazzo Chigi.
Così, quando scocca l’ora fatale delle nomine, delle strategie di governo, delle fortune di un ministro e le disgrazie di un altro, l’ascensione di questo parlamentare e la caduta di quello, oppure per dar sfogo a chissà quali manovre e intrighi ai suoi danni, villa Meloni del diventa il cuore del potere esecutivo.E soprattutto nei giorni festivi, quando gli inquilini di Palazzo Chigi si godono il loro meritato riposo, l’abitazione del Torrino è meta di molti personaggi del partito ed esponenti del governo.
Immancabili, fanno il loro ingresso Patrizia Scurti, capa della segreteria particolare della presidente, che da quasi vent’anni è la sua ombra e il suo sostegno, nonché moglie di Pino Napoli, l’agente distaccato dell’Aisi che le fa da caposcorta (è stato lui a selezionare personalmente il resto degli uomini al seguito).
A seguire ovviamente – fiato alle trombette! – è il “Genio della Fiamma” (copy Meloni), il sottosegretario che presiede ogni piega della politica e del potere, Giovambattista Fazzolari da Messina, che per cinque anni è stato dirigente di seconda fascia dell’Aeroporti e Infrastrutture strategiche della Regione Lazio, e oggi vive davanti alle onde del mare di Fregene, frazione di Fiumicino.
A volte l’ospitalità si allarga al pio sottosegretario con delega ai servizi segreti, Alfredo Mantovano, e a pochi altri ministri fedelissimi. D’altronde, putacaso fosse possibile per Lady Giorgia mettere le manine per un rimpasto di governo, sarebbero ben pochi i ministri ad essere riconfermati: dalla Pitonessa porta-guai Daniela Santanchè ad Adolfo Urso che, come ministro del Made in Italy e dello Sviluppo non ha risolto un problema industriale, dall’Ilva a Pirelli.
(I soliti maligni raccontano che se Urso fosse stato informato in tempo che la Melona dava buca alla Messa (Paolo) cantata del Niaf a Washington, causa assenza del suo caro amico Donald, si sarebbe scapicollato per timbrare il cartellino e attovagliarsi con
l’allegra brigata di 2128 ospiti, gran parte dei quali in viaggio a scrocco).
Tornando a bomba. Tutto gira bene quando vengono chiamati a rapporto i suoi fedelissimi, che per lei si getterebbero nel fuoco, molto meno bene quando tocca agli altri, agli “estranei” della conventicola meloniana, di essere pregati di raggiungere il ridente Torrino per una riunione della agitata maggioranza di governo.
E allora che arrivano le sbuffate (eufemismo), accompagnate da occhi al cielo e scuotimenti di testa, di Matteo Salvini e Antonio Tajani, tanto per citar due a caso.
Il solito destino cinico e baro vuole infatti che dal centro di Roma per raggiungere la villa di Giorgia al Torrino ci vogliono, in linea d’aria, ben 40 minuti di macchina, ma occorre poi vedersela con l’estenuante traffico romano.
Anche dotati di sirene e lampeggianti è “un viaggio” che ha fatto scaturire la battutaccia che ha ribattezzato la dimora dell’ex abitante del quartiere Garbatella, dove occupava con la madre e la sorella due disgraziate camere e cucina, in gloria degli antichi fasti berlusconiani, in “Villa Grazioli”…
(da Dagoreport)

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SOLDI PUBBLICI, SCOPI PRIVATI : IL DIRETTORE TRUMPIANO DELL’FBI KASH PATEL HA UTILIZZATO UN JET DEL GOVERNO PER ANDARE A SENTIRE LA PROPRIA RAGAZZA, ALEXIS WILKINS, CANTARE L’INNO NAZIONALE PRIMA DI UN INCONTRO DI WRESTLING ALLO “STATE COLLEGE”, IN PENNSYLVANIA

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

INVECE DI SCUSARSI, L’ARROGANTE PATEL HA SILURATO UN IMPORTANTE DIRIGENTE DELL’FBI (STEVEN PALMER) ACCUSATO DI AVER RIVELATO LA NOTIZIA AI GIORNALI

Un alto dirigente dell’Fbi con 27 anni di servizio sarebbe stato licenziato dall’agenzia dopo che il suo direttore, Kash Patel, si sarebbe infuriato per articoli di stampa che rivelavano come avesse usato un jet governativo per recarsi a vedere la sua fidanzata cantare l’inno nazionale durante un incontro di wrestling allo State College in Pennsylvania. Lo scrive il Guardian.
Steven Palmer, che lavorava per il Bureau dal 1998, è stato rimosso dal suo incarico di capo del Critical Incident Response Group dell’agenzia, l’unità responsabile della gestione delle
principali minacce alla sicurezza e della supervisione della flotta di aerei dell’Fbi. È il terzo capo dell’unità ad essere licenziato da quando Patel è diventato direttore dell’agenzia di intelligence interna sotto la seconda amministrazione Trump, lo scorso febbraio.
Bloomberg Law, che ha diffuso la notizia, ha riferito che tre fonti anonime hanno espresso stupore per il licenziamento, considerando che gli orari di volo di Patel erano pubblici e tracciabili online. Il giorno dopo l’esibizione della fidanzata, Patel stesso aveva condiviso sul suo account X alcunee foto che lo ritraevano insieme a lei, la cantante country Alexis Wilkins. Secondo Bloomberg, Patel si sarebbe infuriato per gli articoli pubblicati dopo l’evento che riportavano il suo utilizzo del jet dell’Fbi per accompagnare Wilkins.
Poco dopo, Palmer sarebbe stato informato di poter scegliere se dimettersi immediatamente o essere licenziato. I registri di volo pubblici del jet di Patel, N708JH, consultabili su Flight Aware, mostrano che l’aereo è atterrato in un aeroporto vicino alla Penn State il 25 ottobre. Quella sera Wilkins si è esibita in un evento di wrestling Real American Freestyle, e i registri di volo indicano che successivamente lo stesso jet è volato a Nashville. Da domenica, i dati di volo del jet N708JH sono stati oscurati su Flight Aware.
Come ha sottolineato il Daily Beast, Patel era stato fortemente
critico nei confronti dell’uso dei jet governativi da parte del suo predecessore Christopher Wray per viaggi personali, quando quest’ultimo era direttore dell’Fbi. Nel 2023, Patel aveva definito sarcasticamente Wray “GovernmentGangster” (“gangster del governo”) e lo aveva accusato di “volare a spese dei contribuenti mentre evitava di assumersi la responsabilità per il collasso dell’Fbi sotto la sua guida”.
(da agenzie)

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LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA SPACCA A METÀ GLI ITALIANI: SECONDO UN SONDAGGIO DEMOS, IL “SÌ” ALLA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI È AL MOMENTO AL 51%

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

ILVO DIAMANTI: “È UNA MAGGIORANZA LIMITATA E RELATIVA. L’ESITO APPARE ANCORA PIÙ INCERTO. NON SOLO PER RAGIONI DI CONSENSO, MA DI COMPRENSIONE. PERCHÉ SI TRATTA DI UNA MATERIA COMPLESSA”

La riforma della giustizia è un tema di grande rilievo politico. Perché il potere giudiziario è centrale, nelle democrazie. In Italia più che altrove, visto che il ruolo dei magistrati ha segnato un cambio d’epoca, per la nostra democrazia.
Il governo dispone di una maggioranza ampia. Intorno alla leader — e premier — Giorgia Meloni. E per questo indisponibile a subire la pressione esercitata dai magistrati, che — secondo lo stesso governo — ne frenano l’azione e ne mettono a rischio la durata. Per questo motivo, come è divenuto evidente dopo l’intervento della Corte dei conti, che ha fermato il
progetto del ponte sullo Stretto di Messina, bandiera della Lega di Matteo Salvini, i magistrati sono ri-divenuti il principale avversario del governo. La vera opposizione. Da affrontare senza esitazioni.
Un obiettivo perseguito attraverso la riforma della separazione delle carriere dei magistrati, che prevede per giudici e magistrati percorsi distinti e “separati”, senza possibilità di passaggio dall’una all’altra carica.
Il recente sondaggio condotto da Demos conferma come il tema costituisca una questione importante e, al tempo stesso, controversa. Perché “divide” gli italiani in modo evidente. In due “parti”, per non dire… “partiti”. Distinti e distanti. Senza che emergano preferenze precise.
Certo, la “parte” (per non dire il “partito”) che sostiene la riforma prevale, ma non in misura netta. È, infatti, condivisa dal 51% dei cittadini intervistati. Mentre coloro che, al proposito, esprimono dissenso, si fermano al 44%.
Ma si tratta, evidentemente, di una maggioranza limitata e relativa. Che, nel referendum costituzionale non garantisce un esito coerente con la decisione del Parlamento. Basta pensare a quanto è avvenuto in occasione del referendum costituzionale del 2016, promosso da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, che mirava al superamento del bicameralismo paritario.
Anche se, inizialmente, appariva probabile — e quasi certa — la
sua approvazione (secondo le indicazioni dei sondaggi) alla fine venne bocciato dai cittadini. In questo caso l’esito di una consultazione appare ancora più incerto. Non solo per ragioni di consenso, ma di comprensione. Perché si tratta di una materia complessa. E, come sottolinea il sondaggio di Demos, con una distribuzione delle opinioni molto equilibrata.
È, tuttavia, evidente come gli orientamenti siano orientati anzitutto dalle preferenze politiche. E di partito. La linea di divisione principale è, infatti, costituita dalla scelta di schieramento. Fra maggioranza e opposizione. Gli elettori dei partiti al governo, infatti, esprimono un sostegno esplicito per la riforma.
Condivisa da una maggioranza pressoché totale dagli elettori dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Ma sostenuta anche da una larga maggioranza fra coloro che sostengono Forza Italia e la Lega.
Il consenso, invece, cala sensibilmente nella base del M5S e, ancor più, del Partito democratico. Questa differenza cresce quando le opinioni sulla riforma del sistema giudiziario vengono considerate in base al giudizio nei confronti del governo guidato da Giorgia Meloni. In questo caso, infatti, la divisione diviene frattura.
E ciò suggerisce come la questione della giustizia sia divenuta una bandiera per questo governo. E soprattutto per chi lo guida. I
magistrati, in altri, termini, interpretano “la parte dell’altra parte”. Di coloro, cioè, che si schierano contro questo governo e, anzitutto, contro chi lo dirige. Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio. Che dispone di un gradimento ampio, simile a quello nei confronti dei magistrati.
Tuttavia, proprio per questa ragione, allargare questa frattura può essere rischioso per la premier. Perché trasformerebbe i magistrati nel nemico. E ne farebbe un riferimento per quanti ritengono, comunque, la magistratura un polo di aggregazione.
(da agenzie)

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L’ULTIMA ESILARANTE BATTAGLIA DI SALVINI: PRIMA I PARRUCCHIERI ITALIANI

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

LA LEGA HA PRESENTATO ALLA CAMERA UNA PROPOSTA DI LEGGE PER IL “CONTINGENTAMENTO PROGRESSIVO DELLE AUTORIZZAZIONI PER L’ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ DI ACCONCIATORE, BARBIERE E PARRUCCHIERE”… UN MODO PER DARE LA CACCIA AI SALONI GESTITI DA PROPRIETARI STRANIERI

«Prima i parrucchieri italiani».
Chissà se la Lega, rispolverando (in parte) un vecchio claim caro al leader Matteo Salvini, userà questo come slogan per sponsorizzare la proposta di legge presentata alla Camera e assegnata alla commissione attività produttive. La prima firma è del deputato Gianpiero Zinzi (in prima linea nelle regionali in Campania a sostegno di Edmondo Cirielli), sostenuto dal capogruppo Riccardo Molinari.
L’obiettivo è il «contingentamento progressivo delle autorizzazioni per l’esercizio dell’attività di acconciatore, barbiere e parrucchiere». Un modo, non troppo velato, per dare la caccia ai saloni gestiti da proprietari non italiani.
I leghisti arrivano a chiedere al ministero del Made in Italy di varare un «piano di riduzione» (leggasi chiusure) laddove tali esercizi superino il numero massimo di abilitazioni previste.
(da agenzie)

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LA GUERRA DEI TRUMP AI NARCOS VENEZUELANI? È SOLO UNA SCUSA PER ROVESCIARE MADURO. SONO I CARTELLI MESSICANI I VERI RESPONSABILI DEL FIUME DI COCAINA CHE ARRIVA IN AMERICA: GESTISCONO L’INTERA CATENA LOGISTICA DEL NARCOTRAFFICO

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO UN RAPPORTO DELL’AGENZIA ANTI-DROGA USA (LA “DEA”), IL 74% DELLA COCAINA PASSA DAL PACIFICO, NON DAL MAR DEI CARAIBI … IL VENEZUELA HA SOLO UN RUOLO MARGINALE DI TRANSITO E DECOLLO DELLE SOSTANZE STUPEFACENTI

Il Venezuela è davvero un narco-Stato?
L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), Europol e Interpol non lo considerano un narcoStato. Si parla piuttosto di un «narco-Stato funzionale». Secondo la definizione Onu, un narco-Stato è un Paese il cui governo controlla, facilita e trae profitto in maniera sistemica dal narcotraffico. Il Venezuela, innanzitutto, non è un Paese produttore di coca, come Colombia, Perù e Bolivia. E non esistono prove ufficiali che lo Stato gestisca direttamente il narcotraffico.
Tuttavia, esistono forti elementi di narcoinfiltrazione istituzionale, da lì la definizione di «narco-Stato funzionale»: negli ultimi 15 anni diverse indagini della Drug Enforcement Administration (Dea) e del dipartimento di Giustizia Usa, hanno documentato una forte penetrazione del narcotraffico nelle forze armate e nella politica venezuelana.
Il cosiddetto Cartello dei Soli, nato negli anni 2000, avrebbe coinvolto alti ufficiali, accusati di proteggere i flussi di cocaina colombiana diretti verso l’Europa e la zona caraibica, in collusione con i cartelli colombiani e messicani, attraverso i porti di Maracaibo, Carapano e La Guaira, con livelli di controllo doganale molto bassi.
Maduro è coinvolto?
In una situazione di collasso economico come quella che sta vivendo il Venezuela, anche a causa delle sanzioni internazionali, il regime di Maduro tollera il traffico non soltanto di droga, ma anche di oro e di carburante, e altri traffici illeciti, come fonti alternative di liquidità. Lo Stato, di fatto, utilizza la narco-economia per sopravvivere ma non si identifica con esso, come accadeva a Panama ai tempi del generale Noriega.
Qual è la principale rotta della droga verso gli Usa?
Secondo un rapporto della Dea del 2020, circa il 74% della cocaina nel 2019 è passato dal Pacifico e non dal Mar dei Caraibi. I Cartelli messicani restano i gestori dell’intera catena logistica del narcotraffico verso gli Usa.
Il Venezuela ha un ruolo marginale, di transito e decollo. È un «territorio utile» perché da lì partono imbarcazioni e piccoli aerei che trasportano cocaina in arrivo dalla Colombia verso la Florida. È una «piattaforma di lancio», però secondaria rispetto ai flussi principali.
E le rotte verso l’Europa?
L’Ecuador, in particolare il porto di Guayaquil, è oggi il principale hub di esportazione di cocaina verso l’Europa, via Atlantico ovviamente. La droga è trasportata in container commerciali, carichi di prodotti legali, come banane, cacao, gamberi.
Il Fentanyl viene dal Venezuela?
No. È il Messico il laboratorio delle sostanze psicoattive come il Fentanyl. Il Venezuela non c’entra nulla.
Il Cartello dei Soli è un’organizzazione criminale?
Il Cartello dei Soli non è paragonabile ai narco-cartelli messicani o colombiani. In realtà, si tratta di una rete informale composta da ufficiali militari, funzionari di sicurezza e anche intermediari civili venezuelani, che protegge e facilita il traffico di cocaina in cambio di denaro e supporto politico.
È una rete di corruzione e collusione: non controlla produzione e traffico di cocaina, ma assicura il passaggio e la sicurezza logistica dei carichi attraverso i porti cruciali del Venezuela, oltre all’impunità dei criminali.
(da “Corriere della sera”)

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“LA FOTO DI PECHINO CON I DITTATORI PUTIN E KIM JONG UN? I LEADER OCCIDENTALI HANNO COMMESSO UN ERRORE A NON ESSERCI. LI’ ERA RAPPRESENTATO L’80% DEL GENERE UMANO”

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

MASSIMO D’ALEMA DIFENDE LA CINA (“NON FA GUERRE, NON BOMBARDA NESSUNO”) E ACCUSA IL GOVERNO: “LA MELONI SI INFILA NELLE FOTO. NON VEDO INIZIATIVA ITALIANA SU NESSUN TEMA DI POLITICA INTERNAZIONALE. SULL’UCRAINA SERVE UN’INTESA UE-RUSSIA”… IO FILOARABO? DIFENDO I DIRITTI DEL POPOLO PALESTINESE. COME CRAXI, ANDREOTTI, MORO, BERLINGUER”

Massimo D’Alema, cominciamo dalla foto di Pechino. Cosa c’è andato a fare?
«A festeggiare gli ottant’anni della vittoria del popolo cinese nella sua liberazione, e la vittoria della guerra contro il fascismo e il nazismo. Così era scritto sull’invito».
C’erano i peggiori autocrati della terra, a cominciare da Putin.
«Putin è stato ricevuto con maggiori onori negli Stati Uniti che in Cina. Le ricordo che nella guerra al nazifascismo i russi hanno avuto venti milioni di morti; che la Russia fosse rappresentata mi pare abbastanza inevitabile».
C’era pure il dittatore nordcoreano Kim Jong-un.
«E c’era il presidente del Parlamento sudcoreano. Qualcuno che avesse maggiore conoscenza e animo più sereno avrebbe notato molti rappresentanti di governi democratici, dall’India all’Indonesia».
Non dei grandi Paesi occidentali.
«I leader occidentali hanno commesso un errore. A Pechino era rappresentato, ci piaccia o no, l’80% del genere umano. Isolare
l’80% dell’umanità è un’impresa difficile. Mi fa riflettere un certo imbarbarimento».
La Cina non è un pericolo?
«I cinesi non fanno guerre, non bombardano nessuno. Se costruiamo un muro tra noi e loro è anche più difficile esercitare una necessaria influenza nel nome della libertà e dei diritti umani».
Sta dicendo che dobbiamo dialogare con il Sud del mondo?
«Il dialogo è obbligatorio. È nel nostro interesse. L’alternativa è lo scontro. Questi Paesi non sono predisposti allo scontro con l’Europa (non so con l’America). Vogliono la collaborazione. I cinesi si muovono in modo non ostile verso un Paese come l’Italia. Ogni spazio di collaborazione che si apre dovrebbe essere colto. A loro ho sempre detto: non potete più invocare la scusa che siete in via di sviluppo; siete una grande potenza, dovete prendervi le responsabilità di una grande potenza».
Come trova Trump? La tregua in Medio Oriente è merito suo.
«Quale tregua? La scorsa settimana, Israele ha ucciso in due giorni 104 persone, di cui 46 bambini. E continua l’aggressione quotidiana ai villaggi della Cisgiordania, lo squadrismo dei coloni, gli incendi, i ferimenti. È una gigantesca tragedia: il governo israeliano ha un progetto di pulizia etnica, di liquidazione definitiva del popolo palestinese. Trump, con la sua spregiudicatezza e imprevedibilità, punta a ricostruire lo spazio
americano nella sfera internazionale. E qui c’è il problema dell’Europa».
Quale problema?
«La Cina ha una sua agenda: costruire l’egemonia sul Sud del mondo. I cinesi ragionano sui tempi lunghi della storia. Il loro vero competitore non è l’America; è l’India, che ha una demografia favorevole. Gli americani hanno la loro agenda: tornare protagonisti. La Russia coltiva con rancore il sogno della rivincita imperiale; non sovietica, russa. E l’Europa? Non si capisce. Nessuno ha la percezione di un’agenda europea».
È così da tempo.
«Ma non è sempre stato così. Io ho vissuto due grandi crisi, i Balcani e il Libano, in cui l’Italia fu protagonista, e non nel senso che ci infilavamo nella foto».
La Meloni si infila nella foto?
«In sostanza, sì. Non vedo iniziativa italiana su nessun tema di politica internazionale. Abbiamo festeggiato la vicepresidenza di Fitto, al quale ho fatto gli auguri e che sta lavorando bene, come un trionfo; ma nel 2000 io negoziai una Commissione europea con Prodi presidente e Monti commissario alla concorrenza. Forse avrei dovuto indire una festa nazionale. Ottenemmo il comando della missione in Libano, e il giorno dopo entrammo nel Consiglio di sicurezza».
Ma ancora le rimproverano l’intervento Nato in Serbia.
«Intervenimmo per fermare la pulizia etnica, cosa che nessuno ha fatto nei confronti di Israele. Non volevamo schiacciare la Serbia, ma cercare una soluzione politica, che alla fine trovammo: il Kosovo non poteva diventare parte dell’Albania, la minoranza serba sarebbe stata protetta. Nei Balcani e in Libano l’Europa prese l’iniziativa; Clinton, Bush e Condoleezza Rice dovettero negoziare con l’Europa».
Ancora si ricorda la sua passeggiata a braccetto con un capo di Hezbollah.
«Una polemica senza senso. Dovevamo mandare i nostri militari nel Sud del Libano in condizioni di sicurezza, senza che fossero percepiti come una forza ostile. Quella che fu chiamata, davvero con cattivo gusto, “passeggiata” era una visita alle macerie di Beirut dopo un bombardamento israeliano, tra civili che cercavano i loro morti».
Lei è considerato da sempre filoarabo.
«Difendo i diritti del popolo palestinese. Non io; Craxi, Andreotti, Moro, Berlinguer: la politica democratica italiana. Io mi sento erede di questa tradizione».
E l’Ucraina?
«Anche lì spicca l’assenza dell’Europa, che ha sostenuto la guerra contro la Russia da una posizione irrealistica, sulla pelle degli ucraini».
Si riferisce anche a Macron?
«Certo. Una guerra tra l’Occidente e la Russia è una guerra nucleare: lo scenario è la mutua distruzione. Bisognava trovare una via d’uscita: quello che a un certo punto ha detto Trump a un’Europa spiazzata, infastidita, a rimorchio. Anche se poi si è mosso in modo maldestro, dando un vantaggio a Putin senza ottenere nulla in cambio».
Come finirà?
«Dobbiamo uscire da questo conflitto in un quadro di garanzie per l’Europa. La sicurezza dell’Europa ha bisogno di un accordo con la Russia, come quello negoziato a Helsinki nel 1975, che prevedeva misure concrete, controlli, riduzione degli armamenti».
E in Italia? Si costruirà una coalizione larga contro la destra?
«Spero di sì. Stanno lavorando. Non mi piace la parte di chi sta lì a criticare quelli che sono in office. L’elettorato spinge per l’unità Pd-5 Stelle-Sinistra; e in effetti, quando vota appena il 50%, mobilitare i propri elettori è importante. Ma non è sufficiente. Occorre dialogare con un elettorato non di sinistra, con un pezzo di establishment , di classe dirigente del Paese, disponibile a una coalizione più europeista, infastidita dagli eccessi del sovranismo, cui non piace il legame subalterno con Trump, di cui percepisce lo spirito antieuropeo. E dobbiamo fare un discorso più consistente sul futuro dell’Italia. Quello che a suo tempo proponemmo noi ebbe una presa».
A cosa si riferisce?
«Noi vedevamo un’uscita dalla crisi in chiave europea. Quando creai la Fondazione con Amato e Ciampi, fu proprio Ciampi a proporre il nome: Italianieuropei dava il senso di un progetto. Oggi il tema dell’Europa è logorato. Il gruppo dirigente del Pd raccolga la disponibilità che c’è, da una parte del mondo intellettuale, a dare un contributo di pensiero, di analisi degli scenari internazionali, di progetto per il futuro dell’Italia».
Come si sta muovendo la Schlein?
«Bene. Ci sta mettendo passione e spirito unitario. Certo, il Pd farebbe bene a elaborare una risposta ai problemi molto seri che abbiamo avanti».
Qual è il primo?
«La demografia. Altro che “fermare l’invasione”; dobbiamo fermare lo spopolamento. Se chiudiamo le frontiere, a fine secolo l’Europa avrà 300 milioni di sessantenni, di fronte a un’Africa con 4 miliardi e mezzo di abitanti, età media 18 anni. Una situazione insostenibile. Se non vogliamo chiudere tutto, fabbriche uffici ospedali welfare, non dobbiamo respingere, dobbiamo accogliere. E integrare, per evitare il disagio sociale che l’immigrazione provoca ai ceti popolari».
Tre ultime domande. Personali. La questione del suo rapporto con il denaro la segue da sempre: l’Ikarus, le scarpe fatte a mano, l’intermediazione con la Colombia. Qual è la verità?
«A parte la barca, di cui sono stato socio, è tutto falso. Ho sempre pensato, da vecchio comunista, che in una società di conflitto attacchi e persecuzioni siano inevitabili. Viviamo in un Paese in cui, se non hai fatto niente, alla fine ti assolvono. Non so perché, pur essendo io un pensionato indipendente, sia ancora visto come bersaglio».
E le consulenze?
«Certo, ho un’attività di consulenza che mi consente, tra l’altro, di tenere viva una fondazione senza partiti e senza padroni, e pubblicare una rivista cartacea costosa e prestigiosa. Guardi il numero speciale sulla pace: metà degli articoli è scritta da ebrei, compreso l’ex premier israeliano Olmert».
Ma lei è ancora comunista?
«La formazione è quella. Uno non può mai dimenticare l’educazione che ha ricevuto. Ma ho contribuito a porre fine al Pci e a dare vita a un altro partito. Occhetto fece bene, e abbiamo sempre motivo di gratitudine per il coraggio con cui cambiò».
I suoi più stretti collaboratori, quelli che Maria Laura Rodotà chiamava i Lothar — Latorre, Velardi, Minniti —, guardano con interesse alla Meloni. Come mai?
«Ognuno è sempre stato libero. Ho sempre avuto un’attrazione per il talento. Quand’ero capo della Fgci scovai e assunsi alla Città Futura due giovanissimi che mi parevano capaci di fare i giornalisti: erano Lucio Caracciolo e Federico Rampini. Non
sono mai esistiti i dalemiani. Nella misura in cui sono esistiti sono stati un problema, non una risorsa. Penso che ognuno dovrebbe avere più rispetto; non per me, ma per sé stesso».
Aldo Cazzullo
per il Corriere della Sera

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PRIMA SI VOTA, PRIMA SI CACCIANO I GIUDICI “NEMICI”, GIORGIA MELONI ACCELERA SUL REFERENDUM: VUOLE CHIUDERE IN 24 ORE LA RACCOLTA FIRME PER IL REFERENDUM, COSÌ DA ARRIVARE AL VOTO A INIZIO MARZO

Novembre 3rd, 2025 Riccardo Fucile

LA TEMPISTICA È CRUCIALE PER EVITARE LA PROROGA DELL’ATTUALE CONSIGLIO SUPERIORE DI MAGISTRATURA, CHE SCADE IL 23 GENNAIO 2027 (IN QUEL PERIODO SCADONO ANCHE MOLTI PROCURATORI CAPO IMPORTANTI, DA PALERMO A NAPOLI)

Il centrodestra ha una gran fretta di votare sulla giustizia. FI ha già iniziato a raccogliere le firme, FdI e Lega cominceranno oggi, obiettivo: chiudere tra 24 ore. Già in settimana la maggioranza intende presentarsi in Cassazione per consegnare i plichi e chiedere il referendum confermativo sulla separazione delle carriere.
Perché tanta smania? Secondo fonti di maggioranza c’è un obiettivo finora non emerso, che spinge l’esecutivo a velocizzare le procedure per la consultazione elettorale. Il Csm attuale scade il 23 gennaio 2027. E tra la seconda metà del 2026 e l’inizio
dell’anno successivo scadono i mandati di diversi procuratori capo (da Palermo a Napoli).
Nomine che deve approntare il Consiglio superiore dei magistrati. Prima entrerà in vigore la riforma Nordio, prima saranno sfornati i provvedimenti attuativi che istituiranno, in caso di vittoria del sì, i due nuovi Csm, quello dei giudici e quello dei pm. Il Consiglio superiore attuale altrimenti potrebbe essere prorogato.
Diversi togati sono d’accordo con la proroga, tanto che l’ipotesi è circolata in questi giorni sul Sole 24 Ore. Ma è uno scenario che la destra vuole assolutamente evitare. Preferisce che a decidere sulle procure siano i nuovi organismi figli della riforma, designati per sorteggio e non per «logiche correntizie».
Consegnando le firme dei parlamentari già in settimana, il referendum potrebbe tenersi a inizio marzo.
Sulla riforma, i sondaggi d’opinione fin qui circolati sono benevoli per l’esecutivo, ma i voti sono un’altra cosa. Giorgia Meloni non vuole che l’operazione si trasformi scopertamente in una conta politica vs magistrati. Anche per questo la premier ha chiesto di evitare comitati referendari di partito. Frenando lo slancio di Forza Italia
La ministra delle Riforme è molto attiva sulla battaglia cara a Silvio Berlusconi. Nelle chat riservate degli azzurri ha anche invitato ai colleghi di partito un audio d’archivio di Giovanni
Falcone. Per la campagna «ho trovato molto efficace il riferimento a Falcone, che io ho citato in qualche dibattito, ma non avevo l’audio», le parole della ministra di FI.
Per sostenere la causa stanno tornando in pista anche grandi ex azzurri, come Fabrizio Cicchitto, che insieme a un altro ex socialista, Claudio Signorile, è tra i promotori di un comitato per il Sì intitolato a Giuliano Vassalli.
Decisivi, come capita spesso nelle campagne elettorali, saranno i duelli tv. Carlo Nordio già si scalda per quello che potrebbe essere il primo dibattito sul piccolo schermo: mercoledì a Porta a Porta. Sull’altra poltrona dovrebbe esserci, secondo fonti della tv di Stato, il capo dell’Anm, Cesare Parodi.
(da Repubblica)

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