Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
DALLE BANDE DI RAGAZZINI VIOLENTI A UNA PRATICA SESSUALE IL PASSO E’ BREVE?
«Viviamo in mezzo alle gang bang… baby gang… Anche questo è un fenomeno che va controllato». Stava parlando delle politiche in materia di disagio giovanile durante un evento della campagna a San Donà di Piave (Venezia) per le ultime regionali in Veneto, ma è bastato un scambio di sillabe per trasformare il grave problema delle bande di ragazzini violenti («baby gang») in un meno serio (e involontario) riferimento a una pratica sessuale collettiva («gang bang»).
Protagonista della gaffe pubblica è Sergio Vallotto, segretario della Lega in provincia di Venezia in lizza per il ruolo di prossimo vicesindaco del capoluogo lagunare. Lo scivolone
risale allo scorso 14 novembre ed è finito in un video che da allora non ha smesso di circolare.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
SECONDO PALAZZO CHIGI, IN CASI DI URGENZA, GLI 007 DEVONO ESSERE LIBERI DI ATTIVARE LE CAPTAZIONI ANCHE AUTONOMAMENTE, SENZA IL VIA LIBERA PREVENTIVO DEL MAGISTRATO …DOPO IL CASO DEI GIORNALISTI SPIATI CON PARAGON, SIAMO SICURI CHE SIA UNA BUONA IDEA LASCIARE MANO LIBERA ALL’INTELLIGENZE SOTTO LA SUPERVISIONE DI MANTOVANO?
Il governo guidato da Giorgia Meloni ha da tempo il pallino di una riforma dei Servizi
segreti, ossia unificare i due rami dell’intelligence: quella per l’interno (Aisi) e quella per l’estero (Aise). Ma essendo un processo lungo e complesso (di cui tanto si è discusso in questi anni in diverse riunioni), l’idea – nel frattempo – è di intervenire su altro.
O meglio sulle intercettazioni preventive che vengono svolte dai Servizi segreti, su delega del presidente del Consiglio e solo dopo previa autorizzazione del procuratore generale della Corte
di Appello di Roma. L’indirizzo è rendere l’iter per poter ottenere l’ok alle captazioni più rapido per una questione di sicurezza.
Si tratta di quelle intercettazioni che non servono a provare la commissione di un reato, come nel caso delle captazioni dei procedimenti penali, bensì hanno una funzione di pubblica sicurezza, cioè mirano alla prevenzione dei delitti.
L’idea, dunque, di cui si sta discutendo in diversi ambienti governativi, è di ottenere l’ok del procuratore generale della Corte d’Appello in tempi più rapidi e, in casi più estremi, quando magari si presenta il pericolo che il soggetto scappi, di attivare le captazioni autonomamente, ottenendo, solo in alcuni specifici casi, l’autorizzazione ex post del procuratore generale.
Una soluzione, questa, che però potrebbe trovare delle critiche perché tenderebbe ad accrescere troppo il potere di intervento dei Servizi segreti. Per ora non esiste ancora un testo definitivo sotto forma di disegno di legge, ma Palazzo Chigi potrebbe accelerare e cercare di chiudere questa questione già a inizio anno.
A ogni modo, qualsiasi modifica dovrà passare dal Copasir, il Comitato parlamentare che si occupa proprio di controllare l’operato degli 007. E proprio a San Macuto si sta ragionando da tempo su un altro aspetto, che in qualche modo andrebbe a controbilanciare questa (ipotetica) tendenza: rafforzare i poteri di controllo del Comitato sull’operatore dell’intelligence.
Come? Ad esempio prevedendo più pareri sui dpcm del governo, ma anche creare la possibilità di maggiore verifica sui bilanci e su come vengono spesi i soldi dai reparti. Infatti i bilanci dei
Servizi sono segreti.
Il Copasir deve comunque visionarli ma ci sono voci che restano poco esplicite, proprio per la delicatezza nella gestione dei fondi riservati. L’obiettivo sarebbe quindi ottenere su alcune voci in particolare maggiori chiarimenti.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
“DOPO TANTI PROCLAMI SUL ‘DIRITTO ACQUISITO’ AL PENSIONAMENTO UNA VOLTA RAGGIUNTA UNA CERTA ANZIANITÀ E TANTE PAROLE SOPRA LE RIGHE, ARRIVA LA CONFERMA CHE UNA CONTRORIFORMA PENSIONISTICA NON SI PUÒ FARE. I PROVVEDIMENTI IN MANOVRA SI ADEGUANO AL CICLO DEMOGRAFICO DEL PAESE. IL TASSO DI DIPENDENZA DEGLI ANZIANI DA CHI LAVORA AUMENTERÀ IN ITALIA DAL 41% AL 76% ENTRO IL 2060”
Alla fine, anche i più ostinati o più sprovveduti dovranno accorgersi che “il re è nudo”. Dopo tanti proclami sul “diritto acquisito” al pensionamento una volta raggiunta una certa anzianità – stabilita con criteri politici più che economici o di genuina solidarietà – e senza domandarsi chi pagherà il conto;
dopo tante risorse utilizzate per aumentare il numero dei pensionati, invece di cercare di creare lavoro, e lavoro buono, per la stragrande maggioranza delle persone in età attiva, come unica vera base per rendere sostenibile un sistema previdenziale minacciato dalla demografia; dopo tante parole sopra le righe e altrettante promesse al di sotto di ogni soglia di credibilità, dopo tutta questa poco divertente commedia degli equivoci arriva la conferma che una controriforma pensionistica non si può fare.
Lo rivelano anzitutto le previsioni demografiche che prospettano una significativa riduzione della popolazione giovane a fronte di una forte crescita della popolazione anziana.
Si tratta di variazioni difficilmente compatibili con un sistema che, come il nostro, basa il finanziamento delle pensioni oggi in pagamento sui contributi versati dai lavoratori di oggi e, in parte crescente, data la cronica insufficienza dei contributi, con l’aiuto determinante delle imposte sui redditi personali o con il rinvio a tassazione futura, attraverso il debito.
Per citare un indicatore soltanto, il cosiddetto tasso di dipendenza degli anziani, dato dal rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e quella in età di lavoro (tra i 20 e i 64 anni), è
destinato in Italia ad aumentare, secondo l’Ocse, dall’attuale 41 per cento al 76 per cento circa entro il 2060.
Se pensiamo poi che soltanto una parte di quelli che sono in età lavorativa sono effettivamente occupati (oggi il tanto elogiato tasso di occupazione è pari al 63 per cento!) non è difficile rendersi conto di quanto assurdo sia continuare ad alimentare l’illusione che senza un numero più grande di lavoratori – e, più ancora, di lavoratrici – e senza incrementi retributivi in grado di generare un maggiore flusso di risorse, sia possibile ripristinare la passata generosità pensionistica, frutto spesso di miopia o, peggio, di cinici calcoli politici.
E, soprattutto, come sarà possibile per un/una giovane formarsi una famiglia quando dovrà sostenere la famiglia d’origine?
Perseverare invece nella stolta idea che sia ancora possibile ridurre l’età di pensionamento o renderla flessibile senza parallela correzione dell’importo della pensione; o abolire l’indicizzazione dell’età di uscita all’aspettativa di vita, meccanismo di salvaguardia del sistema contro prospettive di un suo collasso finanziario, è ingannare i cittadini.
E l’inganno non è minore quando è furbescamente nascosto nelle complessità del linguaggio normativo: si fa finta di introdurre allentamenti alle restrizioni, e perciò di essere “generosi”, quando in realtà si approvano misure che restringono i requisiti senza dirlo apertamente. La questione delle “finestre” è un esempio.
Le finestre equivalgono ai tempi di attesa (e perciò di supplemento lavorativo) imposti a chi matura i requisiti per
l’uscita dal mondo del lavoro. Si dice, per esempio, che si può andare in pensione con una certa “quota” – somma di età e di anni di anzianità di servizio – alla quale però si aggiungono 3 o 6 mesi o anche un anno di “finestra” (per i lavoratori autonomi si arrivava, prima del 2011, a un anno e mezzo!) prima di poter effettivamente esercitare il diritto.
Il tutto pur di non dire pubblicamente che si stanno restringendo i requisiti. In nome della trasparenza, il governo Monti le abolì con la riforma del 2011, inglobandole nei normali requisiti, cosa che, naturalmente, determinò l’accusa di avere inasprito le regole, quando in realtà si trattava di correttezza nei confronti dei cittadini.
La nuova bozza della legge di Bilancio presentata ieri al Parlamento contiene un misto di aperto riconoscimento delle difficoltà di bilancio (input del Ministro dell’Economia), mitigate dal rinvio al futuro di quasi tutte le misure sgradite agli elettori e, soprattutto, contrarie a quanto sempre sbandierato ai quattro venti dal vicepresidente del Consiglio e segretario della Lega.
Tutto, o quasi, va nella direzione dell’inasprimento: dalle “finestre” crescenti nel tempo, ma a partire dal 2032 (chissà perché?) all’età minima di 70 anni per l’incremento delle pensioni per chi è in difficoltà; dalle restrizioni all’uso del riscatto degli anni di laurea per il pensionamento anticipato all’adeguamento parziale e ritardato dell’età di uscita all’aumento dell’aspettativa di vita.
Tutto necessario ma ecco l’indoratura della pillola “tranquilli, ne parleremo ancora in futuro, quando le cose andranno
sicuramente meglio”. Ci tratteranno mai da cittadini adulti i nostri politici?
Elsa Fornero
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
LA FINTA LETTERINA DI NATALE AGLI ITALIANI
Un intervento dai toni natalizi, ma all’attacco, quello di Elly Schlein nell’Aula alla
Camera. «Visto che siamo in periodo, se gli italiani potessero scriverle una letterina di Natale, suonerebbe più o meno così: “Cara Presidente, secondo le segnalazioni arrivate a Cittadinanzattiva, le liste d’attesa sono di un anno per una Tac al torace; per una mammografia da fare entro 60 giorni ne servono 147; per una colonscopia si aspettano due anni; e persino per quelle urgenti, da fare in tre giorni, un italiano su quattro ne attende 105”». È l’intervento della segretaria dem dopo le comunicazioni della premier Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo in programma giovedì e venerdì, a Bruxelles.
«A Natale niente luci sull’albero di Natale»
Un passaggio poi sul carovita, ma sempre in chiave dicembrina: «A Natale quindi niente luci sull’albero, perché abbiamo le bollette più care d’Europa e le imprese perdono competitività. Ma in tre anni non avete fatto nulla per non intaccare gli extraprofitti delle grandi società energetiche. Per questo Natale io, Presidente, non le chiedo tanto. Le chiedo di pronunciare parole che non le sento pronunciare mai: precarietà e lavoro povero».
«Il pane al +28%, ma che gli italiani mangino pastarelle giusto?»
«Il governo pare aver dimenticato le persone – continua la segretaria – mentre lei continua a fare cabaret anche in questa
Aula. Se va tutto bene, perché gli italiani che rinunciano a curarsi sono saliti a 6 milioni?». E ancora, sull’aumento delle tasse: «Con lo stesso stipendio in tasca, quando vai a fare la spesa non riesci a comprare le stesse cose. Il pane costa il 28% in più, ma che mangino le pastarelle, giusto?». Il riferimento è a un commento rilasciato dalla premier, al programma Domenica In, durante «Il pranzo della domenica», dalla tavola imbandita al Tempio di Venere, a settembre. In quell’occasione Meloni disse che «la domenica» quando era più piccola, «era il giorno in cui si compravano le pastarelle, compreso il diplomatico».
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
COME AL SOLITO LEGA E M5S CHE VOGLIONO TENERCI INCATENATI AL REGIME PUTINIANO
È arrivato a larghissima maggioranza il via libera definitivo del Parlamento europeo allo stop di importazioni di gas e gnl dalla Russia. Il regolamento che impone un divieto totale delle importazioni in Ue dall’autunno 2027 è stato approvato dall’Aula di Strasburgo con 500 voti a favore, 120 contrari e 32 astenuti. Un risultato praticamente scontato, specialmente dopo l’intesa raggiunta nelle scorse settimane dalle istituzioni comunitarie. A questo punto, la decisione dovrà essere ancora formalmente approvata dal Consiglio Ue prima di essere pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Tra gli italiani contrari Lega e M5s
A favore dello stop all’importazione di gas da Mosca si sono espressi favorevolmente quasi tutti i gruppi politici europei. Tra le fila dei contrari ci sono sopratutto le destre dei Patrioti, la famiglia politica a cui aderisce la Lega, e una parte della sinistra di The Left, a cui sono iscritti per l’Italia il Movimento 5 stelle e Sinistra Italiana.
Scorrendo tra i tabulati del voto di oggi a Strasburgo, sono 14 in tutto gli italiani che hanno espresso parere contrario sul regolamento. Si tratta di sette eurodeputati della Lega (Paolo Borchia, Susanna Ceccardi, Aldo Patriciello, Silvia Sardone, Raffaele Stancanelli, Isabella Tovaglieri, Roberto Vannacci) e altrettanti del Movimento 5 stelle (Danilo Della Valle, Mario Furore, Carolina Morace, Valentina Palmisano, Gaetano Pedullà, Dario Tamburrano, Pasquale Tridico). Gli eurodeputati iscritti a Sinistra Italiana, che pure fa parte di The Left, hanno votato invece a favore del provvedimento.
Quando entra in vigore lo stop al gas russo
Lo stop al gas russo comincerà sei settimane dopo l’entrata in vigore del regolamento, con un approccio graduale per i contratti di fornitura già in essere. Da fine 2026 ci sarà il divieto totale per il gas naturale liquefatto, mentre dall’autunno 2027 lo stesso avverrà anche per il gas via tubo. Più nello specifico, i contratti di fornitura a breve termine conclusi prima del 17 giugno 2025 dovranno essere interrotti entro il 25 aprile 2026 per il gnl e dal 17 giugno 2026 per il gas da gasdotto. Per i contratti a lungo termine, il divieto scatterà dal primo gennaio 2027 per il gnl e dal 30 settembre 2027 per il gas via tubo.
Verso un divieto anche sul petrolio
A inizio anno, la Commissione europea dovrebbe presentare un’altra proposta per abbattere le ultime importazioni di petrolio, sempre entro la fine del 2027. Ad oggi sono solo due i Paesi Ue che ancora si affidano a Mosca per le forniture di greggio. Si tratta della Slovacchia e dell’Ungheria, i due Paesi con i governi considerati più filorussi. Chi non rispetterà il divieto sull’import di gas e petrolio russi rischia di andare incontro a sanzioni. In caso di «minaccia alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico» di uno o più Stati membri, le istituzioni europee potranno attivare la clausola di sospensione del regolamento.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
SI ALLONTANA L’AVVIO DEI CANTIERI TANTO CARI A SALVINI
La giornata nera del Ponte di Matteo Salvini. Bocciato nuovamente dalla Corte dei
conti, mentre il governo è costretto a far slittare le somme impegnate quest’anno per la sua realizzazione al 2033, considerando che dell’apertura dei cantieri annunciata più volte dal vicepremier della Lega non si vede nemmeno l’ombra. L’opposizione, da Pd ai 5 stelle e Avs, chiede adesso compatta di utilizzare tutte le risorse impegnate, 13,5 miliardi di euro, per altro liberando anche i fondi congelati a Sicilia e Calabria: «Il governo si fermi».
La Corte dei conti dopo aver bocciato la delibera Cipess ha bocciato anche l’atto aggiuntivo: il contratto, in soldoni, tra il ministero dell’Economia, il Mit e la società Stretto di Messina. L’iter messo in piedi dal governo Meloni per realizzare l’opera «non rispetta le norme europee», sostengono i magistrati contabili. Tre le azioni nel mirino delle motivazioni appena pubblicate sulla bocciatura del contratto tra ministeri e Sdm: si doveva «fare una nuova gara perché sono cambiati i criteri, considerando che prima i costi erano a carico dei privati ora invece solo del pubblico»; in ogni caso non solo non c’è alcuna
certezza «che rispetto alla vecchia gara del 2005 i costi non salgano di più del 50 per cento, ma anche i calcoli fatti per l’aggiornamento della spesa a carico dello Stato sono troppi generici; terzo, «non si può prevedere in queste condizioni alcun risarcimento» e penale a favore dei privati che hanno vinto la vecchia gara.
Le reazioni politiche a questa dura delibera della Corte dei conti, che si aggiunge alla bocciatura della delibera Cipess, arrivano subito. Anche perché di fatto la magistratura contabile sta dicendo che se non si rifà una nuova gara l’Europa potrebbe aprire una procedura di infrazione all’Italia, e si rischiano anche contenziosi civili infiniti da parte di altri privati che magari avrebbero partecipato alla vecchia gara aggiornata alle nuove condizioni. «Con le motivazioni depositate con la seconda delibera della Corte dei conti sul Ponte ormai è chiaro che Salvini e l’ad di Stretto di Messina Pietro Ciucci hanno fallito e dovrebbero trarne le conseguenze», dice Angelo Bonelli di Avs. «Non ha senso continuare a inseguire un’opera che rischia di consumare miliardi di denaro pubblico senza benefici chiari per le comunità», dice il capogruppo del Pd nella commissione Trasporti della Camera, Anthony Barbagallo. «Questo conferma quanto abbiamo sempre sostenuto: il Ponte così come concepito non si farà», dice Sergio Costa dei 5 stelle.
Quella della Corte è un nuovo colpo per il principale sponsor dell’opera, il ministro Matteo Salvini che ha più volte annunciato l’apertura dei cantieri: cantieri che invece non partono, tanto che il governo ha presentato nella manovra di bilancio un
emendamento che riscrive il calendario delle spese per la realizzazione del Ponte: 780 milioni, iscritti nel bilancio di quest’anno, saranno spostati in avanti, nel 2033.
Difficile comunque che in queste condizioni partano anche il prossimo anno. Le due bocciature, sulla delibera Cipess e sul contratto, convergono su un punto difficilmente aggirabile: si deve rifare una nuova gara di appalto. E, come ha detto Salvini, rifare le procedure dall’inizio significa “addio avvio del Ponte” in questa legislatura. Ma di fronte a questo scenario, il ministro delle Infrastrutture cosa fa? Aizza la polemica “territoriale” tra Roma e il Sud: «Perché c’è una metropolitana che va bene e un Ponte che va male?», dice intervenendo all’inaugurazione della stazione Colosseo-Fori Imperiali della metro C, Ma sul Ponte il tema è che l’iter voluto dal governo, che ha ripescato i vecchi contratti e il vecchio progetto affidato al consorzio Eurolink, sembra non poter avere al momento alcun via libera dagli organi di controllo.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
STRETTA SULLE PENSIONI ANTICIPATE: I LAVORATORI SONO DESTINATI A INCASSARE L’ASSEGNO SOLO SEI MESI DOPO AVER LASCIATO IL LAVORO, CON 43 ANNI E NOVE MESI DI CONTRIBUTI – LA MAGGIORANZA ENTRA A GAMBA TESA SULLA PREVIDENZA ANCHE INTRODUCENDO IL SILENZIO-ASSENSO SUL TFR PER I NEOASSUNTI
La manovra viene stravolta a una settimana dall’approdo in aula al Senato. Il governo ha depositato ieri un emendamento extralarge che vale 3,5 miliardi di euro, ma alla fine dell’iter parlamentare tutte le modifiche apportate rispetto al testo iniziale uscito da Palazzo Chigi peseranno quasi 5 miliardi.
Un cambio radicale se si considera l’impianto leggero di una legge di bilancio da 18,7 miliardi di euro, su cui i leader del centrodestra, d’intesa con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, avevano stabilito di limitare le modifiche per mantenere «i saldi invariati».
I saldi, ovviamente, sono garantiti da risorse che vengono da tagli e nuove entrate, e non da interventi in deficit, tuttavia l’impatto politico ed economico di questa pioggia di correzioni è significativo. E ha effetto sui tempi, visto che il voto di Palazzo Madama non ci sarà prima del 23 dicembre.
L’esecutivo si è visto costretto, da una parte, a mettere sul piatto 3,5 miliardi in più per «non tradire le imprese», come ha detto Giorgetti, e superare lo stallo in commissione che teneva bloccata la manovra da giorni. Dall’altra, il governo è stato obbligato a finanziare per un miliardo abbondante le richieste della maggioranza.
Colpisce che, per assicurare le esigenze delle imprese con gli investimenti dell’iperammortamento triennale, di Transizione e della Zes, si metta le mani sulla previdenza con un’altra stretta. Proprio il centrodestra, che voleva smontare la legge Fornero, che non è riuscito né a rifinanziare le “quote” né a bloccare la corsa dell’aspettativa di vita – solo diluita con l’aumento di un mese nel 2027 e due mesi nel 2028 – va a penalizzare la platea dei futuri pensionati per fare cassa.
Attualmente, l’assegno pensionistico anticipato, per il quale sono previsti 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne), decorre trascorsi tre mesi dalla data di maturazione dei requisiti, se sono raggiunti entro il 31 dicembre 2031. Con l’emendamento del governo questa finestra mobile cresce a partire dal 2032, salendo a quattro mesi se i requisiti sono maturati entro il 31 dicembre 2033, a cinque mesi l’anno successivo e a sei mesi a decorrere dal 1° gennaio 2035
A regime, quindi, i lavoratori sono destinati a prendere l’assegno pensionistico sei mesi dopo aver lasciato il lavoro: dovranno andare avanti con i risparmi, se ne hanno. Il risultato di questo ritocco è un allungamento dei tempi di uscita, che consente di contenere la spesa senza cambiare direttamente l’età. Per la Cgil, combinando la finestra mobile con l’aspettativa di vita, l’accesso alla pensione anticipata tra dieci anni salirà a 43 anni e 9 mesi di contribuzione.
La stretta è duplice se poi si tiene conto di una seconda misura che restringe gli effetti per coloro che hanno riscattato la laurea breve, quella triennale. Dal 2031 il riscatto varrà meno: si applica un taglio di sei mesi il primo anno e di 12 nel 2032, di 18 mesi nel 2033, di 24 mesi per chi matura i requisiti nel 2034 e di 30 mesi nel 2035.
A questa riduzione dei contributi non si accompagna una sforbiciata del costo dello strumento del riscatto della laurea, che viene pesantemente ridimensionato. In questo caso la Cgil ipotizza profili di incostituzionalità e stima che chi ha riscattato un periodo di studi potrà arrivare addirittura a 46 anni e 3 mesi di contribuzione prima di andare in pensione.
Capitolo Tfr. Torna il silenzio-assenso: i neoassunti del settore privato aderiranno automaticamente alla previdenza complementare dal primo luglio 2026. Inoltre, si amplia la platea delle aziende tenute a versare il trattamento di fine rapporto all’Inps.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX OLIGARCA RUSSO MIKHAIL KHODORKOVSKY: “PUTIN È COME UN GIOCATORE D’AZZARDO, SPERA SEMPRE CHE LA PROSSIMA CARTA SIA QUELLA VINCENTE. LO STA FACENDO ANCHE ADESSO CON TRUMP. PER LUI ADESSO IL DONBASS È UNA QUESTIONE IDEOLOGICA, DI PRINCIPIO E ANCHE DI SOPRAVVIVENZA AL POTERE”
Sorride spesso Mikhail Khodorkovsky, mentre risponde dal suo ufficio in centro a
Londra. Sorridono ironici i suoi occhi dietro le lenti dalla montatura leggera in acciaio. Sornione nel rispondere alla domanda centrale in queste ore di cauto ottimismo sui negoziati.
Trump dice che non si è mai stati così vicini alla pace. Lei ci crede? La risposta è un no, articolato e motivato. Non è ancora il tempo della pace. Putin tirerà ancora in lungo, cercherà ancora di sfondare militarmente come non gli è riuscito in questi quattro anni di attacchi.
«Vladimir Putin ha abbandonato da tempo il pragmatismo dei suoi esordi al potere», risponde il suo più famoso oppositore ancora attivo sulla scena internazionale. «Adesso per lui il Donbass è una questione ideologica, di principio e anche di sopravvivenza al potere.
La sua propaganda si è spinta troppo in avanti per fare concessioni. Tutti in teoria avrebbero interesse a far finire questa guerra. Se fossero realisti adesso sarebbe il momento adatto, con l’amministrazione americana sbilanciata verso Mosca e gli Europei più coinvolti. Ma ormai il conflitto si gioca su un altro piano, anche Zelensky non può cedere territori salvo causare una crisi drammatica in Ucraina, istituzionale e di coesione sociale».
Non ha dubbi Mikhail Khodorkovsky, ex uomo più ricco di Russia, negli anni Novanta oligarca a capo dell’impero petrolifero Yukos, poi entrato in rotta di collisione con
Presidente che lo spedì al gulag, un decennio di prigioni siberiane prima dell’esilio britannico: «Putin è come un giocatore d’azzardo, spera sempre che la prossima carta sia quella vincente. Lo sta facendo anche adesso con Trump».
Eppure l’uomo che parla in russo assistito da una interprete nonostante l’inglese lo sappia, perché vuole esprimere bene la sua opinione, è in fondo ottimista: «Anche questa guerra prima o poi finirà.
Non sogniamoci una pace natalizia ma anche Putin deve fare i conti con una economia sull’orlo della recessione. Mancano soldati ma anche forza lavoro civile. Con la guerra l’apparato militare si è rafforzato nel sistema di potere russo. Lui non è amato dai generali, come non lo è dalla classe media o medio-alta che paga le conseguenze della guerra sulle proprie condizioni di vita. Putin gode ancora di grande consenso popolare e mantiene con pugno di ferro la coesione del suo cerchio ristretto di uomini chiave. Ma nemmeno lui può tirare troppo la corda».
Così si torna ai negoziati, ai vertici internazionali, ai frenetici viaggi di Zelensky, al ruolo degli Stati Uniti e ai passi avanti fatti in questi mesi.
Secondo Khodorkovsky prima o poi anche Putin dovrà accettare un compromesso, probabilmente prima che le elezioni americane di Midterm (il prossimo novembre) possano erodere il potere di Trump, chiaramente un elemento chiave per il Cremlino. Se la sovranità del Donbass non è negoziabile né per Mosca né per Kiev, l’unica via d’uscita sarà dichiarare l’area contesa “zona
smilitarizzata” sotto controllo internazionale. Uno dei punti in discussione.
«Altrimenti non se ne esce – concorda Khodorkovsky –. Di fatto sarebbe una terra di nessuno, da ricostruire e da difendere. Ci vuole però una presenza militare forte per garantirne la sicurezza ed evitare che i russi in futuro avanzino di nuovo.
Europei e americani non possono scendere in campo militarmente. Le garanzie Nato sono solo sulla carta. Potete però offrire soluzioni alternative. Una no-fly zone sui territori smilitarizzati sarebbe un deterrente credibile anche per Mosca».
Dall’arcinemico del Cremlino arriva però anche un altro monito, direttamente a noi Europei: «Ricordatevi che Vladimir Putin negli ultimi vent’anni ha risolto quattro crisi interne lanciando attacchi militari. Ricordatevi della Cecenia, della Georgia, della Crimea e dell’aggressione finale all’Ucraina.
Quando questa guerra finirà, anche il sistema di potere del Cremlino dovrà fare i conti con il riassetto economico e sociale. Putin sarà tentato ancora una volta di gridare all’emergenza del nemico alle porte. E ai confini della Russia ci siete voi Europei»
Khodorkovsky allarga le braccia, con l’aria rassegnata di chi ha provato sulla sua pelle l’inevitabile meccanismo perverso della violenza istituzionale che alimenta se stessa. «Voi Europei non avete più la mentalità di chi è pronto a difendere la propria nazione – aggiunge sconsolato –. Sarebbe bello vivere in pace come siete riusciti per 80 anni ma chi si nutre di guerra non capisce questo atteggiamento. Lo interpreta solo come debolezza. Eppure davanti a una Europa forte e unita, anche
militarmente, la Russia di Putin si fermerebbe. Dovete insegnare ai giovani che il proprio Paese va difeso anche con le armi se necessario. Non è nazionalismo, che anzi nella storia ha causato tanti conflitti, ma legittima difesa». Un esercizio di grande equilibrio, ammette l’arcinemico di Putin, ma ormai necessario. La fine della conversazione è vicina, dopo quasi un’ora ci salutiamo.
Non possiamo però evitare di chiedergli cosa pensa dei tanti filo-putiniani nella politica europea, soprattutto tra i partiti di estrema destra. Torna a sorridere ironico come all’inizio: «Si vede che dopo Mussolini, Hitler o Francisco Franco molti da voi hanno ancora nostalgia dell’uomo forte».
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
LE ALTERNATIVE SONO DUE: NON UTILIZZARE GLI ASSET E REPERIRE ALTROVE 60 MILIARDI L’ANNO (MA I SOLDI NON CI SONO E NESSUN PAESE È DISPOSTO A CERCARLI), O STACCARE LA SPINA A ZELENSKY, COSTRINGENDOLO ALLA RESA E ASPETTARE LA PROSSIMA INVASIONE DI PUTIN
“I funzionari dell’amministrazione Trump hanno esercitato pressioni sui governi europei, almeno su quelli che considerano più amichevoli, affinché respingessero il piano di utilizzare i beni russi per finanziare l’Ucraina”.
E’ quanto scrive Politico.eu citando quattro funzionari europei. Nell’articolo, dal titolo, “Il problema dell’Ue non è il Belgio, è Trump”. Gli Usa “ci vogliono deboli”, ha spiegato un funzionario europeo alla testata, secondo la quale “i funzionari Usa hanno aggirato Bruxelles e comunicato in modo riservato con le capitali hanno portato Italia, Bulgaria, Malta e Repubblica Ceca ad unirsi ai dissenzienti”.
La domanda cruciale oggi è capire se e come gli europei faranno fronte alla prosecuzione della guerra senza il sostegno degli Stati Uniti. È qui che si gioca la vera decisione strategica: l’utilizzo degli asset russi congelati in Europa. E proprio in questo contesto la posizione dell’Italia potrebbe rivelarsi decisiva.
La questione degli asset russi ha subito numerose evoluzioni negli ultimi quattro anni, trasformandosi in una questione
strategica, in grado di determinare le sorti della guerra. Quando la Russia avviò l’invasione su larga scala dell’Ucraina, una delle prime misure sanzionatorie adottate dall’Ue fu il congelamento degli asset russi detenuti in Europa, per un valore di circa 210 miliardi di euro, custoditi principalmente in Belgio da Euroclear.
Per lungo tempo, la questione rimase in sospeso: si temeva che l’utilizzo di tali beni potesse violare il diritto internazionale e compromettere la stabilità finanziaria dell’Eurozona.
Di fatto, esistono tre opzioni. L’Europa potrebbe scegliere di non utilizzare gli asset e reperire altrove l’intero ammontare necessario a sostenere l’Ucraina, pari a circa 60 miliardi all’anno.
Questo garantirebbe che l’80% del Paese ancora sotto controllo ucraino rimanga libero, democratico e indipendente. Eviterebbe inoltre che la guerra russa si estenda ulteriormente. Questa opzione eliminerebbe qualsiasi rischio legale e finanziario per l’Europa.
Il problema è che tali risorse non sono disponibili. Trovare 60 miliardi all’anno, ogni anno, finché duri la guerra, non è scontato. È un impegno economico consistente, ben più oneroso dei rischi associati all’utilizzo dei beni russi.
Esiste poi una seconda opzione, cara a chi auspica una capitolazione dell’Ucraina: staccare la spina a Kyiv, costringerla alla resa e illudersi che così finisca la guerra. È quanto vorrebbe farci credere la propaganda russa, sostenuta anche da Washington.
Ma la maggior parte dei governi europei ha compreso il gioco. Sa che, se questo scenario si realizzasse, i prossimi obiettivi del
revisionismo coloniale russo potrebbero essere proprio loro. I costi politici, economici e di sicurezza di questa opzione sono talmente elevati che, al confronto, i rischi legati all’utilizzo degli asset russi appaiono irrisori.
Ciò ci conduce all’ultima opzione, l’unica che abbia senso strategico ed economico per l’Europa: utilizzare gli asset come garanzia per un prestito di 140 miliardi a favore di Kyiv.
Non si tratta di spendere direttamente i beni congelati, ma di usarli come leva per garantire un flusso di sostegno all’Ucraina per diversi anni. Il debito verrebbe ripagato al termine della guerra, contestualmente ai costi di riparazione a carico della Russia.
Il segnale sarebbe potente: l’Europa, indipendentemente dalle pressioni statunitensi, ha chiari i propri interessi di sicurezza ed è disposta a restare al fianco dell’Ucraina finché Mosca non si convinca che sia giunto il momento di deporre le armi. Potrebbe accadere presto o meno, ma di certo questa scelta accorcerebbe notevolmente la durata del conflitto, costringendo Putin a rivedere i suoi calcoli.
Il primo passo è già stato compiuto: la questione degli asset è stata inserita tra i poteri emergenziali dell’Ue, decidibili a maggioranza qualificata e non più all’unanimità. In questo modo, l’Unione non è più ostaggio dei veti di Viktor Orbán. La partita, però, rimane aperta: altri Paesi, a partire dal Belgio, continuano a opporre resistenza.
Il Belgio ha preoccupazioni legittime, alle quali la Commissione e altri Stati membri stanno cercando di dare risposta. Meno
comprensibili, ma comunque presenti, sono le reticenze di una manciata di altri Paesi, per lo più piccoli, con l’eccezione dell’Italia.
Roma si è mostrata riluttante a procedere, temendo ritorsioni russe nei confronti di alcune compagnie italiane ancora operative in Russia. Sono preoccupazioni fondate, ma, di fronte all’enormità del momento e alla drammaticità delle alternative, appaiono inconsistenti.
È arrivato il momento della verità, una verità che richiede una scelta. Non si può sostenere di appoggiare l’Ucraina nascondendosi dietro al velo del fantomatico processo di pace di Trump. La pace non arriverà a breve e la scelta sul tavolo oggi è se continuare a restare al suo fianco, non per bontà d’animo, ma con la consapevolezza che la sicurezza nazionale e europea ne dipende.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »