Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
QUANDO DRAGHI PARLO’ DI “PUPAZZI PREZZOLATI” DA MOSCA
«Il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile»: Maria Zakharova, la portavoce
della diplomazia russa celebre per i suoi attacchi a politici e giornalisti sgraditi al Cremlino, si scopre capace anche di complimenti, verso gli occidentali che si mostrano allineati a Mosca.
A meritare il premio è stato Matteo Salvini, applaudito per la sua frase sull’impossibilità di fare la guerra alla Russia. «Né Hitler, né Napoleone sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca, dubito che Kaja Kallas, Emmanuel Macron, Keir Starmer e Friedrich Merz ci riusciranno», ha detto il leader della Lega nell’intervista alla trasmissione televisiva “Quarta repubblica” su Retequattro. Ed è stato immediatamente “promosso” da Zakharova, attenta lettrice dei media italiani, che di solito segue per bacchettare chi prende posizioni critiche nei confronti del regime putiniano, dal presidente Sergio Mattarella ai giornalisti di La Stampa e La Repubblica.
A dire il vero, il primo politico occidentale a formulare la teoria che la Russia vince sempre le guerre è stato Donald Trump, che nell’agosto scorso aveva giustificato l’invito di Vladimir Putin al vertice in Alaska, con tanto di tappeto rosso, proprio con la motivazione della presunta invincibilità del suo Paese. I manuali
di storia contraddicono questa affermazione: nel 1905, la Russia era stata la prima potenza europea a subire una disfatta in Asia, con il Giappone che aveva distrutto la flotta dello zar. Aveva perso contro i polacchi, nel 1920, nonostante Maria Zakharova avesse dichiarato proprio qualche giorno fa che «è stato Lenin a creare la Polonia indipendente».
Zakharova però distribuisce plausi a chi impara bene le lezioni di propaganda del Cremlino: il precedente politico europeo a guadagnarsi il suo plauso è stato il premier belga Bart De Wever, che si è opposto al congelamento degli asset statali russi depositati in Belgio, paragonandolo al «furto di mobili da una ambasciata straniera». «Metaforico e preciso», è stato il voto della portavoce diplomatica di Mosca.
Il leader della Lega però rimane senz’altro uno degli allievi preferiti alla scuola russa. «La situazione economica dell’Ue è assai deprimente: crescita quasi a zero, debito e deficit in rapida crescita, con calo della produzione, deindustrializzazione e costi dell’energia fuorimisura», comunica Maria Zakharova in una intervista di appena un paio di giorni fa. Salvini prontamente comunica che le sanzioni contro la Russia avrebbero «messo in ginocchio le economie europee, e hanno provocato un aumento del prezzo dell’energia per gli italiani».
Ieri, il prezzo di un barile di greggio ha toccato il minimo negli ultimi quattro anni, mentre i numeri dell’economia russa – statistiche ufficiali, fornite da governo e Banca Centrale – rendono la descrizione di Zakharova calzante semmai per la Russia.
Il rapporto con la realtà è sempre un problema degli autoritarismi, e quello russo ha sempre scommesso su alleati occidentali che accettavano di credere al Cremlino, che fossero i comunisti convinti che in Urss tutti potessero avere una casa e un lavoro, o i sovranisti di oggi che sostengono – come fece Salvini dopo un viaggio – che «a Mosca non si vedono clandestini».
Migliaia di immigrati dell’Asia Centrale gli sono probabilmente sfuggiti perché relegati nei cantieri e nelle baracche dove vengono stipati. In compenso, il leader della Lega ha visto una cosa che non c’è: elezioni libere, applaudendo nel 2024 – con qualche imbarazzo anche per i partner nella coalizione di governo – la rielezione non esattamente democratica di Putin per il quinto mandato.
Ma la condizione per trattare con il Cremlino è quella di aderire alla sua retorica, e l’aveva capito bene Gianluca Savoini che già nel 2018 presentava Salvini ai suoi interlocutori russi al Metropol come «il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa.
(da La Stampa)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
L’USO DEGLI ASSET RUSSI? “QUALSIASI STRUMENTO DEVE SEMPRE RISPETTARE I NOSTRI VALORI E LE REGOLE SU CUI POGGIA LO STATO DI DIRITTO”: QUALE? QUELLO DI AGGREDIRE UN POPOLO, RAPIRNE I BAMBINI E FARLA FRANCA PERCHE’ I GOVERNI OCCIDENTALI SONO DEI VILI?
E’ importante “il mantenimento della pressione sulla Russia” che, a differenza di quanto dice la propaganda, “si è impantanata in una durissima guerra di posizione a costo di enormi sacrifici. Questa difficoltà è l’unica cosa che può costringere Mosca ad un accordo”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nell’Aula della Camera.
“Lunedì al vertice di Berlino con Zelensky, diversi colleghi europei e i negoziatori americani”, c’è stato “un clima costruttivo e unitario che vale la pena di sottolineare. La dichiarazione finale dei leader europei riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili e che ho ribadito anche a Zelensky nella sua visita a Roma. Tra i “fattori fondamentali” emersi dal summit c’è lo “stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, condividono lo stesso obiettivo angolo di visuale, non sovrapponibile completamente per il diverso posizionamento geografico”.
Per le garanzie di sicurezza all’Ucraina c’è tra l’altro “l’ipotesi di dispiegamento di una forza multinazionale ucraina guidata dai volenterosi con la partecipazione volontaria dei paesi: approfitto per ribadire che l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina”.
“L’Italia ha deciso di non far mancare il suo appoggio al regolamento” sugli asset russi congelati ma “senza avallare alcuna decisione sul loro utilizzo. Lo ha fatto non condividendo il metodo utilizzato,
(da agenzie)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
DOV’E’ LA RIVOLUZONE PROMESSA, LA DISCONTINUITA’ COL PASSATO E IL “TRIONFO” SULLA SCENA INTERNAZIONALE?
C’è una strategia piuttosto utilizzata dai comunicatori politici: quando i tuoi
argomenti sono deboli, attingi alla retorica; quando non hai dati a supporto delle tue affermazioni, manipola le statistiche; quando affronti questioni divisive, mantieniti sul vago; quando devi ammettere che qualcosa non ha funzionato, fai la vittima, perché, ricordalo bene, la colpa è sempre, sempre, ma proprio sempre, di qualcun altro.
Manco a dirlo, una delle più brave nel mettere in pratica questi precetti è la nostra presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E uno dei suoi pezzi di bravura è stato certamente il discorso con cui ha chiuso l’ultima edizione di Atreju, la kermesse organizzata dai giovani di Fratelli d’Italia e ormai diventata appuntamento centrale nell’agenda politica nazionale (a proposito, avete visto la nostra inchiesta sugli Amichetti d’Italia versione Atreju?). Nel merito delle cose dette da Meloni vi rimanderei a questo debunking della nostra Annalisa Cangemi, il punto su cui invece mi interessa insistere è sulle sue scelte comunicative, su cosa ci dicono e cosa invece nascondono. E sul modo in cui sono state recepite tanto dalla sua comunità politica che dagli addetti ai lavori.
Giulia Merlo su Domani approfondisce due aspetti centrali del messaggio della leader di Fratelli d’Italia alla folla di Atreju: il vittimismo, appunto, e il respiro identitario. Questo passaggio è particolarmente interessante:
La retorica della premier è quella di sempre, in un’ideale iperbole che è cominciata con quella definizione di underdog usata alla Camera nel suo discorso programmatico per la fiducia del 2022. In quasi un’ora di intervento, ha attaccato in modo martellante il Pd, poi i sindacati che hanno organizzato gli scioperi e in particolare la Cgil di Maurizio Landini. Addirittura, la parola più pronunciata è stata «sinistra», una sorta di fantasma evocat
come opposto delle posizioni della premier, ma anche come causa di tutti i mali del paese prima che al governo arrivasse lei.
Per il centrodestra, invece, Meloni ha evocato l’immagine della comunità di destino, definendo l’alleanza per negazioni: “Non siamo un incidente della storia, non siamo una somma di divisioni”. Il risultato da rivendicare è quello delle regionali: 3 a 3, invece che 5 a 1 evocato dall’onnipresente sinistra. Il riferimento alla coalizione di governo, però, finisce qui. Il noi contro di loro costantemente evocato, infatti, ha la premier al centro con il suo progetto politico.
Vittimismo e culto del capo sono al centro anche delle riflessioni di Alessandro De Angelis su La Stampa, particolarmente incisive quando evidenziano come, sia come sia, Meloni è al potere da oltre tre anni:
Avete capito chi e quanto comanda? Bene, finito il racconto del culto del capo, passiamo al capo, che per inciso è anche premier da più di tre anni. Al cronista tocca ricordarlo perché, se uno atterrasse da Marte su Atreju, penserebbe che Giorgia Meloni sta all’opposizione. È il populismo, bellezza! C’è sempre il nemico per galvanizzare la curva, il racconto pugnace, il “noi” puri e non omologati al mitico sistema e il “loro” che non ci fermeranno
Però qui c’è un’annotazione da fare, rileggendo gli appunti. E cioè che il parco ne-mici si è molto ristretto.
E dunque, come si fa a scaldare i cuori audaci con le mani legate su queste cose e con l’economia ferma? Semplice, da un lato con la retorica della grandeur di “un’Italia tornata grande”, dall’altro prendendosela circa una trentina di volte con sinistra e d’intorni.
Al posto della rivoluzione su banche, assicurazioni, lobby ed Europa e del rendiconto di ciò che si è fatto, ecco l’elenco dei nemici pronti per l’uso, sapientemente sopravvalutati rispetto al peso reale: Elly Schlein, la Cgil coi suoi scioperi del venerdì, i giudici che tolgono i bambini dalla casa nel bosco, ma senza esagerare per non impelagarsi nel referendum, Ilaria Salis e Greta Thunberg, il Sessantotto, Francesca Albanese e i pro-Pal, i “rosiconi” e quelli che preferiscono il kebabbaro alla cucina italiana patrimonio dell’umanità.
Piccolo inciso, con un quiz per voi che ormai seguite questa piccola rubrica: secondo voi, chi sarà stato il più solerte nel riprendere questo passaggio sui kebab e nel rilanciare la retorica meloniana della sinistra rosicona persino sul riconoscimento Unesco alla cucina italiana? E perché proprio il suo ex portavoce, ora direttore di Libero? Questo un piccolo assaggio del pezzo, peraltro scritto molto bene, va detto:
La sindrome del «kebabbaro» è un disagio che si manifesta nella sinistra quando subisce la sconfitta, non elabora il lutto, non capisce l’avversario e ogni volta che lo vede, lo sente parlare, lo immagina, perde l’orientamento, barcolla, sbatte i piedi, e cade in uno stato che oscilla tra la prostrazione e la rabbia. Dopo più di tre anni di governo Meloni l’opposizione ancora non sa chi è Giorgia.
L’opposizione si schiera contro l’operazione sulla cucina italiana patrimonio dell’Unesco? Il suicidio ai fornelli dei tragical-chic contro il bucatino all’amatriciana di “Lollo” (Brigida) viene dipinto con la corsa della sinistra dal “kebabbaro”. Ecco un’altra
bandiera della sinistra, il kebabbaro.
Dove abbiano visto questa lotta senza quartiere della sinistra tutta al riconoscimento Unesco, francamente, non è dato sapere. Ma c’è chi ha fatto un ulteriore salto di scala, riuscendo a parlare di Atreju come “lezione di democrazia”, in contrapposizione al clima di odio e di intolleranza sempre della solita sinistra. Su Il Giornale, dove si nota già qualche cambiamento, addirittura Paolo Bracalini riesce a presentare Meloni e diversi esponenti della destra di governo come “vittime di censura” e accusa le opposizioni di “avere in mano i manganelli” e di non ospitare mai il contraddittorio nei loro eventi pubblici.
Anche qui, onestamente, non mi farei distrarre e andrei al punto. Che, tutto sommato è semplice: Meloni è sola al comando da oltre tre anni, sta gestendo con grande attenzione la finanza pubblica e si sta barcamenando con enorme difficoltà in un quadro internazionale estremamente complesso. Tutto qui, non c’è molto altro se non la gestione del potere per il potere. È per questo che deve costantemente rifugiarsi nella propaganda, nella retorica e nel vittimismo. Perché non ha altro da dare, se non recriminazioni e ancora promesse. Oltre alla dimensione onirica di un’Italia spavalda e vincitrice, in cui ogni cosa sta finalmente funzionando e che è pronta a cambiare le regole del gioco, in Europa e nel mondo intero.
In effetti, fossi un elettore storico della destra, sarei molto contrariato per questa rivoluzione sempre annunciata e mai cominciata. Oltre la tensione retorica, i rimandi identitari di cui anche il discorso di Atreju era zeppo, c’è solo la tensione verso la
creazione di quel laboratorio della nuova destra mondiale con cui la leader di Fdi ha affascinato i suoi. Certo, a quelli dai “cuori puri e dalle gambe forti” ha garantito piccoli spazi di potere, li ha portati nei salotti che contano e nei corridoi un tempo tanto detestati. Ma poi?
Fossi un elettore novello, uno di quelli che ha creduto in Meloni magari dopo le fascinazioni per Salvini, Di Maio, forse anche Renzi, mi chiederei che fine hanno fatto le promesse per cui l’ho votata. Le accise sulla benzina, il blocco navale, la stretta sulla criminalità, tanto per cominciare. Sono passati tre anni e devo ancora sentirmi dire che è colpa della sinistra, dei giudici comunisti, dei centri sociali. Usque tandem…
Fossi ancora un disciplinato elettore di centrodestra mi farei qualche domanda su come si è finiti a replicare l’agenda Draghi in economia, sentendomi anche un po’ offeso per il fumo negli occhi che vogliono buttarmi con provvedimenti come quello che promette il ritorno al popolo “dell’oro di Bankitalia”. Ma sul serio tocca sentirmi dire ancora che è tutta colpa del superbonus? E poi, non eravamo quelli che avrebbero finalmente messo in riga banchieri e finanzieri?
Potremmo continuare a lungo, magari ritornando sulle ambiguità in politica estera, col ruolo di quinta colonna trumpiana nell’Unione Europea che Meloni si è ritagliata, anche prescindendo dalle posizioni dei suoi alleati e dai rapporti storicamente consolidati con i partner europei, mentre parallelamente cerca di saldare un asse con la presidente della Commissione von der Leyen.
Intendiamoci, non che sia semplice fare la rivoluzione in questo Paese e nel contesto attuale. E, soprattutto, l’incapacità dei Meloni e dei suoi nel portare a compimento imprese folli e sconsiderate è quasi una salvezza. Ma la distanza siderale fra promesse e risultati è un dato di fatto, che per ora l’abilità comunicativa della leader di Fdi riesce a nascondere (grazie anche all’arrendevolezza di parte dell’opposizione e al sostanziale controllo della quasi totalità dei mezzi di informazione).
Funzionerà ancora a lungo?
(da Fanpage)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
DAVANTI A LISTE D’ATTESA INFINITE, REGIONE LOMBARDIA PORTA AVANTI UNA MASSICCIA OPERA DI PRIVATIZZAZIONE
Esami urgenti, da effettuare nel giro di poche settimane, la cui disponibilità viene data dopo più di un anno. Liste d’attesa infinite e cure di base che non vengono garantite ai pazienti più fragili. È la fotografia attuale del sistema sanitario pubblico di Milano e della Lombardia, che il più delle volte non riesce a garantire in tempo utile le prestazioni mediche necessarie.
La soluzione più rapida per i pazienti, così, diventa quella di rivolgersi al privato, dove lo stesso esame si può prenotare addirittura il giorno successivo alla prescrizione del medico curante. Un’opzione che però, naturalmente, costa carissimo.
Più di 800 euro, ad esempio, nel caso di Leonardo Di Pierro, 71 anni, paziente cardiopatico, che ha rischiato la vita perché la prima Tac coronarica disponibile nel servizio pubblico, a Milano, sarebbe stata a oltre un anno di distanza dalla prescrizione della cardiologa: da marzo del 2025 a maggio del 2026.
La storia di Leonardo Di Pierro: “Ho rischiato di morire”
“Se avessi davvero aspettato a fare la Tac coronarica probabilmente sarei morto”, racconta oggi a Fanpage.it che, a seguito delle denunce sul fallimento del Cup unico regionale e lo scandalo delle liste d’attesa che penalizzano anche le donne in gravidanza, prosegue la sua inchiesta sui malfunzionamenti della sanità guidata da Regione Lombardia. “Sono qui solo per caso, vivo per miracolo”.
O meglio grazie all’intervento della moglie Silvia Boga. “Mio marito, in quel periodo, aveva difficoltà a salire le scale, persino a uscire con il cane… ho provato così a contattare anche la clinica privata convenzionata San Giuseppe, che in regime di servizio pubblico non riusciva comunque a garantire la prestazione prima di sei mesi (ottobre 2025)”, ha spiegato la donna. “Poi, durante una visita, ho evidenziato il problema al cardiologo che mi segue da anni. Mi ha detto: Fai entrare tuo marito, gli facciamo al volo un ecocolordoppler da sforzo”. Risultato: il medico si rende immediatamente conto che nel
paziente ci sono delle ischemie in corso. Leonardo viene quindi spedito in un altro ospedale (sempre privato convenzionato), e operato d’urgenza. “Hanno rilevato subito che la situazione era terribile, c’erano almeno due bypass da fare”, sempre le parole della moglie. “È stato per dieci giorni in terapia intensiva”. Ma cosa succede quando non si può disporre di un trattamento “di favore”, come in questo caso? Chi può, prenota nel privato. La medesima tac coronarica qui, in Lombardia, si può ottenere infatti anche il giorno successivo alla richiesta: basta pagare dai 400 agli 850 euro, ed ecco fatto. Chi non può pagare, purtroppo, aspetta e spera, mettendo in grave rischio la propria salute e il proprio futuro.
Cos’è la super intra-moenia
Cosa fa quindi Regione Lombardia di fronte a tutto questo, per smaltire l’annoso problema delle liste d’attesa nella sanità e garantire le prestazioni sanitarie a tutti i cittadini, evitando una costosissima fuga verso il privato che in pochi possono permettersi? Mette a disposizione 10 milioni di euro per l’acquisto di prestazioni private da parte delle strutture accreditate.
“Con questo provvedimento garantiamo nuove risorse, coinvolgendo il privato accreditato per offrire risposte immediate e concrete ai cittadini lombardi”, è stata la dichiarazione dell’assessore al Welfare in Lombardia Guido Bertolaso. Una norma, soprannominata super intramoenia, che regala ancora più spazio e più soldi al privato.
Ecco come funziona. Quando il paziente residente in Lombardia prenota una visita o un accertamento medico tramite Cup regionale (allo sportello, online o al telefono) l’ASST o la IRCCS pubblica, in caso di assenza di slot disponibili nei tempi previsti (cioè 72 ore per una prescrizione SSN con urgenza e 120 giorni per una programmabile), può indirizzare verso una struttura privata accreditata o un medico del sistema sanitario nazionale in libera professione al costo del solo ticket o gratis, se si ha diritto all’esenzione. A mettere la differenza e a iniettare ulteriore denaro pubblico all’interno del sistema privato, così, è la stessa Regione Lombardia.
Ma non solo. Attraverso la delibera, Regione Lombardia ha introdotto linee guida ufficiali e uno schema tipo di convenzione per permettere alle strutture pubbliche lombarde di stipulare accordi con enti di sanità integrativa (assicurazioni, fondi sanitari integrativi, mutue aziendali), ovvero un vero e proprio modello di attività aggiuntiva gestita dall’impresa sanitaria pubblica verso soggetti privati/assicurativi in modo organizzato e normato. Un’opera di massiccia privatizzazione mascherata da sistema pubblico, che ha l’effetto di favorire una sanità a doppia velocità (chi ha coperture integrative accede prima) e di togliere ulteriori risorse e personale da un pubblico già in forte crisi.
Il caso San Raffaele
Al privato, però, non va certo meglio. A dimostrarlo è il caso del San Raffaele, ospedale privato convenzionato fiore all’occhiello del berlusconismo che di recente, tra il 5 e il 7 dicembre, è stato protagonista di un episodio che ha mandato in tilt il reparto di Medicina ad alta intensità: secondo le prime ricostruzioni il
personale infermieristico (appaltato a una cooperativa esterna) non avrebbe infatti avuto le competenze adeguate per lavorare in un’area così delicata, causando errori nella somministrazione di farmaci, continue difficoltà nei protocolli di assistenza e il blocco degli accessi dal Pronto Soccorso, con tanto di trasferimento urgente di alcuni pazienti in altre aree della struttura.
Sul caso ora indaga la Procura di Milano. Ma resta l’evidenza di come anche un grande ospedale privato, che dal pubblico riceve parecchio denaro, soffra una cronica mancanza di infermieri e operatori qualificati. “L’elemento comune di tutto è la ricerca del massimo profitto e del risparmio”, ha dichiarato di recente a Fanpage.it Vittorio Agnoletto, esponente di Medicina Democratica e docente di Politica della Salute all’Università degli Studi di Milano. “È la prosecuzione della deriva di un servizio sanitario regionale composto da una fortissima presenza del privato, dove viene a mancare il ruolo di controllo fondamentale da parte dell’istituzione pubblica”.
(da Fanpage)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
SOCIALISTI E LIBERALI: “BASTA ADULARE TRUMP”
A quasi due settimane dalla pubblicazione dell’esplosiva Strategia di sicurezza
nazionale Usa, Ursula von der Leyen rompe gli indugi e risponde a tono a Donald Trump, pur evitando accuratamente di nominarlo.
«Non dobbiamo essere scioccati da ciò che altri dicono dell’Europa, ma non sarebbe la prima volta che teoremi sull’Ue si rivelano sbagliati», premette la presidente della Commissione Ue intervenendo al Parlamento europeo alla vigilia del vertice dei leader di fine anno che si apre domani a Bruxelles. Poi l’affondo sul terreno più caro a Trump, quello economico. «La Strategia Usa ha ragione a dire che l’Ue “ha peso una quota del Pil globale, dal 25% nel 1990 al 14% oggi”. Ma quello che non
c’è scritto è che gli Stati Uniti sono esattamente sullo stesso percorso – calando dal 22% del Pil globale nel 1990 al 14% oggi». La cruda annotazione serve nella testa di von der Leyen non per offendere Trump, se mai per ricordare che entrambe le sponde dell’Atlantico hanno visto i risultati di un colossale spostamento degli equilibri economici globali: «Nello stesso periodo la Cina è cresciuta dal 4 al 20% del Pil globale», ricorda von der Leyen.
Liberali e Socialisti all’attacco: «Basta appeasement con Trump»
La presidente della Commissione sorvola però sugli altri pesantissimi attacchi all’Europa che la Strategia Usa conteneva, e che i vertici della Casa Bianca e del mondo MAGA hanno poi brandito aggressivamente per giorni: l’idea che siano proprio le istituzioni Ue a «minare la libertà e la sovranità» nel continente e a soffocare la crescita con la loro burocrazia, l’idea che le norme Ue in particolare sulle piattaforme digitali portino alla «censura della libera espressione e soppressione delle opposizioni politiche», l’idea che così nel complesso l’Europa andrà incontro all’autodistruzione culturale. Glielo ricorda poco più tardi su tutte le furie la capogruppo europea dei Socialisti e Democratici Iratxe Garcìa Perez: «Von der Leyen, lei non ha detto una parola sulle minacce Usa, basta con la strategia dell’adulazione e dell’appeasement con gli autocrati, non ci porterà alla pace ma solo ad altri conflitti». Ma glielo rinfacciano pure i liberali di Renew, pur con tono meno iracondo: «La strategia dell’appeasement non funziona, non dobbiamo rompere le relazioni transatlantiche ma rifiutare la vassalizzazione», chiede
la capogruppo Valerie Hayer – vicinissima a Emmanuel Macron – alla presidente della Commissione ma pure ai leader dei 27riuniti da domani.
Von der Leyen fa slalom tra le mine di Trump e si concentra invece sulla lezione geopolitica d’insieme che deriva dall’abbandono americano dell’Europa scolpito nella Strategia, sommato al bellicismo russo. «Dobbiamo far fronte alla realtà di un modo diventato pericoloso e transazionale, di guerre e predatori». E in questo contesto l’Ue deve sapere che può contare solo più su se stessa. «Al Consiglio europeo di domani dobbiamo affermare che ci occupiamo della nostra strategia, dei nostri interessi e delle nostre priorità: è il momento dell’indipendenza dell’Europa», calca la mano von der Leyen. Gli applausi nell’Aula di Strasburgo sono timidi. «È realistico? Guardate a cosa abbiamo fatto – dall’energia alla difesa abbiamo già reso possibile l’impossibile, e siamo pronti a fare di più», sottolinea la presidente della Commissione ricordando la decisione presa dopo anni di fatiche sullo stop all’import di gas e petrolio dalla Russia, ma anche sulla pagina voltata sulla difesa e sullo sviluppo di nuove capacità per affrontare la guerra ibrida: «Stiamo muovendo montagne, trasformando la nostra base industriale. Abbiamo fatto di più per la difesa in un anno che in un decennio intero. Quest’anno abbiamo avviato investimenti per 800 miliardi di euro e il programma Safe (prestiti Ue agevolati per investimenti in difesa, ndr) è andato a ruba con 19 Paesi che hanno richiesto i fondi e molti che già ci chiedono di stanziarne di nuovi»
Dove di risorse fresche non ce ne sono invece è sulla difesa dell’Ucraina, lasciata di fatto sguarnita dall’azzeramento degli aiuti americani. Come sostenere Kiev nei prossimi due anni è il grande dilemma che dovranno (dovrebbero) sciogliere i capi di Stato e di governo dei 27 da domani a Bruxelles. La soluzione resta ancora lontana, con le resistenze a procedere sulla confisca dei beni russi congelati del Belgio, dell’Ungheria, della Bce, ma anche dell’Italia di Giorgia Meloni. L’altra carta almeno teoricamente sul tavolo, quella di creare un altro strumento di debito comune, pare politicamente ancora più complicata per l’opposizione dei Paesi frugali, Germania in testa. «Nel 2026-27 ci impegniamo a finanziare due terzi del fabbisogno di sostegno dell’Ucraina per 90 miliardi», ribadisce von der Leyen. «Ho proposto quindi due opzioni – una basata sugli asset, l’altra sul debito comune. Dovremo decidere quale usare, e lo dobbiamo fare in questo Consiglio europeo», sprona la leader tedesca, che sottolinea come i 27 la scorsa settimana siano già stati in grado di fare un passo importante immobilizzando a tempo indeterminato quegli oltre 200 miliardi di beni russi depositati in enti finanziari europei «sino a che la Russia non fermerà la guerra e si deciderà a ripagare l’Ucraina per i danni inflitti». Antonio Costa, presidente portoghese del Consiglio europeo, aveva promesso che i vertici sotto la sua gestione sarebbero durati un solo giorno, ma tra incertezze sugli asset russi e l’ulteriore «grana» sull’approvazione dell’accordo Ue-Mercosur che Italia e Francia minacciano di aprire il summit potrebbe trasformarsi in una maratona di due giorni, se non di più.
(da agenzie)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
ORA L’AMBASCIATORE RUSSO SI PRONUNCIA ANCHE SULLA COMPRAVENDITA DI UN GIORNALE ITALIANO…PARLARE A VANVERA DEI CAZZI DEGLI ALTRI E’ IL MALE DEL MILLENNIO
Che l’ambasciata russa si pronunci, non importa come, sulla compravendita di un giornale italiano, prima di essere inopportuno è assurdo. E anche molto ridicolo. È come se il Milan emettesse una nota sulla guerra in Ucraina; il Cern commentasse le qualificazioni agli europei di calcio; o Bankitalia dicesse la sua sul cast del Festival di Sanremo.
La sola reazione sensata, e meritata, è dire: ma tu, scusa, che c’entri? A che titolo parli? Perché commenti una cosa che non ti riguarda, che esula del tutto dalle tue competenze, dalle tue funzioni, dal tuo mestiere?
Sei qui per fare l’ambasciatore, mica l’influencer o il tiktoker o il sensale d’affari. Datti una regolata, diventa beneducato e formalmente ineccepibile (qualità di base richieste, da secoli, al corpo diplomatico) e non impicciarti di editoria, che già troppi se ne impicciano qui in Italia senza avere idea di che mestiere si tratti, pensa un po’ se c’era bisogno della noterella bizzarra del signor ambasciatore di un Paese nel quale scrivere e pubblicare è come fare il trapezista: una sfida estrema.
In un mondo fuori di testa, dove nessuno sembra più capace di rispettare gli ambiti e le competenze, ci si illude che soprattutto chi ha un ruolo istituzionale cerchi di svolgerlo portandone la responsabilità. Gli onori e gli oneri. I parlatori a vanvera sono già milioni, forse miliardi, i social sono intasati di fesserie digitate con incoscienza, e a rischio zero, da chi non sa nulla, ma giudica tutto. Se ci si mette pure un ambasciatore, per giunta del Paese più grande del mondo, non ci resta che sperare in un vaccino contro il vaniloquio. Parlare a vanvera è il male del millennio.
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
PER FARE CASSA PENALIZZATE LE USCITE ANTICIPATE E IL RISCATTO DEGLI ANNI DI LAUREA
Il governo Meloni doveva abolire la legge Fornero con Matteo Salvini nel ruolo di
alfiere. E invece, alla quarta legge di Bilancio, c’è la nemesi: fa cassa sulle pensioni per provare a dare qualche risposta alle imprese e accontentare Confindustria.
La sintesi del disastro meloniano è tutto nell’ennesimo emendamento alla legge di Bilancio, calato dall’alto per riscrivere pezzi portanti del provvedimento. Un testo che esce stravolto rispetto alla formulazione iniziale. Negli ultimi giorni c’è stata una sfilza di modifiche presentate dallo stesso ministero dell’Economia, guidato da Giancarlo Giorgetti.
Auto-bocciatura
Un’auto-bocciatura che ha lasciato esterrefatte le opposizioni, anche perché non si tratta della solita grandine di mancette che in genere appare nel corso del confronto.
«La legge di Bilancio, che abbiamo letto due mesi fa, non esiste più. Per fortuna hanno accolto alcune delle nostre critiche», dice a Domani Daniele Manca, capogruppo del Pd in commissione Bilancio al Senato. Se ogni manovra è difficile, quest’anno la destra si è superata.
Nel caos generale hanno almeno preso forma i 3,5 miliardi di euro promessi proprio da Giorgetti alle imprese per garantire il supporto a Transizione 5.0, l’iperammortamento, il finanziamento delle Zes e il fondo contro il caro-materiali. Per attingere alle risorse, il governo ha sostanzialmente rotto il salvadanaio del Pnrr, rimodulando – in pratica saccheggiando quel che resta del Piano.
La sorpresa arriva dal fatto che si poteva fare tutto fin da subito, prevedendo determinate misure, senza balletti last minute. Un modus operandi che lascia intendere la volontà della destra di agire con il “favore delle tenebre”, ossia con le votazioni in piena notte e in gran velocità con la scusa di dover evitare l’esercizio provvisorio. Una strategia utile anche a evitare qualsiasi dibattito nel merito. Ma che non è un modello di confronto, proprio mentre Fratelli d’Italia in piena celebrazione di Atreju ha esaltato “l’arena” di Castel Sant’Angelo, a Roma, come luogo di dialogo.
L’ultimo cortocircuito, il più clamoroso, è arrivato con le risorse drenate sulle pensioni, colpendo in particolare il riscatto della
laurea per un “risparmio” dello stato tra i 500 e i 600 milioni di euro. «Una mega fregatura per chi ha riscattato la laurea», l’ha definita senza mezzi termini la deputata del Pd, Maria Cecilia Guerra. Mentre il Movimento 5 stelle ha parlato di una «macelleria», annunciando «battaglia». Un fatto è certo: gradualmente, fino al 2035, sarà annullato il beneficio del riscatto per i laureati intenzionati a far valere il loro titolo di studio ai fini previdenziali. Intervento ancora più duro sul pensionamento anticipato: la “finestra” di tre mesi si allargherà da tre a quattro (per chi matura i requisiti nel 2032 e 2033).
Diventerà di cinque mesi per il biennio successivo con un beneficio per la casse statali di mezzo miliardo nel 2033, ma con una cifra che è destinata a triplicarsi, arrivando quasi al miliardo e mezzo, nel 2035. Ma oltre i numeri c’è la scelta politica di un governo che diceva di voler introdurre Quota 41 come principio per andare in pensione, ossia la possibilità di uscire da lavoro – in maniera anticipata – alla maturazione di 41 anni di contributi.
Appena poche settimane fa, il sottosegretario al Lavoro, il leghista Claudio Durigon, aveva promesso interventi per favorire il pensionamento anticipato. Al contrario la previdenza viene impiegata come un bancomat. Il governo «peggiora le condizioni, allunga i tempi, scarica i costi sulle spalle di chi lavora e di chi studia», ha detto il deputato di Alleanza verdi-sinistra, Angelo Bonellio.
Per il partito di Salvini c’è un altro elemento negativo: deve mandare giù pure la rimodulazione dei fondi stanziati per il Ponte sullo Stretto. Sull’opera, peraltro, sono giunte anche le
ulteriori motivazioni della Corte dei conti sulla bocciatura. «Dopo anni di slogan, la manovra chiude la propaganda e lascia Sicilia e Calabria senza risposte», ha commentato il senatore dei 5 stelle, Pietro Lorefice.
La linea leghista resta quella di minimizzare e tirare dritto con la promessa di provvedere ad aprire i cantieri «prima possibile».
Voto notturno e natalizio
Alla voce “impegni disattesi” sulla manovra, spicca quello sulla tempistica dell’iter. Il calendario prevedeva che il testo approdasse in aula al Senato il 15 dicembre, in quella data non c’era nemmeno stata una sola votazione in commissione Bilancio. Solo il 16 dicembre sono iniziati i primi voti sui temi comuni per avviare almeno un cammino che si annuncia ancora tortuoso. La seduta è stata aggiornata in attesa di avere un quadro più chiaro.
Uno scenario di improvvisazione che costringerà i senatori a maratone notturne per velocizzare l’esame e garantire il via libera dell’assemblea di palazzo Madama entro Natale.
Con questo timing, il testo arriverebbe di gran carriera alla Camera, che dovrebbe approvarlo tra il 29 sera e il 30 mattina molto probabilmente con la blindatura della fiducia. Fornendo l’ennesima immagine di un parlamento ridotto al ruolo di passacarte. A Montecitorio i deputati non hanno preso molto bene l’incartamento sulla manovra, benché molti avessero messo in conto il ritorno prima della notte di San Silvestro per “bollinare” la babele di norme firmata Giorgetti-Meloni.
(da La Repubblica)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
TRUMP UNISCE BRUTALITA’ E OTTUSITA’, UN MIX CHE LO PONE AL DI FUORI DEL GENERE UMANO
Sarebbe persino rassicurante liquidare le condoglianze aggressive di Trump – quelle in cui «saluta» il regista ucciso mortificandolo e dileggiandolo – come un nuovo genere letterario riferibile soltanto a lui. Trump unisce brutalità e ottusità, un mix difficilmente riscontrabile nello stesso essere umano, ma non è un cavaliere solitario. Interpreta, esasperandolo, lo spirito di un’epoca che ha dichiarato guerra alla gentilezza e considera la buona educazione una forma di ipocrisia. Il rispetto dovuto ai morti, per esempio: avversari politici compresi.
Davanti alla testa mozzata di Pompeo, Cesare ebbe un moto di ribrezzo e parole di solidarietà per il nemico assassinato. La morte azzerava tutto e anche chi non se la sentiva di tessere l’elogio del defunto rimaneva quantomeno in silenzio.
Ai trumpiani nell’animo tutto questo appare arcaico, fasullo, insincero. Se andavano d’accordo col morto, lo piangono in modo teatrale (ricordate i funerali di Charlie Kirk?), spargendo granelli di rabbia sulla loro retorica per non correre il rischio di passare per buoni. Se invece, come nel caso del regista di «Harry ti presento Sally», il de cuius aveva idee diverse, non nascondono il loro disprezzo né rinunciano alla tentazione di attribuire la sua fine alle sue opinioni.
Un impasto di vittimismo e senso di inferiorità: tu da vivo parlavi male di noi? E allora perché dovremmo piangerti o restarcene zitti?
Quelli come Trump nel nemico morto non vedono il morto. Vedono soltanto il nemico.
(da corriere.it)
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Dicembre 17th, 2025 Riccardo Fucile
PER RILANCIARE IL TRASPORTO PUBBLICO UN ABBONAMENTO NAZIONALE DA 60 EURO PER AUTOBUS E TRENI, 30 EURO PER I GIOVANI
Il premier spagnolo Pedro Sánchez ha annunciato oggi il lancio, a partire dal
prossimo gennaio, di un abbonamento unico per i trasporti pubblici (treni e bus) al prezzo di 60 euro al mese: il ticket permetterà di viaggiare in tutto il Paese sulle reti pendolari, di media percorrenza e nazionali.
Per i giovani sotto i 26 anni, il prezzo sarà dimezzato, a 30 euro al mese. Sánchez ha inoltre annunciato che gli sconti sui trasporti pubblici continueranno per tutto il 2026. “Si tratta di un impegno molto forte nei confronti della mobilità sostenibile e anche nei confronti della classe media e operaia”, ha affermato Sánchez.
Il leader iberico ha presentato il provvedimento come una misura destinata a incidere in modo strutturale sulle abitudini di mobilità, con l’obiettivo di rendere più semplice e conveniente spostarsi per lavoro o per esigenze quotidiane. L’abbonamento sarà valido sui treni regionali e suburbani e sulle principali linee nazionali di autobus, estendendo su scala statale un sistema finora frammentato.
L’annuncio arriva mentre l’esecutivo di coalizione, privo di una maggioranza parlamentare stabile, è sotto pressione per una serie di scandali che hanno coinvolto il PSOE e figure dell’entourage del premier, tra accuse di corruzione e segnalazioni di molestie sessuali. Le opposizioni chiedono lo scioglimento anticipato delle Cortes, ma Sánchez respinge l’ipotesi di elezioni prima del 2027, sostenendo che il Paese stia crescendo e che il governo
abbia ancora margini e responsabilità per intervenire.
In questo contesto, il nuovo abbonamento è stato presentato come una risposta diretta ai problemi concreti dei cittadini. Secondo le stime dell’esecutivo, la misura potrebbe ridurre fino al 60% le spese di trasporto per una parte dei lavoratori, coinvolgendo circa due milioni di persone. Un risparmio che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe tradursi in un sostegno tangibile al reddito e a una maggiore equità nell’accesso alla mobilità.
Il progetto si inserisce in una tendenza europea già avviata, sulla scia dell’esperienza tedesca, dove dal 2023 è in vigore un biglietto mensile valido su treni regionali e mezzi urbani. In Spagna, tuttavia, non sono ancora stati diffusi i dati sul costo complessivo dell’operazione per le finanze pubbliche.
Sánchez ha colto l’occasione anche per rispondere alle critiche politiche, rivendicando una linea di fermezza di fronte alle accuse che hanno colpito il suo partito e ribadendo l’impegno del governo nella lotta agli abusi e alle molestie. Alle pressioni per un voto anticipato, rilanciate nei giorni scorsi anche dal presidente della Conferenza episcopale spagnola, il premier ha risposto con un richiamo netto alla separazione tra sfera religiosa e politica.
(da agenzie)
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