Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
“LA DOMANDA CHIAVE RESTA UNA SOLA: TRUMP HA AVUTO RAPPORTI SESSUALI CON MINORENNI? PROBABILMENTE NON LO SAPREMO MAI. I DOCUMENTI SONO GESTITI DAL DIPARTIMENTO DELLA GIUSTIZIA DI TRUMP, E LA SUA PRIMA RESPONSABILITÀ È PROTEGGERLO” … “TRUMP E EPSTEIN SONO STATI MIGLIORI AMICI PER PIÙ DI 15 ANNI. FACEVANO TUTTO INSIEME: UNO DEI DUE È FINITO IN PRIGIONE CON UN LENZUOLO LEGATO AL COLLO, L’ALTRO ALLA CASA BIANCA. SPIEGATEMI QUESTA DIFFERENZA, IO NON CI RIESCO”
“La domanda chiave resta una sola: Donald Trump ha avuto rapporti sessuali con minorenni? Personalmente non lo so e non ho il nome di una ragazza da fare, però ne ho parlato a lungo con Jeffrey Epstein. Entrambi erano ossessionati dalla caccia alle modelle e posso garantirvi che non chiedevano i documenti d’identità».
Signor Wolff, lei è coinvolto personalmente in questa vicenda, perché consigliava il finanziere pedofilo e ora è in causa con la First Lady Melania. Cosa pensa dei documenti appena pubblicati
«Siamo entrati nella seconda o terza fase di questo scandalo, dove lo scopo non è stabilire la verità, ma usarlo a scopi politici».
Per questo sono uscite le foto di Bill Clinton?
«Ovviamente sì. I democratici vogliono incolpare Trump, e i repubblicani chiunque altro.
Andremo avanti e indietro così, senza una soluzione attendibile e definitiva».
Pensa ci siano informazioni compromettenti o imbarazzanti su Trump che sono state censurate?
«Probabilmente non lo sapremo mai, ma credo di sì, c’è una forte probabilità. I documenti sono gestiti dal dipartimento della Giustizia di Trump, e la sua prima responsabilità è proteggerlo».
Il movimento Maga si è molto agitato e spaccato per questa vicenda, incluse le dimissioni della deputata super-trumpiana Marjorie Taylor Greene. Non potrebbe ribellarsi, se ritenesse che la verità viene nascosta?
«Il movimento è in un angolo. Ha creduto a Trump, quando diceva di non avere alcun ruolo e di conoscere Epstein a malapena, ma ciò si è ovviamente rivelato falso. Ora, i Maga sono pronti a distruggere la persona al centro del loro movimento, pur di conoscere la verità su Epstein? Non ho la risposta definitiva, ma ne dubito».
All’interno del movimento Maga c’è solo una possibile frattura seria. Il vice presidente Vance è il favorito per la candidatura alla Casa Bianca del 2028, su Epstein è allineato con Trump e i suoi avversari potrebbero usare lo scandalo per deragliare la sua corsa».
Quindi questa storia resterà aperta?
«Assolutamente sì, almeno fino alle elezioni del 2028».
Vede nei documenti qualcosa che potrebbe cambiare la narrazione?
«Molte cose. Donald Trump e Jeffrey Epstein sono stati migliori amici per più di 15 anni. Facevano quasi tutto insieme: affari, caccia alle ragazze, arrampicate sociali. Erano in gran parte la stessa persona. Uno dei due è finito nella prigione più cupa degli Stati Uniti con un lenzuolo legato al collo, l’altro alla Casa Bianca. Spiegatemi questa differenza, io non ci riesco».
Crede che Epstein avesse informazioni compromettenti su Trump?
«Ne ho parlato a lungo con lui, penso di essere la persona che sa più di chiunque altro cosa pensasse Jeffrey di Donald, ne aveva un’immagine depravata. Suppongo che la domanda tecnica resti se Trump abbia avuto o meno rapporti sessuali con ragazze minorenni. Non lo so, ma non erano questi i termini in cui ne parlava lo stesso Epstein. Non ammetteva di avere rapporti con minorenni».
Quindi non sa la risposta, però potrebbe essere?
«Non ho il nome di una ragazza da fare, ma entrambi erano ossessionati dalla caccia alle modelle di ogni tipo, o delle aspiranti tali. E quale età hanno queste modelle? Fra 15 e 20 anni? Posso garantirvi che quei due non chiedevano il documento d’identità».
La First Lady Melania ha minacciato di farle una causa da un miliardo di dollari per diffamazione. Lei ha risposto con una causa preventiva basata sulla legge di New York chiamata Slapp, Strategic Lawsuits Against Public Participation, in cui l’accusa di
volerle tappare la bocca. A che punto siete?
«Io non ho diffamato la First Lady e non l’ho accusata di aver partecipato a reati. Ho solo detto che era a conoscenza del rapporto di amicizia che suo marito aveva con Epstein. La prossima settimana andremo in tribunale per ottenere la notifica della causa, e questo ci consentirà di chiamare i testimoni».
Anche il marito?
«Lui, e tutti coloro che all’epoca appartenevano al loro circolo sociale, e quindi erano a conoscenza del loro rapporto con Epstein».
(da “la Repubblica”)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
IL POST TRA MEMORIA POLITICA E CRITICA AL PARTITO ATTUALE
«I numeri parlano chiaro». Francesca Pascale affida a un lungo post su Instagram un
attacco frontale all’attuale Forza Italia e al sistema dei partiti fondato sul peso delle tessere.
L’attivista ed ex compagna di Silvio Berlusconi ha pubblicato una foto del 2008 che la ritrae giovane accanto a lui, assieme a un lungo testo che è insieme memoria politica e critica al partito di Forza Italia di oggi, guidato dal vicepremier Antonio Tajani. Pascale, che per anni è stata una figura centrale del cerchio berlusconiano, parte da un dato che descrive, senza giri di parole, «una sproporzione evidente».
Ovvero: «Forza Italia, con circa 250 mila iscritti, vale oggi l’8 per cento nei sondaggi, Fratelli d’Italia, con un numero di tesserati simile, arriva al 30 per cento, il Partito democratico, pur restando sotto le 200 mila tessere, supera il 20 per cento dei consensi». Numeri che raccontano, a suo avviso, partiti ripiegati su «dinamiche autoreferenziali, giochi di prestigio, piccoli e grandi feudi locali». Ma soprattutto, aggiunge, «raccontano poco del consenso reale, dell’opinione pubblica».
Il ricordo di Berlusconi
Nel post l’’attivista rievoca l’idea di politica che attribuisce a Berlusconi, quella di un partito non misurato dal conteggio delle tessere ma dalla capacità di parlare a mondi diversi e di tenerli insieme. «Silvio Berlusconi aveva una funzione precisa e rarissima: fare da ponte», scrive Pascale, ricordando una stagione in cui Forza Italia riusciva a unire «laici e cattolici, liberali e popolari, socialisti e repubblicani», mettendo attorno allo stesso tavolo politica e impresa senza steccati ideologici. Ed è in questo confronto con il passato che prende forma la critica al presente.
L’allontanamento dalle persone e dal consenso reale
Pascale insiste, inoltre, sul fatto che Berlusconi diffidava dei partiti costruiti sulle tessere perché consapevole dei meccanismi di potere che alimentano certe dinamiche malsane. E che ai suoi occhi, si legge tra le righe, avrebbe progressivamente svuotato anche Forza Italia della sua spinta originaria, allontanandola dalle persone e dal consenso reale. Il post non cita direttamente i vertici attuali del partito, ma il bersaglio è chiaro.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
MELONI INVITA SALVINI AD ABBASSARE I TONI
L’affondo è consegnato ai suoi fedelissimi. Lui, Matteo Salvini, resta nelle retrovie per tutto il giorno. Lontano da Giancarlo Giorgetti. Neppure una telefonata al “suo” ministro dell’Economia dopo le tensioni sulla manovra. Ma le prime linee del suo cerchio magico, loro sì che hanno parole da dire. Ruvide. Arrivano nelle ore in cui il titolare del Tesoro si presenta a Palazzo Madama per spiegare ai senatori della commissione Bilancio il nuovo maxi-emendamento che rimette in piedi la Finanziaria assaltata dai salviniani. Un salvataggio, per la controparte, dalla mina vagante della stretta sulla previdenza.
Ecco il messaggio a Giorgetti: «Va bene essere soddisfatti dei giudizi delle agenzie di rating o per lo spread ai minimi, ma i cittadini votano la Lega anche e soprattutto per salvare le pensioni». Sono le ragioni del consenso politico contrapposte a quelle della stabilità dei conti pubblici. Due visioni, due
“Leghe”. Il giudizio non si ferma qui. «Non possiamo tagliare la faccia ai nostri elettori, è inaccettabile», insistono gli uomini più vicini al capo di via Bellerio. È la prova che l’incidente sulle pensioni si è chiuso solo formalmente con la cancellazione della tagliola sul riscatto della laurea e le finestre mobili che il Mef aveva inserito nel “maxi” iniziale.
Passeggiando per i corridoi davanti alla commissione Bilancio, il frontman Massimiliano Romeo gongola. Così: «È tornato il celodurismo lombardo». Ecco la Lega delle origini, sfrontata e macha. Guidata da un Salvini ringalluzzito per l’assoluzione definitiva nel processo Open Arms e per la postura sulle questioni internazionali, da Kiev al decreto sulle armi.
Nello stesso corridoio di Palazzo Madama, il ministro dell’Economia si ferma a parlare con i cronisti con una postura decisamente più contenuta. L’amarezza per le accuse che il suo partito ha rivolto ai tecnici del Mef non è svanita. Ma a prevalere sono le ragioni della responsabilità. Non farà un passo indietro, anche se sulle dimissioni si lascia andare a una battuta: «Ci penso tutte le mattine, sarebbe la cosa più bella da fare», scherza dopo aver partecipato per qualche minuto ai lavori della commissione.
Però – precisa – «siccome è la ventinovesima legge di bilancio che faccio, so perfettamente come funziona e che molte cose sono naturali». Il riferimento è proprio alle frizioni delle ultime ore con i parlamentari leghisti. La priorità – è il ragionamento – è la manovra da portare a casa per aiutare le famiglie e le imprese. «A me – dice – interessa il prodotto finale».
Nel chiuso dell’aula della commissione avrà parole ancora più
esplicite. Esordisce scusandosi «per quello che è avvenuto». Ringrazia la maggioranza e le opposizioni «per aver reso questi supplementari» e – ironizza – «speriamo di non andare ai rigori». Poi il tono si fa serio: «Come si conviene, il ministro si assume tutte le responsabilità di quello che è accaduto».
Fa scudo ai funzionari del suo dicastero: «Non c’è responsabilità di strutture varie e quant’altro». Ma il messaggio più pesante arriva alla fine: «Credo – scandisce – che il sale della politica sia prendersi le responsabilità e non scaricarle sugli altri». Non cita Salvini, ma i fedelissimi del segretario della Lega identificano il destinatario del ragionamento proprio nel loro leader. Che ieri ha sentito anche Giorgia Meloni. Una telefonata che fonti leghiste definiscono cordiale. In ambienti di governo, invece, il giudizio è differente: la premier avrebbe invitato il suo vice a un comportamento più mite. La stessa sollecitazione è stata rivolta anche ad altri ministri. In tanti sono rimasti delusi dallo spazio concesso da Palazzo Chigi per le modifiche in Parlamento.
Ma la presidente del Consiglio è stata irreprensibile: basta rivendicazioni, soprattutto nei giorni in cui la legge di bilancio, incassato il via libera del Senato, dovrà correre verso la Camera per il via libera definitivo. Ma le richieste ministeriali che non sono riuscite a entrare nel perimetro della manovra sono tante. Alcune — è la promessa di Meloni – saranno ripescate in un decreto. L’anno prossimo. I giochi per il 2025 sono chiusi. Tutto spostato all’anno pre-elettorale. Prima il lucchetto alla quarta manovra e l’avvio della pratica per l’uscita anticipata dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo. È il bollino rosso da togliere via dai conti. Se l’impegno con i ministri è contenuto,
una ragione c’è: i margini nel 2026 saranno più ampi, ma non troppo. Un avviso a chi potrebbe pensare che è già scattato il liberi tutti.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
IL TESTO ALL’ESAME DEL CDM DEL 29 DICEMBRE
Niente armi «offensive» all’Ucraina. E via libera solo a forniture «difensive». A
proporre nelle ultime ore un vincolo tanto stringente è la Lega, per bocca del plenipotenziario salviniano al Copasir, Claudio Borghi. È lui a teorizzare la tagliola. Uno sgarbo a Kiev, che è poi anche segnale distensivo verso Vladimir Putin. Il pretesto è il prossimo decreto che garantisce per il 2026 copertura all’invio di materiale bellico all’Ucraina.
Il testo è ostaggio delle pretese leghiste. In queste stesse ore, tocca a Guido Crosetto provare a difendere la filosofia del provvedimento. Il titolare della Difesa fatica a comprendere il senso della pretesa. E vuole evitare che il Carroccio sterilizzi gli aiuti, costringendo l’Italia a mandare segnali quasi ammiccanti verso Mosca. Per lui, ad esempio, non ha molto senso distinguere tra armi offensive e difensive, perché quando si è sotto attacco nessuna arma può considerarsi offensiva: serve appunto a difendersi. A chi gli domanda del pressing della Lega, risponde così: «Non capisco cosa significa che l’Ucraina non può vincere la guerra. Io, come sa benissimo Borghi che mi ascolta da tre anni al Copasir, ho sempre detto che per la Russia vincere significa occupare pezzi di un’altra nazione, per l’Ucraina vincere significa sopravvivere ed impedire a Putin di schiacciarla completamente».
Il sostegno anche militare a Kiev è quindi doveroso, per il responsabile della Difesa. E deve significare anche soccorso militare, per far sì che la legge del più forte non schiacci una nazione sovrana. «Negli ultimi due anni – ricorda Crosetto sempre rivolgendosi al Carroccio – la Russia ha conquistato un 2% di territorio ucraino in più, costringendo al sacrificio più di
un milione di russi ed ucraini in questa folle contrapposizione che nessuno voleva. E a chi sostiene che l’Europa provocava, ricordo che l’Europa era diventata il partner economico di riferimento della Russia». Un’altra stoccata a Salvini, che reclamò a lungo la fine del regime sanzionatorio contro Mosca dopo l’invasione della Crimea.
Questa è dunque l’aria che si respira nell’esecutivo, alla vigilia del varo del decreto. Su Repubblica, Alfredo Mantovano ha annunciato che nel testo sarà indicata anche la natura civile degli aiuti a Kiev. Un compromesso che non sembra bastare alla Lega, che avanza richieste più radicali: «Si sta lavorando ad una discontinuità con i precedenti decreti armi – sostiene Claudio Borghi – Oltre agli aiuti civili, prioritari, l’ipotesi è continuare a supportare in più modi Kiev, ma indirizzarsi verso l’invio di strumentazioni solo difensive come i sistemi antiaerei e equipaggiamenti mirati alla difesa, a differenza di quanto è avvenuto finora».
È una “selezione” che difficilmente Giorgia Meloni potrà accettare. E che di certo Crosetto non sembra considerare ragionevole. Il tempo per approvare il decreto stringe, visto che esistono due soli consigli dei ministri a disposizione: lunedì 22 e lunedì 29 dicembre. L’orientamento è dare il via libera due giorni prima di Capodanno. Per avere tempo di limare ancora, per trattare. Sui social, il senatore dem Filippo Sensi sfida l’esecutivo: « Mi raccomando, Meloni: il decreto armi facciamolo tardi e vuoto, i morti non ne hanno più bisogno». A lui risponde proprio il ministro della Difesa: «Farlo il primo o il 29 dicembre non cambia nulla, perché entra immediatamente in
vigore e ci basta che lo sia il primo gennaio. Farlo più tardi possibile è solo un modo per avere più tempo per la conversione».
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
SENATORE DEM PROMETTE UN’INDAGINE SULLA DIVULGAZIONE DEI FILE EPSTEIN
Il democratico Dick Durbin, membro di spicco della commissione Giustizia del Senato americano, ha promesso di indagare sulla divulgazione dei file Epstein definendola “una violazione della legge”.
“Ieri avrebbe potuto essere una vittoria per le vittime e per la trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica. Non lo è stata. Dopo aver gestito in modo inadeguato i documenti di Epstein per tutto l’anno, l’amministrazione Trump sta ora violando la legge federale per proteggere i ricchi e i potenti”, ha attaccato il senatore.
“Ci è voluto un atto del Congresso per costringere Pam Bondi, Kash Patel e Dan Bongino a prendere in considerazione l’idea di rendere giustizia. Avevano una scelta: le vittime o Donald Trump. Hanno scelto quest’ultimo”, ha dichiarato Durbin. “I democratici della commissione Giustizia del Senato indagheranno su questa violazione della legge e si assicureranno che il popolo americano ne sia a conoscenza”, ha concluso
I democratici stanno affilando i coltelli contro il Dipartimento di Giustizia di Trump dopo che venerdì sono stati resi pubblici i documenti sul caso Epstein, in cui Trump è stranamente assente.
“Thomas Massie ed io stiamo redigendo gli articoli per l’impeachment e per oltraggio alla Corte”, ha dichiarato venerdì il deputato Ro Khanna, procuratore generale di Pam Bondi, durante il programma The Source con Kaitlin Collins. “Non abbiamo ancora deciso se procedere”.
Khanna, co-promotore dell’Epstein Files Transparency Act insieme al deputato repubblicano Thomas Massie, ha dichiarato che lui e Massie hanno messo nel mirino i vertici del Dipartimento di Giustizia dopo la pubblicazione venerdì dei documenti sul caso Epstein, pesantemente censurati e favorevoli alla Clinton.
Il rilascio non includeva tutti i fascicoli Epstein. Il viceprocuratore generale Todd Blanche ha affermato che nei prossimi giorni saranno resi pubblici altri documenti, in apparente violazione dell’Epstein Files Transparency Act, che richiedeva il rilascio di tutti i fascicoli entro il 19 dicembre. […]
Un tentativo di impeachment contro Bondi, Blanche e qualsiasi altro alto funzionario del Dipartimento di Giustizia metterebbe alla prova la lealtà dei repubblicani del Congresso, la maggior parte dei quali non ha firmato la petizione che ha costretto al voto sull’Epstein Files Transparency Act, ma ha votato quasi all’unanimità per approvarlo.
Il rilascio di venerdì è avvenuto dopo settimane di notizie secondo cui il Dipartimento di Giustizia stava cercando affannosamente di cancellare i file su Epstein senza una guida
legale adeguata.
L’Epstein Files Transparency Act stabilisce che il Dipartimento di Giustizia “è autorizzato a non divulgare alcune informazioni, come i dati personali delle vittime e il materiale che potrebbe compromettere un’indagine federale in corso”.
Inoltre, “entro 15 giorni dalla pubblicazione richiesta, il Dipartimento di Giustizia deve riferire al Congresso (1) tutte le categorie di informazioni divulgate e nascoste, (2) una sintesi di eventuali omissioni effettuate e (3) un elenco di tutti i funzionari governativi e le persone politicamente esposte citati o menzionati nei materiali pubblicati”.
Il comunicato diffuso venerdì dal Dipartimento di Giustizia includeva intere pagine di testo censurato e alcune fotografie in cui l’unica persona ritratta era stata oscurata. Le foto pubblicate ritraevano l’ex presidente Bill Clinton, 79 anni, e altre celebrità mentre festeggiavano con Epstein e donne censurate, sollevando interrogativi sulla selezione dei file pubblicati da parte del Dipartimento di Giustizia.
In particolare, il presidente Donald Trump, 79 anni, non appariva in nessuna delle fotografie pubblicate, nonostante la sua amicizia con Epstein fosse nota da anni. Le immagini della tenuta di Epstein, pubblicate dai Democratici della Commissione di Vigilanza della Camera una settimana prima della pubblicazione del Dipartimento di Giustizia di venerdì, mostravano diverse fotografie di Trump che festeggiava con giovani donne e fraternizzava con Epstein.
Le omissioni e le discrepanze tra il documento pubblicato venerdì e quello pubblicato dai democratici della commissione di
controllo hanno suscitato il sospetto bipartisan che il Dipartimento di Giustizia stesse facendo del suo meglio per proteggere Donald Trump e i suoi collaboratori, pur rispettando tecnicamente la legge.
Trump ha criticato aspramente la pubblicazione dei documenti su Epstein, descrivendola come una bufala dei democratici. Solo dopo che il Congresso ha votato a stragrande maggioranza a favore della loro pubblicazione, Trump ha firmato con riluttanza l’Epstein Files Transparency Act.
I vertici del Dipartimento di Giustizia, tra cui il procuratore generale Pam Bondi, 60 anni, e il direttore dell’FBI Kash Patel, 45 anni, hanno cercato per mesi di minimizzare l’importanza dei documenti su Epstein, con la Bondi che a giugno è arrivata addirittura ad affermare che la pubblicazione di ulteriori documenti non era “appropriata né giustificata”. Un mese dopo, sono emerse notizie secondo cui la Bondi avrebbe detto a Trump che il suo nome era presente nei documenti.
Patel, nel frattempo, ha scioccato i sopravvissuti di Epstein testimoniando davanti al Congresso che non c’erano prove che suggerissero che Epstein avesse trafficato donne per conto di qualcun altro oltre che per sé stesso.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
QUASI 4 SU 10 SONO FAVOREVOLI AL SUPPORTO ECONOMICO MA CONTRARI ALL’INVIO DI MILITARI
Gli italiani si chiedono sempre più spesso come andrà a finire la lunga guerra in
Ucraina. Un conflitto che, a quasi tre anni dall’inizio dell’invasione russa, continua a produrre un sentimento diffuso fatto di attesa e timore: attesa per capire come evolverà la situazione, timore per le possibili conseguenze, anche inattese, che potrebbero toccare direttamente il nostro Paese.
Non è un gioco di parole né un esercizio retorico: da quel febbraio 2022 nulla è più tornato davvero come prima, né in Europa né nel mondo.
Secondo il sondaggio di Only Numbers per la trasmissione Realpolitik, il 55,6% degli italiani è convinto che l’Italia debba continuare a sostenere l’Ucraina, ma si tratta di un dato tutt’altro che monolitico. Il 37,1% ritiene giusto supportare Volodymyr Zelensky, ponendo però un limite chiaro e invalicabile: nessun invio di soldati italiani sul terreno, i cosiddetti boots on the ground; un ulteriore 18,5% invece considera il sostegno un obbligo derivante dall’appartenenza alle alleanze internazionali, anche a rischio di un coinvolgimento diretto nel conflitto.
Su questo punto sul fronte opposto, emergono fratture politiche
significative. Il 64,9% degli elettori della Lega si dichiara contrario al sostegno all’Ucraina, posizione condivisa dal 40,0% dei sostenitori del Movimento 5 Stelle.
La guerra, dunque, continua a dividere non solo l’opinione pubblica, ma anche l’elettorato lungo linee sempre più identitarie e strategiche. A rendere il quadro ancora più complesso è la percezione della nostra sicurezza nazionale.
Un cittadino su due (50,0%) ritiene che le nostre Forze Armate e gli armamenti italiani non siano pronti né adeguati a difendere il Paese da un eventuale attacco. Quando si evocano scenari gravi -terrorismo, cyber-attacchi, crisi su larga scala- il giudizio diventa molto severo: mezzi insufficienti, burocrazia lenta, coordinamento carente tra politica e apparato istituzionale… Sicuramente in questo contesto pesa molto la narrazione mediatica e politica, che spesso descrive l’Italia come poco armata, poco preparata, capace soprattutto di improvvisare e reagire, più che di prevenire.
Una rappresentazione che tuttavia semplifica una realtà decisamente più complessa. Eppure, accanto a queste paure, emerge un dato che potrebbe sembrare contraddittorio: se solo il 30,5% degli italiani si dice convinto che il Paese sia realmente pronto a difendersi, le Forze Armate godono di un indice di fiducia pari al 61,3%.
Una fiducia che nasce dal contatto diretto, dalla presenza quotidiana sul territorio di carabinieri, polizia, esercito impegnato nelle “zone rosse” delle città, nel controllo, nella sicurezza e nella gestione delle emergenze. È una fiducia relazionale, costruita sull’esperienza concreta più che sulla
valutazione strategica. Nel confronto con altri Paesi europei -Germania, Francia, Spagna, Regno Unito- l’Italia non appare un’eccezione: la preoccupazione per la preparazione strategica è diffusa ovunque; tuttavia, nel nostro caso emerge una percezione più accentuata di vulnerabilità, come se il senso di fragilità fosse diventato un tratto distintivo. Questa apparente contraddizione racconta molto del momento storico che stiamo vivendo.
Gli italiani si fidano degli uomini e delle donne in divisa, ma faticano ad avere fiducia nel sistema nel suo insieme. È il segnale di una società che riconosce il valore del servizio e del sacrificio, ma chiede con forza una politica più chiara, più coesa e capace di visione. Di fronte a una guerra che tocca direttamente l’equilibrio europeo e mondiale, la politica italiana mostra invece tutta la sua difficoltà a essere compatta e strategica. Prevale spesso la divisione, la tentazione di usare il conflitto come terreno di scontro interno, più per mettere in difficoltà l’avversario che per costruire una posizione credibile e condivisa. Tuttavia, questo non è un gioco che riguarda solo chi aderisce a questo o a quel partito: è una responsabilità che coinvolge tutti, perché in gioco non c’è il consenso immediato, bensì la sicurezza collettiva.
Gli slogan sono semplici, evocativi, rassicuranti nel breve periodo. La protezione reale del cittadino, invece, è silenziosa, complessa, poco spendibile in campagna elettorale. Non porta applausi immediati né voti facili, ma esiste, ed è proprio quella che fa la differenza quando le crisi diventano realtà. E forse è da qui che dovrebbe ripartire il dibattito pubblico: dalla consapevolezza che la sicurezza non è una bandiera da
sventolare, ma una responsabilità da esercitare, anche quando non conviene.
Alessandra Ghisleri
(da lastampa.it)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
IL FILOSOFO: “SPAZI COME QUELLI SONO DI INTERESSE SOCIALE”
Le occupazioni? È stato un errore non regolarizzarle in passato. Massimo Cacciari è un filosofo, un saggista, un opinionista. Ma è anche stato sindaco di Venezia per due mandati. Le occupazioni le ha vissute e gestite.
A Torino è appena terminata la manifestazione di protesta contro lo sgombero del centro sociale Askatasuna. Ci sono stati ancora una volta scontri, peraltro ampiamente annunciati. Che cosa ci dice questo sulla situazione dei centri sociali in Italia?
«Nulla di nuovo. Gli sgomberi dei centri sociali sono sempre avvenuti e sempre avverranno con manifestazioni di protesta. Almeno finché ci saranno dei centri sociali in Italia. Ormai sono in calo rispetto al passato, rappresentavano una delle manifestazioni dei movimenti giovanili fino a qualche anno fa».
E vengono sgomberati. Ci sono stati diversi sgomberi a Roma, a Milano il Leoncavallo e ora a Torino Askatasuna.
«Si sgombera laddove prima le amministrazioni comunali non si siano invece cautelate anche dal rischio di manifestazioni, scontri, eccetera, sistemando le cose. Come feci io a Venezia».
E come fece a Venezia?
«Molto semplice. A chi voleva occupare dissi che gli edifici non si occupano. È, però, interesse anche della città che ci sia un centro di ricreazione, di discussione giovanile. Per realizzarlo il Comune deve fare un bando pubblico. A questo bando può partecipare chi vuole, di destra o di sinistra. Gli uffici competenti valutano, poi, tra i partecipanti chi corrisponde meglio ai requisiti previsti. In questo modo si trasforma il centro sociale in un organismo culturale di interesse sociale per la città. Questa era la cosa che andava fatta durante gli scorsi decenni. Credo che sia stata realizzata solo a Venezia».
Quindi lei non avrebbe firmato un patto come ha fatto il comune di Torino, andando oltre le irregolarità?
«Ho fatto quello che le ho detto, un bando in una sede che era irregolarmente occupata, dove in qualsiasi momento potevano crearsi problemi con l’illegittimo proprietario o anche con la Corte dei Conti. Può piacere o non piacere, ma sono situazioni irregolari. I comuni avevano tutte le possibilità di regolarizzarle, non lo hanno fatto ed hanno fatto malissimo».
Chi sostiene gli attivisti dei centri sociali, li descrive come bravi ragazzi che fanno solo politica, dicendo che sgomberarli significa imbavagliare il dissenso. È d’accordo?
«Sì, sono d’accordo, perché nella stragrande maggioranza dei casi, come per esempio qui a Milano al Leoncavallo, non solo non facevano male a nessuno, ma realizzavano qualcosa di positivo. Erano centri di aggregazione di alcuni settori giovanili in modo assolutamente pacifico, con dibattiti e discussioni, a cui qualche volta ho partecipato pure io. Ormai sono una minoranza che non ha più la forza e le dimensioni di qualche decennio fa, nel bene e nel male».
Quindi non andrebbero sgomberati. Ma allora come li si gestisce?
«Sgomberarli e basta è un errore. Dopo dove vanno, che cosa fanno? Mandarli via significa creare motivi di frustrazione, di dissenso, di polemica. E vuol dire rendere ancora più difficile la condizione giovanile nel nostro Paese. I luoghi occupati andrebbero regolarizzati, riconoscendo la funzione sociale che la gran parte di loro ha svolto in questi anni».
Una funzione sociale tradita in diverse occasioni da parte di Askatasuna, a partire dall’assalto alla redazione della Stampa a Torino.
«In questo caso ci stiamo riferendo a un aspetto diverso rispetto al discorso che ho appena fatto. Non si deve organizzare un assalto alle redazioni dei giornali, anche se sono giornali – tra virgolette – nemici. Sono comportamenti che non corrispondono neanche minimamente all’interesse di un centro sociale che voglia poi continuare a svolgere le sue attività culturali e politiche. Si rende, invece, soltanto più difficile la sopravvivenza del centro sociale, in particolare in una situazione generale, culturale e politica come l’attuale che non è certo la più favorevole né ai giovani in generale, né ai movimenti culturali e politici giovanili».
Il ministro degli Esteri Tajani la pensa come Pasolini. Parlando degli attivisti di Askatasuna ha ricordato che sono «figli di papà che se la prendono con i figli del popolo, che stanno lì a mantenere la libertà, a difendere la democrazia e la sicurezza dei cittadini». Che ne pensa?
«Tajani si vergogni anche a pronunciare solo il nome di Pasolini. Se desidera facciamo un confronto su chi è stato Pasolini, su che cosa ha scritto, cosa ha fatto, su come va interpretata anche la sua disperazione rispetto al crollo di determinate culture, di determinati valori nel nostro Paese. Il suo è un discorso contro i Tajani, non contro il movimento studentesco».
I militanti di CasaPound sostengono che loro non devono essere sgomberati perché non hanno nulla a che vedere con chi si rende protagonista di episodi di violenza.
«Direi che nel caso di CasaPound c’è un’area di rispetto».
(da La Stampa)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
A OTTOBRE ERA STATO SPESO APPENA IL 36,6% DEI FONDI ASSEGNATI DALL’EUROPA E NEGLI ULTIMI QUATTRO MESI LA MESSA A TERRA È AVANZATA SOLO DEL 2,3%
A otto mesi dalla fine del piano, scadenza entro la quale tutti gli obiettivi devono essere
raggiunti, lo stato di avanzamento delle misure del Pnrr per l’istruzione, e cioè per asili, scuola, università, è in «forte ritardo». Anzi, «in preoccupante ritardo».
Dai dati pubblici più aggiornati (ottobre 2025) resi noti dal governo, la percentuale di spesa effettuata, rispetto al finanziamento assegnato attraverso i fondi europei, è del 36,6%. E in 4 mesi, rispetto dunque al precedente aggiornamento del giugno 2025, è cresciuta solo del 2,3%. Si procede a lumaca.
A raccontare intoppi e lentezze è un report della Fondazione Agnelli realizzato con il contributo di Alberto Zanardi e Riccardo Secomandi (università di Bologna e Ferrara), che spiega anche quali siano gli ambiti in cui si è speso di più: borse di studio, scuole 4.0, laboratori, edilizia. E quelli in cui si è finora speso meno: nuovi linguaggi e competenze, didattica digitale.
Un caso a sé è la misura per gli studentati: la spesa risulta pari a zero. Con la revisione del piano, gli obiettivi sono stati dimezzati e il target è slittato dalla creazione di posti letto al trasferimento di risorse a gestori finanziari, insieme alla firma della concessione dei contributi ai beneficiari.
Quanto agli asili nido, in origine la misura più importante per scopi e stanziamenti, la percentuale di finanziamento per progetti in chiusura o già conclusi è, a livello nazionale, molto bassa; il 13%. «Un dato — dice Fondazione Agnelli — che rafforza il timore di non riuscire a costruire tutti i nuovi posti per l’infanzia entro giugno 2026».
E che mostra un’Italia a più velocità: il Nord sopra la media, il Lazio con appena il 6% di risorse assegnate ai progetti pronti o in arrivo e il Sud con oltre il 90% dei fondi per strutture da finire.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
IL 36% SBORSERA’ TRA I 100 E I 300 EURO PER I DONI, MENTRE IL 29% TRA I 300 E I 500 EURO – IL 31%, INVECE, SFRUTTERA’ LA TREDICESIMA PER INCREMENTARE IL RISPARMIO E IL 20% LA DESTINERÀ A BOLLETTE E PAGAMENTI ARRETRATI
Nelle tasche degli italiani sono arrivate 52,5 miliardi di tredicesime con un aumento dell’1,2 sul 2024 ma solo uno su due la userà per i regali, mentre cresce la quota di chi la destina al risparmio e alle spese obbligate. E’ quanto emerge da un sondaggio Ipsos Confesercenti sull’utilizzo della mensilità aggiuntiva per circa 36 milioni di italiani pensionati e dipendenti.
Il 50% indica i regali come destinazione prioritaria, con una punta nel Mezzogiorno (59%). Accanto ai doni, tengono le altre spese festive (22%) e i viaggi (23%). Ma cresce anche la componente prudenziale: il 31% userà la tredicesima per incrementare il risparmio e il 20% la destinerà a bollette e pagamenti arretrati.
A questa linea di cautela si affiancano altre spese obbligate e voci di gestione del bilancio: l’11% la userà per pagare mutui o finanziamenti e il 14% per la salute. Restano poi quote non trascurabili di utilizzo “funzionale”: il 21% indica spese per la casa, il 18% altri acquisti di beni o servizi e il 9% la destinerebbe a investimenti. Anche i saldi entrano già nei piani: il 27% prevede acquisti a gennaio usando risorse della tredicesima.
“La tredicesima – spiega Confesercenti- tiene insieme due Italie: quella che fa partire le spese di fine anno e quella che prova a mettere ordine nei conti. È un segnale chiaro: l’aumento dell’occupazione, da solo, non basta se i redditi reali restano compressi e il lavoro, dipendente e autonomo, continua a impoverirsi. Per rimettere in moto i consumi in modo stabile bisogna accelerare il recupero potere d’acquisto, riducendo il peso fiscale e sostenendo la contrattazione di qualità”.
Quali sono i regali e quanto si spende per Natale?
Dai risultati del sondaggio realizzato attraverso i social (352 rispondenti) da Confcommercio Milano, Monza, Lodi e Brianza, emerge che i soldi per la tredicesima verranno soprattutto impiegati (risposta multipla) per spese relative alla casa e alla famiglia, per i regali di Natale e per pagare tasse e bollette. […] Budget di spesa: tra i 100 e i 300 euro per il 36% e fra i 300 e i 500 euro per il 29%; meno di 100 euro per il 16% e tra i 500 e i 1.000 euro per il 15%. Il 4% spenderà oltre i 1.000 euro.
Dove si effettuano gli acquisti natalizi?
Su Internet per il 35%; nella distribuzione organizzata per il 30%; nei punti vendita di prossimità per il 29%, in outlet/spacci aziendali il 6%. Sempre dai risultati del sondaggio: il 91%
trascorrerà Natale prevalentemente nella propria abitazione (prima o seconda casa). Il 9% viaggia: in Italia (55%), all’estero (45%). Pranzo e cena di Natale sarà soprattutto a casa (92%), al ristorante l’8%.
(da .tg24.sky.it)
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