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PALAZZO CHIGI, LA PRIMA BANCA D’AFFARI DEL PAESE. L’ECONOMISTA ALESSANDRO PENATI: “INVECE DI VALORIZZARE I PROPRI INVESTIMENTI, PER POI RICOLLOCARLI SUL MERCATO GUADAGNANDOCI, SEMBRA CAPACE SOLO DI DISTRUGGERE VALORE”

IL CASO MPS: “LO STATO POTEVA INCASSARE UN MILIARDO VENDENDO IL SUO 11% SUL MERCATO; INVECE HA BENEDETTO L’INGRESSO DI DELFIN E CALTAGIRONE IN MPS PER POI LANCIARE ASSIEME UN’OPS SU MEDIOBANCA CHE HA FATTO SUBITO CROLLARE IL TITOLO: PER IL TESORO, UNA PERDITA POTENZIALE DI UN MILIARDO”… “CURIOSO CHE IL GOVERNO USI IL GOLDEN POWER CONTRO L’ITALIANA UNICREDIT, PER POI MANTENERE IL CONTROLLO ‘PUBBLICO’ DELLA RETE TIM COI CAPITALI DI TRE FONDI STRANIERI DI PRIVATE EQUITY”

Lo Stato italiano ha una presenza pervasiva nel capitale delle imprese che non ha eguali nel mondo. Vuole il controllo, ma senza avere i capitali.
Nomina i vertici delle società quotate in Borsa pur avendo quote di minoranza, come nei casi di Enel, Eni, Leonardo e tanti altri.
E quando non può sfruttare la quotazione si trasforma in banchiere d’affari per bypassare il mercato e stringere accordi con fondi di private equity (come in Autostrade con Blackstone e Macquarie) e con investitori sovrani (i cinesi di State Grid in Cdp Reti per Snam, Italgas e Terna).
Questo Governo ha impresso un’ulteriore espansione alla presenza pubblica nel mercato, facendo anche un salto di qualità con un uso estensivo quanto arbitrario del Golden Power indirizzando le operazioni a favore di un determinato gruppo: ha blindato il controllo di Tronchetti Provera su Pirelli, lo sta vagliando per UniCredit nell’offerta su Bpm, ha ventilato la minaccia per scoraggiare possibili iniziative di Credit Agricole, come quelle di Iliad e Cvc per Tim.
In questo modo la Borsa diventa ancora più asfittica perché l’attivismo del Governo e una partecipazione pubblica così pervasiva riduce la liquidità e l’attrattiva del mercato in quanto scoraggia gli investitori istituzionali che vedono molte decisioni rilevanti per il controllo prese a Palazzo Chigi piuttosto che dagli azionisti.
Un mercato asfittico è però un costo reale per il Paese: le imprese italiane che volessero raccogliere capitali per crescere o fare acquisizioni e fusioni, preferiscono quotarsi in una Borsa straniera, o fare ricorso al private equity o rimanere a controllo familiare.
Questo Governo sembra avere trasformato Palazzo Chigi in una banca di affari che invece di valorizzare i propri investimenti, per poi ricollocarli sul mercato guadagnandoci sembra capace solo di distruggere valore.
Prendiamo Mps: lo Stato poteva incassare un miliardo vendendo il suo 11 per cento sul mercato, aumentando così anche il flottante; invece ha benedetto l’ingresso di Delfin e Caltagirone in Mps per poi lanciare assieme un’Ops su Mediobanca che ha fatto subito crollare il titolo: per il Tesoro, una perdita potenziale di un miliardo.
Se poi l’offerta andasse in porto, Generali e Mediobanca, due delle poche public company rimaste dove prevalgono gli investitori istituzionali, si ritroverebbero invece con un gruppo di controllo che agisce assieme allo Stato azionista; ma se anche non avesse successo, con questa iniziativa il Governo non migliorerebbe certo la sua reputazione presso gli investitori stranieri, già danneggiata dal Decreto Capitali.
Il grande progetto di Palazzo Chigi Investment Bank (PC Bank) rimane però la creazione della società unica della rete a controllo pubblico; ma senza avere i capitali necessari.
Così, lo Stato ha fatto ricorso al fondo Macquarie per rilevare Enel in OpenFiber; poi a Kkr per comperare assieme al Mef e F2i la rete di Tim in FiberCop, e infine ad Asterion per comprare, assieme al Mef, Sparkle sempre da Tim.
Curioso che il Governo usi il Golden Power contro l’italiana UniCredit, per poi mantenere il controllo “pubblico” della rete coi capitali di tre fondi stranieri di private equity. Chiaramente l’obiettivo di PC Bank sarà quello di fondere le tre società (OpenFiber, FiberCop e Sparkle), diluire la partecipazione dei fondi che tipicamente cercano di liquidare in propri investimenti entro circa sette anni per remunerare i loro manager e investitori, immagino tramite una quotazione in Borsa, e permettere in questo modo allo Stato di arrivare al controllo di un’altra grande azienda
Il problema è che Kkr, come tutti i fondi di private equity, ha un obiettivo di rendimento elevato, ipotizzo intorno circa al 14 per cento (prima della leva): non conosco il business plan, ma lo riterrei difficile da raggiungere in una fusione con OpenFiber che ha 5,5 miliardi di debiti e, da notizie di stampa, ha perso 300 milioni su 550 di fatturato; non una fusione facile da negoziare visto che Macquarie ha gli stessi obiettivi di rendimento e lo Stato è socio di entrambi i fondi.
Eppure, in caso di fusione Kkr si è contrattualmente impegnata a pagare a TIM una maggiorazione di prezzo per la rete (earn-out) di ben 2,5 miliardi, circa 15 per cento in più del valore già pagato a Tim.
La spiegazione più convincente che riesco a trovare è in una nota a margine della presentazione di Tim in cui, illustrando la cessione della rete, si dice che l’earn-out dipenderà anche da “regulatory relief on prices” che tradotto significa tariffe più alte per tutti.
Se poi aggiungiamo che col Pnrr (che è debito pubblico) lo Stato ha dato a queste società oltre 5 miliardi per lo sviluppo di rete e 5G, viene da domandarsi quanto alla fine ci costerà questa rete unica; oltre a immobilizzare altri soldi pubblici solo per esercitare il controllo sull’ennesima partecipazione.
Senza contare che l’arrivo di Starlink di Musk potrebbe portare la connessione veloce a un costo inferiore alla rete, e che presto i satelliti a bassa orbita permetteranno il collegamento veloce direttamente coi cellulari (direct-to-video), riducendo in questo modo il valore della società della rete.
Senza la rete, Tim è di fatto una holding con tre società distinte: la divisione consumatori, i servizi alle imprese e il Brasile. Come tutte le holding Tim vale meno della somma delle parti anche perché la telefonia si fonderà probabilmente con un altro operatore riducendo la concorrenza, come nel resto d’Europa, che migliorerà in questo modo i margini; il Tesoro deve restituire a Tim un miliardo; e ci sono infine i 2,5 miliardi del possibile earn-out.
Naturale che la Borsa abbia festeggiato quando si è diffusa la notizia dell’interesse per Tim di un concorrente come Iliad e di un fondo come Cvc, facendo presagire un possibile break up futuro.
Ci si aspetterebbe che spetti ora gli azionisti privati di Tim decidere del suo futuro, avendo ceduto la rete come voleva il Governo: e invece no, perché la BC Bank ha bloccato ogni potenziale interesse di terzi per Tim ventilando il solito Golden Power, e al posto di vendere il suo residuo 10 per cento per fare cassa, creare flottante e rivitalizzare il titolo in Borsa, ha architettato lo scambio della quota di Cdp in Tim con quella di Poste in Nexi.
Quale sia la logica economica dello scambio non mi è chiara. Ma Golden Power e ingresso di Poste significano che lo Stato intende rimanere in Tim e che ogni riassetto futuro dovrà essere concordato col Governo, rendendo in questo modo il titolo meno attraente per gli investitori.
Lo stesso dicasi per Nexi dove con lo scambio, lo Stato (tramite Cdp), aumenta la sua quota al 18 per cento. L’ingresso dello Stato in Nexi risale a fine 2020 quando conferì Sia, la società di pagamenti a controllo pubblico, per creare un “campione nazionale” nel fintech. Da allora, però, Nexi ha perso quasi 70 per cento del proprio valore, anche a ragione della concentrazione dei ricavi in Italia (60 per cento) dove i consumi ristagnano: per lo Stato significa una perdita potenziale di circa 2,5 miliardi.
Nel tentativo di rilanciare Nexi, i suoi soci privati vorrebbero disfarsi di Sia restituendola a Cdp, ma a un quinto circa del suo valore di conferimento. Perdite su perdite. Cdp naturalmente non esce da questo investimento ma rimarrebbe in Nexi in vista di una possibile fusione con la francese Worldline, immagino con il pretesto di bilanciare la presenza dello Stato francese in quest’ultima.
Non che la presenza dei due Stati sia garanzia di creazione di valore: Stm, il nostro “gioiello” nei semiconduttori, partecipata da Francia e Italia, negli ultimi due anni di boom dei titoli tecnologici, ha perso quasi la metà del suo valore, 70 per cento in meno. Tanto il conto lo paghiamo noi.
(da Editoriale Domani)

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