L’ITALIA SOVRANISTA PERENNEMENTE CON IL PIEDE IN DUE SCARPE
TRA I DELIRI DI TRUMP SULL’EUROPA E LA QUINTA COLONNA DI PUTIN NEL GOVERNO, GIORGIA MELONI PATTINA SUL GHIACCIO
Il cortocircuito si manifesta mentre Volodymyr Zelensky entra a Palazzo Chigi e in
contemporanea le agenzie segnalano l’ultima intervista di Donald Trump a Politico. Il presidente Usa paragona il leader di Kiev al P. T. Barnum, il re degli spettacoli da circo, un venditore di fumo ineguagliabile che «ha convinto il disonesto Joe Biden a dargli 350 miliardi di dollari» finiti in cenere, visto «che il 25 per cento del suo Paese è scomparso». Insomma, Zelensky come un piazzista e chi lo ha ascoltato (e lo ascolta) come un illuso o peggio il complice di una guerra inutile. E tuttavia mai come adesso Meloni e il presidente ucraino avevano bisogno di una pubblica stretta di mano. Zelensky deve tenere Meloni nel fronte degli alleati europei, gli serve che faccia massa critica anche perché è consapevole che Washington la giudica un’amica.
Per Meloni è importante ribadire un ruolo di primo piano, ma anche confermare la vicinanza a Kiev nonostante gli evidenti problemi di questa fase. Le serve per motivi internazionali, per mantenere un ruolo nella frenetica azione diplomatica dell’Unione, ma soprattutto per rilucidare un valore che nelle ultime settimane è apparso un po’ appannato: la coerenza, elemento fondante del racconto della destra di governo.
Mai come adesso quel valore e quel racconto appaiono a rischio, perché lacerati da due scelte entrate all’improvviso in conflitto: l’amicizia assoluta con l’America e il sostegno alla resistenza di Kiev. Per tutta la presidenza Biden le due linee di condotta sono andate di pari passo, l’una ha generato e rafforzato l’altra. Essere amici di Kiev, dare armi a Kiev, sanzionare la Russia, denunciarne i crimini di guerra, equivaleva a ribadire ogni giorno la relazione speciale con gli Usa. Oggi lo schema è rovesciato. Armare, nutrire, sostenere l’Ucraina nella ricerca di una pace giusta significa scontentare la Casa Bianca, al punto
che la premier si è tenuta lontana da ogni giudizio sulla revisione europea del piano del presidente Trump, che ha tagliato i capitoli più palesemente punitivi per l’Ucraina. Come reagirà Trump alla controproposta? Nel dubbio, meglio prendere tempo.
Il problema è anche interno, perché Matteo Salvini stavolta potrebbe fare sul serio. La pubblicazione della nuova strategia di Sicurezza messa a punto da Washington lo ha ringalluzzito. Le critiche degli Usa all’Europa, la pioggia di dichiarazioni contro i suoi leader deboli e irresoluti, la dichiarata intenzione di sostenere i partiti sovranisti del Vecchio Continente e gli entusiasti applausi di Mosca al cambio di passo hanno riacceso le aspirazioni leaderistiche del Capitano. Proporsi come il Viktor Orban italiano, rispolverare il sovranismo muscolare dei bei tempi, presentarsi come l’uomo che, in virtù delle sue antiche relazioni, meglio può interpretare l’avvicinamento Usa alle istanze russe. Un’occasione fantastica per lui, un guaio di prima grandezza per il governo.
Così, le dichiarazioni assai sorvegliate del dopo-vertice confermano la sensazione che la premier italiana stia pattinando sul ghiaccio, esercizio nel quale peraltro è campionessa. Il presidente ucraino ringrazia per il «ruolo attivo dell’Italia nel processo di pace», esprime «gratitudine per il pacchetto di assistenza energetica», esalta il sostegno «alle famiglie ucraine, al nostro popolo, ai bambini», e insomma: nessun cenno ai temi-tabù, alle armi, alle speranze di una svolta per l’utilizzo dei 210 miliardi di beni russi bloccati dall’Europa. Sono argomenti che il governo italiano non può affrontare, non in questo momento. E anche la correzione del piano di pace americano è rimasta appesa
a una frase alquanto generica: Meloni, dice Zelensky, è stata informata, «coordiniamo gli sforzi», ma niente di più.
La giornata del cortocircuito, così, si conclude con un flash della premier che ribadisce l’importanza «dell’unità di vedute tra i partner di Usa ed Europa». È la formula che definiva l’Occidente di una volta, bene-rifugio di una destra che spera ancora di poter restare in equilibrio tra due Continenti sempre più lontani.
Può durare ancora un po’, ma entro dicembre si dovrà definire il decreto Ucraina (quello sulle forniture militari), e in tempi brevi decidere se utilizzare il pacchetto di 14 miliardi del pacchetto europeo Safe, e prima o poi si dovrà pur dare un giudizio sulla veemenza antieuropea dell’amministrazione Usa (siamo d’accordo o no? ), sull’esistenza di una guerra ibrida russa contro l’Unione (ci crediamo o no? ), sulla difesa comune dei Ventisette (la vogliamo costruire o no?). Restare in mezzo al guado diventa ogni giorno più difficile, e forse anche rischioso per il castello di relazioni e credibilità messo insieme con tanta fatica.
(da La Stampa)
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