“A SIGONELLA FU DIFESA LA SOVRANITÀ NAZIONALE CON UNA FERMEZZA CHE ERA MANCATA NELLA STORIA REPUBBLICANA PRECEDENTE E CHE RARAMENTE AVREMMO VISTO NEI QUARANT’ANNI SUCCESSIVI”
A 40 ANNI DALLO SCONTRO TRA ITALIA E STATI UNITI PER LA CATTURA DEI DIROTTATORI DELLA “ACHILLE LAURO”, GIULIANO AMATO RICORDA: “NON ERA UN’EPOCA IN CUI IL DIRITTO INTERNAZIONALE VALEVA FINO A UN CERTO PUNTO…LO FACEMMO VALERE FINO IN FONDO, NONOSTANTE LA PRUDENZA VERSO GLI AMERICANI SUGGERISSE DI ACCONSENTIRE ALLE LORO RICHIESTE”
“A Sigonella fu difesa la sovranità nazionale con una fermezza che era mancata nella storia repubblicana precedente e che raramente avremmo visto nei quarant’anni successivi. Non era un’epoca in cui il diritto internazionale valeva fino a un certo punto… Lo facemmo valere fino in fondo, nonostante la prudenza verso gli americani suggerisse di acconsentire alle loro richieste».
Da quel 12 ottobre del 1985, epilogo del braccio di ferro con Ronald Reagan nella crisi di Sigonella, è passata un’era geologica. Ma Giuliano Amato, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ripercorre nel dettaglio la vicenda
Come seppe del sequestro dell’Achille Lauro?
«Una telefonata del presidente Craxi nella notte: un gruppo di terroristi palestinesi teneva in ostaggio quattrocento civili nella nave da crociera italiana che navigava in acque egiziane. Convocai subito un consiglio di gabinetto con Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, e Giovanni Spadolini, ministro della Difesa. Ne faceva parte anche Renato Altissimo, ministro dell’Industria. E conoscendo le abitudini sue e di De Michelis, lo feci cercare a colpo sicuro al Tartarughino, lo storico piano bar di via Veneto».
Non fu una riunione sobria.
«Lasci perdere Altissimo, costretto a molti caffè. Rimasi colpito da Spadolini, che arrivò già attrezzato con un piano militare di assalto alla nave. Andreotti fu il primo a dire: andiamoci piano. E Craxi concordò che occorreva trovare una soluzione non rischiosa per i quattrocento ostaggi».
A quel tavolo si confrontavano due visioni politiche diverse: Craxi e Andreotti più dialoganti con i palestinesi, Spadolini filoisraeliano e vicino agli americani.
«Gli americani erano i guardiani del Mediterraneo, e del resto continuano a esserlo tuttora. Ma in quella fase ancora non si erano fatti vivi. Craxi pensò di rivolgersi ad Arafat. Si fidava di lui. E Arafat gli indicò come mediatore Abu Abbas, dicendosi sicuro che avrebbe raggiunto un accordo con i palestinesi a bordo. Ci credo! Era lui il regista dell’operazione, ma noi non lo sapevamo».
Possibile che uomini accorti come lei, Craxi, Andreotti, vi siate lasciati ingannare?
«Posso assicurare che nessun sospetto sfiorava Craxi. Forse gli faceva velo la sua amicizia con il leader dell’Olp».
La negoziazione sembrava arrivata al traguardo — liberi gli ostaggi, il salvacondotto per i sequestratori — quando giunse la notizia dell’uccisione a bordo di un passeggero.
«Ricordo come se fosse ieri l’improvviso pallore sul volto di Bettino. Nella sua stanza affacciata su via della Missione, ci preparavamo ad annunciare al Paese il successo italiano. Prima però, colto da una strana inquietudine, Craxi volle sentire al
telefono il comandante della nave De Rosa, il quale gli diede la notizia tenuta nascosta: i palestinesi avevano ammazzato l’ebreo americano Leon Klinghoffer. Una tragedia politica, oltre che umana. La conferenza stampa avrebbe mutato segno».
Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre i caccia statunitensi intercettano l’aereo egiziano su cui viaggiano i terroristi con i “mediatori”, costringendolo ad atterrare nella base militare di Sigonella.
«Craxi riceve una telefonata di Ronald Reagan. Tra loro il dissenso è totale. Il presidente americano vuole portare i palestinesi negli Usa perché la vittima è un americano; Craxi difende il diritto di processarli in Italia perché l’omicidio è avvenuto in una nave italiana».
Ma c’è anche la questione di Abu Abbas: gli americani lo ritengono colpevole.
«Craxi non ha elementi per giudicarlo tale. Ma, in ogni caso, è un affare che riguarda l’Italia. Nella notte parte l’ordine per il comando militare di Sigonella di accerchiare l’aereo egiziano. Contro i carabinieri e gli avieri italiani puntano le armi i soldati americani, composti in circolo alle spalle dei nostri. E poi, di seguito, si forma un terzo cerchio di militi armati. La scena è da film, ad alta tensione. Uno di quei carabinieri mi confessò la sua angoscia: aveva avuto paura di non uscirne vivo».
Il braccio di ferro viene vinto dall’Italia. Gli americani ufficialmente si ritirano.
«Solo ufficialmente, però. Io ero a Ciampino, con il consigliere Antonio Badini e Renato Ruggiero, quando sulla pista atterra l’aereo egiziano con i terroristi e anche Abu Abbas, scortato clandestinamente da un velivolo americano che si ferma a un passo dalla vetrata: l’ala sfiorava il salottino dove ci eravamo seduti nell’attesa. Ci fu tra noi uno sguardo d’intesa, sicuri bersagli dello spionaggio statunitense. Così ci accucciammo sotto le poltrone, continuando a confabulare sottovoce».
L’indomani lei avrebbe convocato un altro consiglio di gabinetto.
«Sì, nella notte l’ambasciatore americano Rabb aveva fatto avere a Martinazzoli quelle che riteneva le prove schiaccianti contro Abu Abbas, ma i magistrati del ministero della Giustizia non le ritennero sufficienti. Così lasciammo partire Abu Abbas a Belgrado e restituimmo finalmente a Mubarak l’aereo egiziano con il suo personale. Il giorno dopo Spadolini, che prudentemente si era sottratto a ogni decisione, provocò la crisi di governo».
L’episodio rappresentò un’eccezionalità nella storia italiana.
«A Sigonella fu difesa la sovranità nazionale con una fermezza che non s’era mai vista in un Paese uscito sconfitto dalla guerra e costretto a molti compromessi rimasti segreti. Una vicenda che avrebbe lasciato un segno nella storia italiana».
Allora il diritto internazionale non valeva fino a un certo punto. Che cosa pensa della recente affermazione del ministro degli Esteri?
«Beh, è un’affermazione giusta fino a un certo punto È una constatazione che — come tale — è irrefutabile: purtroppo il
punto fino al quale vale oggi il diritto internazionale è un punticino minuscolo. Però guai se noi oggi avalliamo questa vigenza così marginale».
Il fatto che le regole valgano poco non può essere un pretesto per non farle valere.
«È una delle cose più sconsolanti del nostro tempo. Trump è l’espressione più evidente della forza che sostituisce il diritto
È stata la protervia della sovranità degli Stati a smantellare progressivamente il diritto internazionale, a cominciare dalle Nazioni Unite».
(da La Repubblica)
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