ALLA CORTE DI MATTEO: TRA I DUE VICERE’ NASCONO LE PRIME CREPE
LE MANOVRE DELLA BOSCHI E DI LOTTI ALL’OMBRA DEL CAPO… DIVERSI COME IL GIORNO E LA NOTTE, CIASCUNO CON LE PROPRIE TRUPPE
Alla cena di festeggiamento per l’approvazione definitiva della legge elettorale Italicum, all’Enoteca Lazio in via Frattina, a cento metri da Palazzo Chigi, lunedì 4 maggio, Maria Elena Boschi non si è fatta vedere, era in tv da Lilli Gruber di rosso vestita, come nell’aula di Montecitorio.
A brindare al successo del governo, di Matteo Renzi e della ministra c’erano i giovani deputati renziani, renzianissimi, anzi, boschiani.
La scena si è ripetuta la sera dopo, il 5 maggio, a casa della deputata Lorenza Bonaccorsi: altra festa, altri brindisi. Viva l’Italicum.
Segno del potere assoluto di Renzi, destinato a durare per anni. Condiviso con due persone al mondo: la madrina della riforma, Maria Elena. E il sottosegretario Luca Lotti, l’altro ammesso nell’Appartamento, come viene chiamato in codice il perimetro blindato di Palazzo Chigi in cui vive e lavora il premier, in cui si organizzano accelerazioni, colpi di mano, manovre di accerchiamento, il divide et impera nel Pd che ha distrutto quel che restava dell’antica Ditta post-comunista.
Fatto l’Italicum, andranno fatti gli Italici.
Il futuro partito renziano per ora è una galassia, un magma di rapporti non strutturati, di sintonie e di ambizioni generazionali.
È una corte con al vertice il Principe di Rignano sull’Arno e ai lati monna Boschi da Laterina e messer Lotti da Montelupo fiorentino, lei alla sinistra, lui alla destra, destinati a diventare rivali, perchè se oggi tutti sono diventati renziani, toccherà distinguersi in futuro tra boschiani e lottiani.
Boschi e Lotti sono diversi come il giorno dalla notte.
Solare, radiosa lei, donna di cuori e di copertine, la front woman mediatica del renzismo, ben più di un semplice ministro, il volto esterno del governo, l’unica ad avere voce in capitolo sulle scelte del premier.
Misterioso lui, presenza inevitabile ma invisibile, una sola intervista in quattordici mesi, con “Repubblica”, per parlare del 25 aprile, intento a coltivare la sua immagine alla Frank Underwood, potere e riservatezza.
Quando ha da far sapere qualcosa affida le sue confidenze al “Foglio”, che ha pubblicato una sua rubrica quotidiana sui mondiali di calcio del 2014 e nel gennaio 2015 la lista del Nazareno, ovvero l’elenco dei grandi elettori del Pd divisi per gradi di fedeltà alla vigilia del voto sul Quirinale.
Gentile e tanto onesta pare la Boschi, nelle apparizioni tv e nelle cene private in cui figura come ospite d’onore, maleducato ma di talento Lotti più ancora del suo leader, nella ormai famosa definizione di Ferruccio de Bortoli.
La Boschi ama presentarsi come una secchiona, fasci di carte sottobraccio, laurea con 110 e lode, Lotti è diplomato allo scientifico e si vanta: «L’ultimo libro l’ho letto quando avevo 12 anni, alle medie».
Eppure ha la delega alle celebrazioni, dalla Liberazione alla Grande Guerra, e i professoroni di storia si scomodano per riunirsi con lui.
Ai banchi del governo lei siede accanto alla poltrona (vuota) del premier, intenta a digitare con il pollice la tastiera del nuovissimo iPhone, comprato in fretta e furia il 31 gennaio perchè il precedente era andato in tilt, quel giorno si eleggeva il presidente della Repubblica e fu una mezza tragedia per la ministra restare qualche minuto senza telefono, per lei è un’appendice esistenziale, un flusso di coscienza.
Lui, il Lotti, compare all’improvviso alle spalle dei ministri, come un vampiro, un dracula biondo, che abbraccia, avvolge, rinfaccia.
Seduttiva Maria Elena, ruvido Luca: i due volti del Capo.
Complementari, dunque, ma anche in sottile competizione, mai venuta finora allo scoperto. Quando Graziano Delrio si è trasferito da Palazzo Chigi al ministero delle Infrastrutture, la Boschi ha spinto per nominare al suo posto una donna ex Cgil, la vice-presidente del Senato Valeria Fedeli, invece l’ha spuntata Lotti con Claudio De Vincenti, ex bersaniano ma a prova di fedeltà governativa e senza l’ambizione del predecessore di cui i lottiani dicono: «Delrio esiste per Matteo come persona, come capocorrente del renzismo è nulla».
Ma nuovo segretario generale è stato nominato il capo di gabinetto della Boschi Paolo Aquilanti, Lotti aveva candidato il capo del Dipartimento per la politica economica Ferruccio Sepe, conosciuto al tavolo del Cipe, e più ancora puntava sul vice-segretario generale Raffaele Tiscar, toscano e ciellino.
Niente da fare, ha vinto la Boschi. Uno a uno, equilibrio perfetto.
Storia ripetuta in settimana sul voto di fiducia sull’Italicum: la Boschi era perplessa, era convinta che la maggioranza aveva i numeri per resistere al rischio dei franchi tiratori, Lotti invece ha sostenuto la linea dura di Renzi, procedere a passo di carica con i voti di fiducia.
Presa la decisione, però, la ministra si è trasformata nella più efficace paladina mediatica del colpo di mano renziano.
C’è chi, estremizzando, sostiene che, nel casino organizzato delle tribù del premier, il renzismo si traduca in questo: c’è la Boschi, c’è il Lotti, ci sono i loro uomini, le loro zone di influenza.
Il regno della Boschi è al terzo piano degli uffici del ministero delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento in largo Chigi, che affaccia su via del Corso e sulla sede del capo del governo.
Ogni martedì mattina si riunisce lo staff: il capo dell’ufficio legislativo Cristiano Ceresani, consigliere parlamentare, ex braccio destro del ministro Gaetano Quagliariello, il consigliere giuridico Massimo Rubechi, livornese, l’uomo che nell’ombra materialmente produce i testi delle riforme, i capi dipartimento, il portavoce Luca Di Bonaventura, il collaboratore Davide Ragone. Molto ascoltati i costituzionalisti Augusto Barbera e Stefano Ceccanti.
Il territorio privilegiato della ministra sono le aule parlamentari. La rete dei funzionari e dei consiglieri, i quarantenni che costituiscono il serbatoio dei nuovi commis renziani da inserire nei ministeri al posto dei consiglieri di Stato, la rete costruita negli anni dai Catricalà . Paolo Aquilanti, il nuovo vertice burocratico di Palazzo Chigi, è uno di loro: classe 1960, funzionario del Senato, l’inventore dell’emendamento canguro che ha permesso il voto del Senato sull’Italicum.
Alla Camera la Boschi può contare sul drappello di giovani deputati, renziani della prima ora, trentenni alla conquista di Roma: l’aretino Marco Donati, destinato a occuparsi del tesseramento del partito, Edoardo Fanucci di Montecatini, il forlivese Marco Di Maio, l’uomo dei numeri che monitora per conto della ministra gli umori dei parlamentari del Pd.
In occasione del voto finale a scrutinio segreto sull’Italicum aveva pronosticato 335 voti favorevoli, sono stati 334.
Boschiani sono il sottosegretario Ivan Scalfarotto e il neo-Pd ex Rifondazione e Sel Gennaro Migliore. Con Maria Elena si tengono in contatto via WhatsApp.
E le chat di gruppo si moltiplicano: c’è quella del governo, quella della segreteria del partito, le due dei deputati (Renziani e Parlamentari 2.0).
I renziani si riuniscono la sera nei locali intorno a Montecitorio: da Laganà in via dell’Orso, all’Osteria del Sostegno, a ParmAroma in piazza Rondanini. Cene informali in cui si lanciano le parole d’ordine da far arrivare al corpaccione dei gruppi parlamentari: la candidatura di Sergio Mattarella al Quirinale, la fiducia sull’Italicum.
Il tam tam parte a tavola e poi arriva sui cellulari.
Lotti è più felpato. A cena si fa vedere anche lui, ma si occupa del partito e del governo. Raccoglie i transfughi delle altre correnti e degli altri partiti.
Il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, l’uomo della riforma della Rai, era un fedelissimo di Dario Franceschini, oggi si proclama lottiano.
Lo stesso percorso del triestino Ettore Rosato, da Franceschini a devoto di Lotti, sarà ricompensato con il ruolo di capogruppo alla Camera.
È Lotti che sull’Italicum ha sfilato a Pier Luigi Bersani mezza corrente, il ministro Maurizio Martina, l’uomo dell’Expo, il milanese che fu pupillo di Filippo Penati Matteo Mauri, dopo aver convertito il presidente dell’Emilia Stefano Bonaccini e il sindaco di Bari Antonio Decaro.
È Lotti che curerà nelle prossime settimane al Senato il drappello di senatori amici di Denis Verdini pronti a soccorrere Renzi in caso di difficoltà . Il sottosegretario accumula posizioni e continua a collocare amici nei ministeri.
La new entry a Palazzo Chigi è Lorenzo Petretto, figlio dell’ex assessore al Bilancio della giunta Renzi, l’ennesimo fiorentino doc.
Lotti è il renziano che guarda a destra, scaltro nella campagna acquisti, la Boschi è attenta alla rive gauche.
«Lui è spietato, sembra D’Alema, lei è morbida, ricorda Veltroni», osserva un cultore delle stardust memories di Botteghe Oscure, indicando le piste di possibili divisioni.
Future, però. Perchè nel presente condividono le amicizie (i deputati toscani David Ermini, Dario Parrini, Francesco Bonifazi), le freddezze (non amano il gruppo romano ex rutelliano, compreso il ministro Paolo Gentiloni) e le antipatie (il sottosegretario Antonio Rughetti). Custodiscono la materia più rara in natura, la fiducia del premier Renzi.
Boschi e Lotti sono il governo nel governo, contano più di quasi tutti i ministri, sono il partito nel partito, superiori al numero due Lorenzo Guerini.
E sono il volto della fragilità più evidente di questi quattordici mesi di governo Renzi: l’impossibilità di costruire una classe dirigente che vada oltre la Corte fiorentina, l’impossibile (per ora) istituzionalizzazione di una leadership che continua a contare solo su se stessa.
E che va a sbattere su incidenti come la sentenza della Consulta sulle pensioni, almeno 5 miliardi di euro da trovare nelle prossime manovre.
Una sciagura per il governo Renzi, ma la sentenza è stata firmata dalla giudice Silvana Sciarra, votata dal Pd di Renzi e fortemente sponsorizzata dalla Boschi.
Per questo, dicono, dopo le elezioni regionali del 31 maggio la Corte dovrà trasformarsi in partito. Forse perfino con un nuovo nome: da Pd a Democratici, all’americana, anzi, alla toscana. Il Partito dell’Italicum.
Guidato da loro, s’intende: Matteo, Maria Elena e Luca. Il nuovo potere.
Marco Damilano
(da “L’Espresso”)
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