Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
LO SPETTRO DEL SORPASSO DI FDI SUL CARROCCIO: SE LE TRUPPE MELONIANE OTTENESSERO PIÙ VOTI, CHE FINE FAREBBE LA GIÀ FRAGILE LEADERSHIP DI SALVINI?
Delle sette province venete, Treviso non è la più ricca perché il primato è di Vicenza, né la più turistica visto che al primo posto c’è Venezia.
Non è nemmeno la più agricola, perché che il granaio del Veneto è Rovigo. Eppure la Marca ha in queste elezioni regionali il primato della politica, che la rende epicentro e contraddizione: ha dato i natali (entrambi sono nati a Conegliano) sia al candidato del centrosinistra – che di Treviso è stato anche acclamato sindaco – Giovanni Manildo, e al presidente uscente e oggi capolista della Lega, Luca Zaia.
Città dalle solide radici leghiste, tanto da essere ribattezzata negli anni Duemila «la città più leghista d’Italia» per le percentuali bulgare del partito, è stato sì il comune amministrato dal sindaco “sceriffo” Giancarlo Gentilini ma anche la città espugnata dal centrosinistra proprio da Manildo, in una storica vittoria proprio contro Gentilini.
Oggi, nell’elegante loggia dei Trecento adiacente a piazza Borsa che è lo storico luogo delle manifestazioni cittadine, si alternano i palchi del centrosinistra e quelli della Lega con Matteo Salvini, in queste settimane ormai trasferito quasi in pianta stabile in Veneto con il pretesto dell’avvicinarsi delle Olimpiadi Milano-Cortina.
Eppure, se la vittoria del candidato leghista Alberto Stefani è data per scontata, su una cosa il centrosinistra e il centrodestra sono concordi: queste elezioni regionali saranno lo spartiacque tra un il vecchio mondo a trazione zaiana che sta morendo e l’incognita di quello nuovo, i cui rapporti di forza saranno chiariti col voto. E in questo chiaroscuro, insegnano i classici, si nascondono i mostri
I fantasmi del centrodestraA destra, spiega un influente dirigente di Fratelli d’Italia della città, questa corsa sarà un «tutti contro tutti». Certo in superficie i voti serviranno tutti a far eleggere Stefani, ma verranno pesati e soprattutto fatti pesare dopo, in fase di costituzione della giunta. «E noi ci arriveremo avvelenati, perché avremmo potuto imporre un nostro candidato», viene spiegato.
Di questa tensione Treviso è perfetta rappresentazione. A due settimane dal voto alle regionali, Lega e Fratelli d’Italia in Comune hanno consumato la rottura. Da un lato i leghisti, capitanati dal sindaco Mario Conte, che vogliono ipotecare anche il prossimo candidato alla guida della città.
Dall’altra i meloniani, che accusano Conte di essere troppo lassista sul tema della sicurezza e, pur essendo in maggioranza, hanno pesantemente criticato l’amministrazione comunale definendola provocatoriamente «peggio di Manildo», rivendicando la settimana scorsa un proprio candidato per lo scranno più alto di Ca’ Sugana.
«Non si può governare Treviso durante la settimana e fare opposizione al sindaco nel weekend», ha tuonato la Lega, invitando FdI a far dimettere i suoi assessori. A guardar bene, però, c’è una ragione più profonda dietro questo scontro. Proprio il comune di Treviso è stato i teatro di un possibile “colpo di stato”: fallito, ma ben noto a chi ha voluto vederlo, con al centro proprio il nome del sindaco Conte. Uno che «se fosse nato a Modena sarebbe del Pd» secondo i dirigenti dem della città, ma anche «il sostituto ideale di Zaia» secondo molti leghisti della prima ora.
Ecco che allora, ben prima che il tavolo nazionale di centrodestra si accordasse e Salvini piazzasse il suo uomo come candidato presidente, un altro disegno era in opera. Se FdI avesse insistito per esprimere il candidato presidente, la Liga veneta avrebbe dato seguito alla sua minaccia di correre da sola. Di più, avrebbe costruito una alleanza inedita e territoriale Lega-Pd proprio
intorno alla candidatura “civica” di Conte. Fantapolitica oggi, pericolo reale secondo molte fonti locali fino a qualche mese fa.
Tanto più che, nei consigli comunali degli ultimi mesi, più di una convergenza è stata trovata tra leghisti e democratici. «Un’alleanza rosso-verde di draghiana memoria», l’ha ribattezzata il dirigente di FdI Fabio Crea, che da ultimo ha unito le forze propri per bocciare una mozione meloniana che proponeva di dedicare al conservatore Charlie Kirk una giornata ogni anno, in cui ricordarlo con un dibattito. Mozione bocciata grazie al no delle opposizioni e all’astensione della Lega e della lista Conte.
Eppure, Conte ha saputo interpretare il momento: Stefani ha individuato il suo uomo a Treviso nell’assessore Riccardo Barbisan e proprio con lui il sindaco sta facendo intensa campagna elettorale. Segno che le forze leghiste vanno comunque unite per evitare la debacle contro una FdI sempre più incattivita e con anche Forza Italia decisa a dare battaglia.
La campagna acquisti in casa di Alberto da Giussano, infatti, si è spinta fino a Treviso, dove ha arruolato l’ex leghista Toni Da Re. Ex sindaco di Vittorio Veneto ed ex europarlamentare, decano della politica locale, dopo 42 anni di militanza era stato espulso dal partito per dichiarazioni contro Salvini, ed è stato subito recuperato dal coordinatore azzurro Flavio Tosi, a sua volta ex leghista.
Ecco perché i risultati nella provincia di Treviso saranno interessanti: perfetto specchio delle divisioni che bruciano nella maggioranza, ridisegneranno i rapporti di forza interni.
Ecco perché nel centrosinistra trevigiano si respira aria di cambiamento. In ogni caso l’epoca Zaia è considerata alle spalle e la scelta di Manildo come sfidante – con largo anticipo rispetto alla combattuta candidatura di Stefani – viene considerata un successo della gestione del segretario regionale Andrea Martella, che è riuscito a tenere insieme l’alleanza più vasta possibile, da Azione al Movimento 5 stelle.
I sondaggi collocano l’ex sindaco intorno al 27 per cento, ma la speranza è che possa superare il 30: il doppio rispetto ad Attilio Lorenzoni cinque anni fa. Se così fosse, sarebbe la dimostrazione che anche in Veneto il centrosinistra sta iniziando a seminare qualcosa, anche in vista delle prossime comunali a Venezia.
«Manildo è stato capace di unire tutta l’opposizione e la nostra sarà una campagna tutta sul territorio: casa, giovani e sanità al primo posto. Problemi che ereditiamo dal governo Zaia, il cui principale lascito per la provincia è stata la costosissima Pedemontana», spiega il segretario dem cittadino e consigliere comunale Stefano Pelloni.
(da editorialedomani.it/)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
IL RISTORATORE DI MONTECATINI CHE INSULTA I TURISTI DI TAIWAN SUI SOCIAL, IL VIDEO ARRIVA ANCHE IN ESTREMO ORIENTE, A QUEL PUNTO TOGLIE IL VIDEO E DICE CHE AVEVA SCHERZATO
Sedici turisti taiwanesi entrano in una pizzeria a Montecatini Terme. Ordinano cinque
pizze e tre birre, si siedono tranquilli, iniziano a mangiare. Non immaginano che pochi istanti dopo diventeranno protagonisti inconsapevoli di un video virale sui social, destinato a scatenare una tempesta mediatica dall’Italia a Taiwan.
Il proprietario del locale, la «Pizzeria dal Pazzo», ha filmato il gruppo di turisti e, invece di rivolgersi a loro con una richiesta o un chiarimento, è partito all’attacco: «Cinesi di mer**!» e poi «Quei maledetti cinesi!». È lui stesso a pubblicare il video sui social del ristorante, salvo rimuoverlo successivamente, quando le reazioni indignate sono partite anche a Taiwan.
La scena finisce tra i social taiwanesi
Nel video, diventato virale sui social e ripreso da diversi media orientali, si vede il titolare Patrizio Pazzini riprendere con il cellulare un gruppo di turisti: «Da dove venite? Dalla Cina?», chiede. «Taiwan», risponde uno di loro. «Taiwan? Andatevene a fanc…!», replica il ristoratore, continuando poi a commentare in italiano: «Non capiscono nemmeno l’inglese!».
Le immagini mostrano chiaramente che i visitatori non stavano comprendendo la situazione e, inizialmente, non hanno colto il significato degli insulti. Alcuni hanno persino sorriso, convinti che si trattasse di un atteggiamento scherzoso del ristoratore. Chi ha visto il video dall’altra parte del mondo, invece, ha capito benissimo il tono e ha provveduto a tradurlo sui social.
Le scuse del titolare
Dopo la bufera social, Patrizio Pazzini ha deciso di pubblicare un secondo video, questa volta di scuse: «Chiedo scusa a tutto il popolo cinese per il video che ho fatto. Vi voglio bene, chiedo scusa anche a tutto il popolo di Taiwan, noi italiani siamo gente molto scherzosa. Forza Cina! Forza Taiwan!», afferma il titolare in un video su TikTok.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
A CHI LE FA NOTARE LA SUA SCARSA PRESENZA, LA 35ENNE FASCINA RISPONDE GELIDA: “FU SILVIO A DECIDERE CHE DOVESSI DIVENTARE DEPUTATA”
I pomeriggi, a Montecitorio, scorrono ormai avvolti in una noia mortale. Ma ogni tanto, diciamo ogni paio di mesi, il grande atrio liberty floreale, progettato alla fine dell’Ottocento dall’architetto palermitano Ernesto Basile, si rianima. Di colpo. Per magia. Che succede? C’è un passaparola che dilaga veloce tra occhiate incuriosite e mezze frasi. «Eccola, è tornata…». Chi? Ma come chi? Lei, l’onorevole Marta Fascina, la quasi vedova di Silvio Berlusconi.
Viene avanti a passi lenti, 35 anni stretti nel tailleur nero, con quel sorriso enigmatico e un pallore esaltato dal biondo platino dei suoi capelli. È un momento molto teatrale. Di solito è accompagnata da una personale e riverente scorta d’onore con le insegne di FI: ecco il sottosegretario Tullio Ferrante, il coordinatore della Lombardia Alessandro Sorte e Stefano Benigni, uno dei vice di Antonio Tajani.
Gli onori di casa, così, è costretto a farli il povero Paolo Barelli, un bravo capogruppo che ogni giorno sta lì a sbattersi per il bene del partito, ma che non può certo azzardarsi a rimproverare la sua collega, per qualche ora (di svago) che ha deciso di trascorrere lontana dalla routine, e dallo sfarzo, di Arcore. Perché lei è sempre pronta a gelarlo con la solita, tremenda frase: «Fu Silvio a decidere che dovessi diventare deputata».
Barelli vorrebbe dirle che, dall’inizio della legislatura, ha fatto però registrare appena il 6 per cento delle presenze, e che, spesso, manca pure alle riunioni della commissione Difesa, di cui volle restare, a tutti i costi, segretaria. Ma sorvola. Tanto lei è già in aula, per ritrovare il suo scranno, e l’ebrezza che provoca. Anche se la vera, grande emozione, dev’essere comunque scatenata dallo stipendio che ogni mese, puntualmente, le viene accreditato sul conto corrente, già reso pesante dalla (nota) eredità.
(da Corriere della Sera)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
SULLE ARMI A KIEV VOLANO STRACCI TRA IL PUTINIANO SALVINI E L’ATLANTISTA CROSETTO. E AL SENATO LA MAGGIORANZA DEPOSITA CIRCA 1.600 EMENDAMENTI PER MODIFICARE LA FINANZIARIA – “LA MANOVRA NON PIACE NEMMENO A LORO”, IRONIZZA IL CAPOGRUPPO DEM A PALAZZO MADAMA, FRANCESCO BOCCIA
Più il governo si sforza a sfoggiare l’immagine di unità, più i fatti dicono l’esatto
contrario. Basta lanciare un’occhiata alla grandinata di emendamenti alla manovra, presentati dalla stessa maggioranza. E ancora di più svetta nelle ultime ore la tensione
sull’invio di armi all’Ucraina. Proprio il rapporto con Kiev è tornato il terreno di scontro all’interno di due esponenti di spicco dell’esecutivo.
«Stanno emergendo scandali legati alla corruzione che coinvolgono il governo ucraino. Non vorrei che con quei soldi dei lavoratori, dei pensionati italiani si andasse ad alimentare ulteriore corruzione», ha detto il vicepremier e leader della Lega, Matteo Salvini, riferendosi a quanto sta accadendo in Ucraina. Provocando la gelida risposta del ministro della Difesa, Guido Crosetto: «Non giudico un paese per due corrotti, così come gli americani e gli inglesi, che sono sbarcati in Sicilia, non hanno giudicato l’Italia per la presenza della mafia».
I leghisti non hanno però incassato in silenzio. «Richiamare la mafia per descrivere le irregolarità contestate in Ucraina è un espediente retorico che confonde e depotenzia la richiesta fondamentale: fare luce sulla gestione degli aiuti italiani», ha replicato il deputato salviniano Nicola Ottaviani.
Un botta e risposta arrivato a poche ore dal comizio di Napoli, a sostegno del candidato presidente alle regionali, il meloniano Edmondo Cirielli. Ma ha il sapore della solita propaganda: «Fino a quando governiamo noi le ricette tardo comuniste, come la patrimoniale, non passeranno», ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, confermando il no alla tassa per i super ricchi, rilanciando tra le riforme il premierato, oltre alla riforma della separazione delle carriere.
Salvini ha ripetuto: il «fuori dalle palle a chi non rispetta le nostre tradizioni». Il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani ha
messo da parte le divisioni sulla legge di Bilancio: «Siamo sempre uniti», ha detto. E sulla manovra ha rilanciato: «Tutela quel ceto medio che lavora, non protesta e non fa gli scioperi della Cgil».
Mentre a Napoli andava in onda la sceneggiata unitaria, a Roma solo la destra aveva appena depositato circa 1.600 emendamenti per modificare la finanziaria, in esame in commissione Bilancio al Senato.
«Fossimo in Meloni e Giorgetti rifletteremmo molto su quanto sta succedendo», ha sottolineato il senatore del Pd, Daniele Manca. «Questa manovra non piace nemmeno alla maggioranza», ha sintetizzato il capogruppo dem a palazzo Madama, Francesco Boccia.
L’elenco di richieste avanzate dalla destra per cambiare la manovra è piuttosto lungo. Lo stesso partito della premier ha ingaggiato una nuova battaglia sulla sanatoria edilizia: «Saniamo quelle ingiustizie derivate dalla legge del 2003, quando ci furono persone che ebbero la possibilità di accedere alla sanatoria edilizia, mentre altri pur pagando ne rimasero fuori», ha detto il senatore di Fratelli d’Italia, Sergio Rastrelli. A seguire molti altri meloniani hanno rivendicato la proposta, tra cui il sottosegretario alle Infrastrutture, Antonio Iannone.
Duro il commento di Angelo Bonelli, deputato di Alleanza verdi-sinistra, che ha denunciato un doppio fine: «L’emendamento ha come unico scopo quello di raccogliere voti durante la campagna elettorale. Siamo di fronte a un vero e proprio voto di scambio». Sempre dai meloniani c’è stato
l’attacco per modificare il quadro sulla fast fashion, relativa ai prodotti provenienti dall’Asia.
Gli emendamenti hanno dato voce anche alle richieste, avanzate per giorni attraverso dichiarazioni stampa o post sui social. Compresa l’ultima trovata di Forza Italia sull’oro. «Non è una tassa, ma una mera rivalutazione volontaria dell’oro in monete o lingotti», ha specificato il deputato di FI, Maurizio Casasco, una delle menti dell’iniziativa.
Forza Italia ha poi riesumato il «bonus tombe», che prevede delle detrazioni per la ristrutturazione edilizia eseguiti su tombe, cappelle, sepolcri e manufatti cimiteriali in genere, realizzati su aree oggetto di concessione cimiteriale. L’aliquota sarebbe allineata agli interventi sulle seconde case. La Lega di Salvini ha fissato le proprie priorità, come lo stop all’aumento dell’aliquota per gli affitti brevi, trovandosi d’accordo con Forza Italia su questo punto.
Tra i vari emendamenti c’è anche quello sull’aumento dell’Irap per banche e assicurazioni, sfidando l’accordo che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva trovato proprio con gli istituti di credito
Ma non mancano iniziative singolari, un grande classico delle leggi di Bilancio, come la richiesta di un commissario straordinario per la realizzazione della nuova galleria di accesso a Maratea, in provincia di Potenza.
Al coro delle richieste si è unito Noi Moderati, il partito guidato da Maurizio Lupi, che ha messo in campo l’idea dell’Iva ridotta al 10 per cento sugli alimenti per cani e gatti, insieme a quella di
portare dal 21 al 15 per cento della cedolare secca per gli affitti a lungo termine.
Un mosaico che disegna le divisioni della destra. Eppure per giorni la premier Meloni ha fatto passare, in via informale e non solo, appelli alla responsabilità per evitare assalti alla diligenza del provvedimento. Missione fallita: la risposta è nei numeri. E negli scontri tra ministri e alleati.
(da ditorialedomani.it)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
LE GRAVI ACCUSE DEL CDA DELL’AZIENDA TRASPORTI VERSO L’EX PRESIDENTE NOMINATA DAL CENTRODESTRA AL CENTRO DELL’INDAGINE: “HA OCCULTATO LE PERDITE”
La Procura di Genova ha aperto un fascicolo di inchiesta sulla grave crisi di Amt per valutare possibili responsabilità penali nella gestione dei conti che hanno portato l’azienda a partecipazione pubblica sull’orlo del collasso.
Si tratta in questa primissima fase di un’inchiesta esplorativa, per vederci chiaro sulla gestione dell’azienda a partecipazione pubblica che gestisce il trasporto pubblico in tutta la città metropolitana.
La Procura in questi mesi ha seguito con attenzione l’evolversi della situazione dell’azienda, al centro di un dibattito spesso infuocato in consiglio comunale e non solo. Ma dopo le gravi accuse formulate dal nuovo consiglio di amministrazione di Amt alla ex presidente Ilaria Gavuglio (formalmente una lettera di contestazione disciplinare con sospensione dall’incarico di direttrice generale), ampiamente riportate dalla stampa, ha deciso che è arrivato il momento di approfondire.
Si tratta per il momento di un fascicolo aperto dal procuratore Nicola Piacente sulla base del cosiddetto ‘modello 45’, cioè senza indagati e senza un’ipotesi di reato, anche perché al momento – si apprende dal nono piano di palazzo di Giustizia – nessun esposto formale è stato presentato né dal nuovo Cda di Amt e neppure dal Comune di Genova e dagli altri soci dell’azienda. E sarà affidato nei prossimi giorni a uno dei pm specializzati in reati economici.
Ma potrebbe essere solo questione di tempo, visto che la lettera
del Cda sembra contenere anche ipotesi di responsabilità penale, a partire dalle false comunicazioni sociali visto che si parla di “violazione dei principi di corretta rappresentazione contabile, occultando le perdite e la conseguente riduzione del patrimonio netto”. La condotta di Gavuglio avrebbe determinato quindi una “rappresentazione artificiosa della situazione economica aziendale”.
Nella stessa lettera il Cda accusa fra l’altro l’ex presidente di “inerzia rispetto alle segnalazioni degli organi di controllo e alle richieste del Comune di Genova“. Il riferimento è agli allarmi del collegio sindacale che a luglio parlava di un possibile “deficit patrimoniale” oltre che “inadeguatezza dei flussi di cassa per far fronte alle obbligazioni di breve termine”, ma anche e soprattutto alle segnalazioni del Comune inviate già a partire da febbraio.
La relazione previsionale 2025-2027, infatti, era stata dichiarata “irricevibile” dalla direzione Partecipate di Tursi per ben due volte, a marzo e ad aprile, ancora prima delle elezioni. Sotto accusa in particolare la decisione di riportare in conto capitale i costi della politica tariffaria e l’iscrizione di ricavi per sanzioni incoerenti con i dati effettivi di incasso del 2024. Gli uffici invitavano perciò l’azienda a predisporre “un piano di medio termine di sostenibilità aziendale”, appello che sarebbe rimasto “totalmente inascoltato“.
Adesso comunque, mentre la nuova giunta (in particolare il vicesindaco Alessandro Terrile che ha la delega alle società partecipate) è ancora impegnata a recuperare le carte tra la
miriade di uffici che hanno trattato con Amt per tentare di dare un ordine al caos, è possibile che siano gli stessi pm ad acquisire documenti e bilanci (quello del 2024 non è stato mai chiuso né approvato) o a chiedere al Cda una relazione dettagliata.
A sollecitare l’interesse della Procura è probabilmente anche il fatto che il buco di Amt sia emerso in tutta la sua gravità solo dopo le elezioni, quando cioè il collegio sindacale ha parlato di una possibile crisi d’impresa mentre le casse dell’azienda erano già in pesante difficoltà. In particolare, in seguito alla due diligence commissionata dalla giunta Salis e consegnata a ottobre, la società di revisione Pwc ha evidenziato debiti per 158 milioni, un rosso in bilancio di 74,5 milioni nel 2024 e soprattutto un deficit patrimoniale nell’ordine dei 90-100 milioni, tecnicamente sintomo di un’azienda sull’orlo del fallimento.
(da Genova24)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
MA, DUE ANNI FA, IL CENTRODESTRA AVEVA DATO VIA LIBERA A UNA STANGATA FISCALE SULL’ORO DA INVESTIMENTO. L’ESATTO CONTRARIO DI QUANTO VORREBBE FARE ADESSO
Le vie dei condoni sono infinite. Lo sa bene il governo impegnato nel consueto forcing
di fine anno per tappare le falle di una legge di bilancio disperatamente a corto di risorse. Una toppa tira l’altra e l’ultima trovata dei partiti di maggioranza è la cosiddetta “tassa sull’oro”, una tassa che in realtà è un condono. Qualcosa che ricorda la voluntary disclosure di tremontiana memoria (nel senso di Giulio Tremonti) sui capitali (in nero) detenuti all’estero.
Le cronache di questi giorni raccontano che per raccogliere un paio di miliardi (stima di manica larghissima) sta per esser
inserita in manovra una norma che fissa al 12,5 per cento il prelievo fiscale sulla rivalutazione dell’oro da investimento (lingotti, placchette, monete, gettoni, piastre) di proprietà dei cittadini che non siano in grado di dimostrare, con i documenti del caso, a che prezzo abbiano acquistato questi valori.
Insomma, se la norma passerà, è in arrivo un nuovo scudo fiscale, uno scudo tutto d’oro questa volta. Va ricordato, infatti, che l’imposta sulle plusvalenze finanziarie è di regola pari al 26 per cento, con l’esclusione dei rendimenti dei titoli di stato tassati al 12,5 per cento.
Siamo alle solite, quindi. Pur di fare cassa, l’esecutivo è pronto a garantire un trattamento di favore a una particolare categoria di investitori. In questo caso, però, con il nuovo condono, un condono con il marchio di fabbrica di Forza Italia e Lega, il governo finirebbe per sconfessare sé stesso. Già, perché giusto due anni fa, con la legge di bilancio del 2024, il centrodestra aveva dato via libera a una stangata fiscale sull’oro da investimento. L’esatto contrario di quanto vorrebbe fare adesso.
Fino al 2023, il venditore di lingotti privo dei documenti d’acquisto era obbligato a pagare al fisco una tassa del 26 per cento su un valore calcolato a forfait e pari al 25 per cento dell’importo incassato. Nel 2024 arriva il primo dietro front. L’imposta resta al 26 per cento, ma viene calcolata sull’intero ricavo della vendita.
Quindi chi vende lingotti e incassa, poniamo, 100 mila euro oggi deve versare all’erario 26 mila euro, a meno che non sia in grado di esibire le carte che dimostrino a che prezzo ha comprato l’oro
messo in vendita.
Con la riforma in vigore dal 2024 il governo puntava a fare cassa sfruttando la forte rivalutazione del metallo giallo. Nella relazione tecnica della manovra approvata a fine 2023 si legge che a partire dal 2025 il Tesoro avrebbe dovuto incassare 196 milioni l’anno grazie alle nuove norme. Previsione azzeccata? Cifre precise sul gettito effettivo per ora non esistono.
Gli operatori del settore però sostengono che la stretta varata dall’esecutivo ha di fatto congelato il mercato e di conseguenza anche le imposte versate all’erario si sarebbero ridotte. Sta di fatto che il governo ha già cambiato rotta. Chi accetta di rivalutare i suoi lingotti pagherà solo il 12,5 per cento del loro valore attuale. Quest’ultimo, quindi, diventerà il prezzo d’acquisto su cui calcolare l’eventuale plusvalenza in caso di futura vendita.
A questo punto resta da capire chi accetterà di autosegnalarsi al fisco come proprietario di attività in oro. Non è detto che la microimposta al 12,5 per cento si riveli un’esca efficace.
(da “Domani”)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
SULLA PATRIMONIALE: “NON SI DOVREBBE AVERE UN APPROCCIO IDEOLOGICO. SEMMAI OCCORRE CHIARIRE COSA FARE DEL POTERE MONOPOLISTICO E AUTORITARIO DELLE BIG TECH”
Ce l’ha con gli scettici, Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci e padre nobile della sinistra. I disfattisti che non aiutano la costruzione dell’alternativa.
A che punto è la notte del campo largo, Occhetto? Lei la vede l’alternativa a questo governo?
«Io comincio a intravedere nella società un’articolata e sempre più forte avversione alle politiche economiche e sociali del governo. E mi sembra che le varie sinistre, anche quelle più moderate, siano in campo e lottino, sia pure tra molte difficoltà. Per questo non concordo con il diffondersi di un generico scetticismo che fornisce solo vaghe allusioni e illusioni politiciste»
Quindi pensa che il centrosinistra sia pronto a battere la destra?
«C’è ancora un colpevole ritardo nel presentare, hic et nunc, una proposta unitaria di governo e nell’assumere davanti al Paese un esplicito impegno a correre insieme alle prossime elezioni nazionali. E ciò perché non si è ancora capita la gravità di un frangente storico che sta minando i valori fondamentali. Ci sono momenti inderogabili in cui la fantasia politica può aiutare i
diversi a trovare le ragioni di uno sforzo comune, volto a salvare la democrazia».
Il governo Meloni sta mettendo in discussione la democrazia?
«Alcuni dei principi costituzionali, a partire dall’equilibrio fra i poteri dello Stato, sono sotto attacco. Per cui il mio consiglio è: si apra subito il cantiere del programma per concordare i punti su cui impegnarsi in modo unitario, e quelli su cui invece mantenere sensibilità proprie.
Avendo ben chiare due cose: un programma di governo non può contenere tutte le aspirazioni di ciascuna forza politica. E deve definire le priorità. L’anello da afferrare saldamente è il tema della centralità del lavoro, collegato alla redistribuzione della ricchezza, per abbracciare in un unico destino i miserabili e i dimenticati, assieme al lavoro materiale e intellettuale sempre più povero, al ceto medio declassato, al mondo produttivo e delle imprese».
Ergo, la testardamente unitaria Elly Schlein è sulla strada giusta?
«Credo che l’unità dovrebbe essere ambizione comune a tutte le forze del progresso militante. Da più parti si sottovalutano i rischi crescenti che stiamo correndo su scala europea e mondiale. Il Pd dovrebbe far comprendere a tutti che in gioco non è l’alternativa di sinistra, ma un’ampia “alleanza democratica” a tutela dello Stato di diritto».
L’asse Pd-Avs ha rilanciato la patrimoniale stile Mamdani. Ma così non si spaventano gli elettori?
«Io credo che sulla patrimoniale non si dovrebbe avere un approccio ideologico e mettere subito mano alla pistola.
Sappiamo che esiste anche in Paesi conservatori. Semmai occorrerebbe chiarire cosa vogliamo fare del potere monopolistico e autoritario delle Big Tech, dei grandi profitti investiti nelle rendite e se del bilancio statale devono continuare a farsi carico principalmente i lavoratori e il ceto medio. Poi la si chiami come si vuole».
Nell’area moderata che guarda al Pd si agitano in tanti: chi dovrebbe guidarla? Sala, Ruffini, Onorato?
«Non intendo entrare nel carosello del toto-nomi, non mi sembra serio. Tuttavia concordo — come dicevo — sulla necessità di una “vasta alleanza”, sociale e politica, i cui confini non sono definibili da alcuna aprioristica esclusione o inclusione, bensì dal programma. Né rintracciabili nella ricerca infantile e salvifica del capo».
Nello schema del “tutti dentro”, Giuseppe Conte non rischia di diventare il Bertinotti di Schlein?
«Questa è una domanda che dileggia al contempo Conte, Bertinotti e Schlein, pertanto mi diverte, ma non rispondo».
A chi tocca la leadership della coalizione di centrosinistra?
«La difficoltà sta nel fatto che non si sa quale metodo adottare. La destra ha un leader riconosciuto, anche se con riluttanza da Salvini, perché ha stabilito che è il capo del partito più votato. La sinistra non l’ha ancora accettato. Ma così non se ne esce. Dovrebbero diventare tutti maggiorenni.
Avere lo spirito dei federatori. Per me, se si opta per il leader di uno dei partiti in lizza, il modello non può che essere quello del tutto razionale della destra. Quindi, si riuniscano al più presto e,
se non concordano sul metodo, allora decidano di concordare su un altro candidato. Se non sono d’accordo nemmeno su questo, si torna al modello della destra. C’è un’altra soluzione? Sarei felice di conoscerla. Insistere coi ballon d’essai mi sembra ridicolo. Una pacchia per gli avversari!».
C’è chi dice che servirebbe un outsider. A lei Silvia Salis piace?
«Certo, è molto capace e ha un grande istinto politico. Ma, a domanda, ha già spiegato che intende fare il sindaco di Genova. E non ho motivo di credere che la sua fosse una risposta diplomatica».
Se la sente di scommettere sulla vittoria progressista alle Politiche?
«Sì se diventiamo tutti più responsabili; se invece continuiamo a scannarci tra democratici sarà impossibile. Spero che lo spirito dei federatori illumini quella che io non chiamo campo largo, ma ampia alleanza democratica».
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
QUESTIONARIO OBBLIGATORIO A 18 ANNI, CON POSSIBILE OBBLIGO SE MANCANO RECLUTE
La Germania sta per reintrodurre un nuovo modello di servizio militare che segna una
svolta rispetto alla leva obbligatoriaabolita ormai più di dieci anni fa. Il governo di coalizione guidato da Friedrich Merz ha raggiunto un accordo su un sistema che punta a rafforzare sensibilmente la Bundeswehr, giudicata oggi troppo ridimensionata rispetto agli obiettivi di sicurezza che Berlino ritiene necessari.
Il questionario e la visita medica obbligatori
Il nuovo impianto si fonda su un percorso in due fasi. La prima prevede che, già dal prossimo anno, tutti i diciottenni ricevano un questionario con cui indicare disponibilità e competenze utili al servizio militare. Per gli uomini la compilazione sarà obbligatoria, mentre per le donne resterà facoltativa, pur essendo incoraggiate a partecipare. L’intento è di costruire una mappatura accurata del potenziale umano su cui la Germania potrà contare nei prossimi anni, individuando non solo attitudini operative ma anche capacità tecniche e professionali utili alla difesa.
La seconda fase scatterà nel luglio 2027: tutti i diciottenni di sesso maschile dovranno sottoporsi a una visita medica obbligatoria per accertarne l’idoneità. Anche qui la partecipazione delle ragazze sarà su base volontaria. L’insieme di questionari e valutazioni sanitarie comporrà un archivio nazionale attraverso il quale le forze armate potranno selezionare più facilmente i candidati adatti, sia in condizioni di normalità sia in situazioni di emergenza che richiedano un incremento rapido degli effettivi.
L’obiettivo: passare da 182.ooo a 260.000 soldati
L’obiettivo politico è piuttosto ambizioso. Oggi la Bundeswehr conta circa 182.000 soldati; il governo punta a un aumento significativo già nel giro di un anno e a raggiungere una forza complessiva tra i 255.000 e i 260.000 militari nell’arco di un decennio, affiancati da un corpo di riservisti molto più strutturato. Si tratta di un passo che si inserisce nella strategia dichiarata da Berlino: trasformare l’esercito tedesco nella principale forza convenzionale europea. Un obiettivo che, secondo diversi osservatori e figure di primo piano dell’industria della difesa, appare concretamente alla portata.
Non torna la leva obbligatori (per ora)
Il piano non sancisce un ritorno immediato alla coscrizione obbligatoria. La volontarietà resta la porta d’ingresso principale, anche se il governo non esclude la possibilità di introdurre una forma di arruolamento forzato qualora il numero di candidati risultasse insufficiente. È una clausola che molti osservatori interpretano come un meccanismo di sicurezza, pensato per garantire prontezza operativa in un contesto internazionale segnato dall’aggressione russa all’Ucraina e da una crescente pressione all’interno della Nato per aumentare le capacità difensive.
Il contesto in cui nasce la riforma è profondamente mutato. Per anni la Germania aveva ridotto la spesa militare, confidando in un clima di stabilità internazionale che oggi appare lontanissimo. L’invasione dell’Ucraina ha ribaltato le priorità e spinto Berlino a dichiarare che la regola guida per la propria sicurezza dovrà essere “fare tutto ciò che serve”. Parallelamente, l’industria della difesa tedesca sta vivendo un’espansione significativa,
§accompagnando la volontà del governo di modernizzare equipaggiamenti, tecnologie e infrastrutture militari.
(da Fanpage)
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Novembre 15th, 2025 Riccardo Fucile
NONOSTANTE SIA STATA SFIDUCIATA DAL CONSIGLIO REGIONALE (CON 19 FRANCHI TIRATORI DELLA MAGGIORANZA STESSA) CONTINUA A RESTARE AL SUO POSTO
Non si fermano le polemiche per la sottosegretaria allo Sport di Regione Lombardia Federica Picchi. Nelle scorse settimane, l’esponente di Fratelli d’Italia è stata attaccata e sfiduciata dopo la pubblicazione di alcune storie Instagram in cui condivideva evidenti posizioni No-Vax. Nonostante la mozione, il presidente di Regione Attilio Fontana ha deciso di mantenerla nella sua
posizione. Nelle ultime ore è però spuntato un altro tweet, datato settembre 2021, in cui la sottosegretaria esprimeva disappunto per la campagna vaccinale anti Covid rivolta alle donne in gravidanza.
Il tweet di settembre 2021 sul profilo Federica Picchi
A scovare il tweet è stato nuovamente il Partito democratico lombardo, che ha evidenziato come già all’epoca Picchi condividesse posizioni anti vaccini. La sottosegretaria si è difesa affermando di non capire a quale profilo ci si riferisca, poi però ha spiegato che quello non è un account ufficiale e che non vi sono nemmeno le spunte blu e poi ancora che non è un account aggiornato. Confusione a parte, su X è ancora possibile rintracciare il profilo – che risulta inattivo proprio dal 2021 – a cui fa riferimento il Pd e trovare subito il tweet contestato. Ecco, cosa c’è scritto:
Alla luce di tutto questo, il capogruppo Pd in Consiglio Regionale, Pierfrancesco Majorino, ha quindi chiesto ancora una volta al presidente Fontana di revocarle l’incarico: “Possiamo permetterci, proprio in Lombardia, di avere in Giunta persone con queste posizioni?”. Dal canto suo, Picchi si è difesa sostenendo di credere nella sanità e di non avere alcun dissidio né con Fontana né con l’assessore al Welfare, Guido Bertolaso, promotore proprio della campagna vaccinale dell’epoca per le donne in gravidanza: “Comunque la mia posizione è: massima fiducia nella sanità”.
Il precedente e la mozione di sfiducia
Come già scritto precedentemente, nelle settimane scorse, la polemica era esplosa dopo alcune storie condivise sull’account Instagram di Picchi, nelle quali la sottosegretaria condivideva un video del segretario statunitense alla salute Robert Kennedy in cui viene sostenuto la tesi secondo cui ci sarebbe una correlazione tra il vaccino contro l’epatite B e l’autismo. Da qui, la mozione di sfiducia voluta dall’opposizione e votata con 44 pareri favorevoli e 23 contrari. Nonostante questo, Picchi ha mantenuto comunque l’incarico di sottosegretaria. Per Fontana infatti non sussistono elementi per “procedere alla revoca”.
(da fanpage)
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