CASTA FOREVER: DOPO TANTE CHIACCHIERE E PROMESSE DI TAGLI, TRA PRIVILEGI E BENEFIT E’ TUTTO COME PRIMA
L’INCHIESTA DE “L’ESPRESSO” ESAMINA VOCE PER VOCE I PRESUNTI TAGLI PROPRIO ALLA VIGILIA DELLA RIAPERTURA DELLE CAMERE
Parole, parole, parole. Buone per raccogliere facile consenso e guadagnare qualche titolo di giornale. E non solo per la casta dei politici di professione.
Neppure i tecnici nostrani hanno disdegnato la moda degli annunci quando si è trattato di proclamare una lotta a colpi di scure nei confronti degli sprechi.
Visti i risultati, nell’ideale giro di boa estivo, il refrain della celebre canzone di Mina potrebbe essere l’ideale colonna sonora dell’era Monti. Parole, parole, parole.
Ad aprile “l’Espresso” aveva controllato, promessa dopo promessa, quanto il Parlamento aveva effettivamente tagliato fra stipendi, benefit, pensioni, auto blu e privilegi vari.
Il risultato d’allora era scarso, ma c’era ancora qualche mese davanti.
E così il nostro giornale, alla vigilia della riapertura delle Camere, ha fatto una nuova indagine.
Per capire se davvero gli onorevoli in tempo di crisi e tagli draconiani hanno rispettato le attese dei cittadini.
Il risultato? Nulla di fatto.
Dopo le vacanze agostane Montecitorio e Palazzo Madama riapriranno, senza che a Palazzo sia cambiato nulla.
Che le cose non siano andate tutte per il verso giusto lo ha ammesso implicitamente il commissario straordinario Enrico Bondi, quando ha annunciato che la resa dei conti per sfoltire la spesa pubblica è rimandata a settembre.
Come dire: per il momento godetevi le vacanze.
Certo, qualcosa è stato fatto ma in molti casi, rispetto alle rinunce imposte ai comuni cittadini, si è trattato per lo più di interventi di facciata.
Con esiti a volte involontariamente comici: il Senato (ovvero Schifani), per la spending review interna che dovrebbe fare piazza pulita degli sperperi, aveva pensato di chiamare come consulente l’ex sindaco forzista di Palermo Diego Cammarata.
Chi meglio di lui, responsabile di un buco di bilancio vertiginoso nelle casse del capoluogo siciliano?
MENO PARLAMENTARI, MA SOLO SULLA CARTA
Nella relazione sul rendiconto generale dello Stato, la Corte dei conti l’ha detto chiaramente: gli sforzi finora li hanno fatti soprattutto le famiglie e le classi medio-basse, mentre risultano «mancanti o insufficienti o in ritardo» quegli interventi che avrebbero potuto «in parte compensare i sacrifici», come «una significativa riduzione dei costi della politica».
Costi, stima la Uil, che ormai sfiorano i 24 miliardi di euro: in pratica 772 euro a contribuente. Eppure nemmeno il taglio dei parlamentari, promessa-cardine della politica “pentita” e sbandierata come esempio di buona volontà , è riuscito ad andare in porto con serietà .
Il testo approvato in prima lettura a Palazzo Madama prevede infatti la riduzione da 630 a 508 deputati (otto eletti all’estero) e da 315 a 250 senatori, più altri 21 senatori “regionali” (19 dalle regioni, uno dalle province di Trento e Bolzano).
Peccato che la riduzione non entrerà in vigore in tempo per le prossime elezioni.
L’accordo tra i partiti era fatto ma poi, per assecondare le aspirazioni quirinalizie di Silvio Berlusconi, il Pdl ha fatto saltare il banco.
Con un emendamento ha introdotto l’elezione diretta del Capo dello Stato e insieme alla Lega (in cambio del Senato federale quale contropartita) ha mandato a monte l’intesa faticosamente raggiunta con Pd e Udc.
A nulla è valsa la richiesta del Partito democratico di stralciare quanto meno la parte sulla riduzione del numero degli eletti.
Risultato: il testo, ammesso che riesca a essere approvato in doppia lettura dal Parlamento prima della fine della legislatura, non essendo stato votato a maggioranza qualificata, dovrà essere sottoposto a referendum confermativo prima di entrare in vigore.
Non essendo possibile svolgerlo nel 2013 per la concomitanza delle politiche, il nuovo Parlamento avrà lo stesso numero di eletti di quello attuale.
RIMBORSI DIMEZZATI SOLO DOPO IL CASO LUSI
Non tutto è naufragato però.
Almeno lo scandalo sull’uso disinvolto dei contributi statali della Lega e il caso Lusi sembrano aver sortito effetto.
E così, dopo qualche resistenza iniziale, i partiti hanno accettato un dimezzamento dei fondi: da 182 a 91 milioni l’anno.
Denaro che sarà corrisposto al 70 per cento sotto forma di rimborso (ma sempre a prescindere dalle effettive spese sostenute) e per il restante 30 per cento a titolo di cofinanziamento.
Ovvero, per ogni euro ricevuto da persone fisiche o enti sotto forma di quote associative o donazioni volontarie (necessariamente inferiori a 10 mila euro), i partiti riceveranno 50 centesimi aggiuntivi dallo Stato.
Il sistema però rimane: la Camera ha respinto gli emendamenti di Lega e Idv che chiedevano di abrogare del tutto il finanziamento pubblico.
Non sono mancati comunque scontri e sul controllo dei bilanci è andato in scena il più classico braccio di ferro fra poteri dello Stato.
La prima versione della riforma prevedeva un organismo formato dai presidenti di Consiglio di Stato, Cassazione e Corte dei conti coordinati da quest’ultimo.
Ma il primo presidente della Corte Suprema, Ernesto Lupo, si è opposto, lamentando sostanzialmente di non poter essere coordinato da un “sottoposto”.
Poi a far sentire la propria voce è stata la magistratura contabile, che ha rivendicato la competenza in via esclusiva.
«Decide il Parlamento, i magistrati sono solo gelosi delle loro funzioni», il commento non proprio amorevole del relatore Gianclaudio Bressa (Pd).
Alla fine le verifiche sono state demandate a una commissione ad hoc composta da cinque magistrati designati dai tre organi. Fine delle polemiche.
Con l’entrata in vigore della riforma, nei prossimi due anni il risparmio sarà di 165 milioni, destinati alle popolazioni colpite da terremoti e calamità naturali.
In questo clima di pseudo-morigeratezza, non sono mancati i casi di coscienza: salvato dalla richiesta di arresto spiccata dalla Procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta sui fondi pubblici a “l’Avanti!”, il senatore Sergio De Gregorio ha annunciato l’intenzione di rinunciare alla quota che gli sarebbe spettata per la partecipazione alle regionali in Campania con la sua lista Italiani nel mondo (135.196,49 euro).
Gli eredi della Margherita, dopo il caso Lusi, hanno invece deciso di destinare 5 milioni di euro a 1.200 esodati (cinque mensilità da 800 euro l’una).
E per chi ha a cuore il volontariato e la ricerca, un emendamento approvato durante la spending review consente ai partiti defunti di destinare i rimborsi elettorali al 5 per mille.
A quelli ancora in vita, invece, nel 2012 andranno 22,7 milioni contro i 45,7 previsti.
A ogni modo non avranno di che lamentarsi, visto che per l’anno in corso potranno contare su quasi 50 milioni: alla rata per le elezioni del 2008 vanno infatti aggiunte quelle per il rinnovo del Parlamento europeo (22,6 milioni), dell’Assemblea regionale siciliana (2.057.810,40), dei Consigli regiona-li di Friuli Venezia Giulia (491.805,45), Valle D’Aosta (46.155,15), Abruzzo (455.085,55), Sardegna (662.931) e delle Province autonome di Trento e Bolzano (357.862,95).
Alla faccia dell’austerity.
AGENDINE ADDIO (MA NON DA SUBITO)
Neppure i due rami del Parlamento, indicati come il sancta sanctorum dei privilegi, si sono sottratti ai tagli imperanti.
Ma Camera e Senato sono stati molto indulgenti con loro stessi. Montecitorio ad esempio ha annunciato un risparmio di 150 milioni per i prossimi tre anni: non proprio una privazione, dato che la cifra corrisponde ad appena il 5 per cento del costo generale dell’istituzione.
Fra le rinunce più pesanti, i deputati dovranno dire addio alle eleganti agende in pelle: la gara d’appalto triennale per la fornitura (costo: 335 mila euro l’anno) è stata revocata.
Per abituarsi alla privazione c’è tempo un anno e mezzo: per il 2013 i taccuini, più piccoli, saranno distribuiti gratuitamente in misura minore rispetto al passato, in modo da risparmiare 65 mila euro.
Il resto dovrebbero farlo gli introiti della vendita, ammesso che ci sia chi consideri irrinunciabile una rubrica con il logo di Montecitorio.
«La spesa per il 2013 sarà inferiore a 200 mila euro», ha annunciato il questore anziano Francesco Colucci (Pdl), come se si trattasse di un sacrificio inusitato.
E proprio i questori, nella veste di censori, stanno provvedendo al nuovo clima di austerità , a cominciare dalla carta: dopo le rassegne stampa cartacee (diffuse in copie limitate), una nuova delibera ha esteso il giro di vite anche a bollettini e documenti parlamentari, trasmessi ai gruppi solo in formato elettronico.
Peggio al Senato, dove il presidente Renato Schifani ha annunciato trionfante un bilancio inferiore «di ben 4 milioni in meno rispetto al consuntivo 2011»: 542 milioni anzichè 546. Una riduzione inferiore all’1 per cento, in pratica una spuntatina alle unghie.
Che fra l’altro non interesserà tutti i settori.
Nel 2012, infatti, Palazzo Madama spenderà di più per pagare le pensioni del personale in quiescenza (da 98,8 a 106,8 milioni), i vitalizi agli ex senatori (da 75 a 77,2 milio-ni), il cerimoniale (più 10,7 per cento) e gli studi per ricerche (più 16,7 per cento).
A ogni modo già quest’anno il Senato potrebbe rigirare allo Stato 21 milioni non impiegati. L’impegno per il futuro è di limare ulteriormente i costi, rivedendo i criteri di assegnazione degli appalti.
E ovviamente intervenendo sulle immancabili agendine, che non saranno più regalate ai senatori ma dovranno essere acquistate.
TOGLIETEMI TUTTO MA NON L’AUTISTA
Fra i vari campi d’intervento, la spending review im-pone a tutte le amministrazioni di tagliare del 50 per cento la spesa per le auto blu.
Sebbene la cura dima-grante imposta dal governo inizi a dare qualche frutto, i risultati previsti sono ancora lontani «dal cambio di mentalità » richiesto dal ministro Filippo Patroni Griffi.
E anche se nell’ultimo biennio sono stati risparmiati oltre 200 milioni l’anno, la gestione del parco auto dello Stato ci costa ancora un miliardo e 220 milioni di euro.
Nel primo semestre del 2012 le vetture sono scese a quota 60.551 (erano 64.524 a fine 2011), un dato che fa arretrare l’Italia al secondo posto dietro la Francia, dove sono 63 mila circa.
Più consistente, in proporzione, il calo delle auto blu-blu, quelle cioè in uso a politici ed eletti dei vari livelli, diminuite di quasi un quinto: da 9.721 a 7.837.
Ma di fatto le dismissioni vere e proprie sono state pochissime: appena 582.
Il motivo? Molte amministrazioni si sono limitate a modificare le classifi-cazioni sulle modalità di utilizzo delle autovetture, destinando a servizi operativi senza autista macchine che in precedenza erano assegnate individualmente. Inoltre in periferia qualcuno continua a fare orecchi da mercante, dal momento che la con-trazione riguarda prevalentemente le amministrazioni centrali.
Per non parlare dell’abuso degli autisti.
A livello nazionale, solo una vettura su dieci ne dispone e in Emilia Romagna il rapporto scende fino a una su 40.
Ma il tasso sale man mano che ci si sposta verso Sud: in Campania, Molise e Basilicata, un terzo delle auto blu sono assegnate con chauffeur.
GIÙ LE MANI DALLE PENSIONI D’ORO
Non bisogna provare imbarazzo per la propria ricchezza».
Parola del Guardasigilli Paola Severino (7 milioni di euro dichiarati nel 2010 per la sua attività di avvocato).
Ma in tempi di sacrifici e manovre lacrime e sangue, un aiutino alle casse pubbliche sarebbe lecito attenderselo anche dagli ex servitori dello Stato ormai a riposo che possono contare su lauti assegni mensili.
Ma non tutti sembrano pensarla così. Il deputato Pdl Guido Crosetto, che con un emendamento aveva chiesto al governo di fissare alle pensioni erogate dallo Stato un tetto di 6 mila euro (10 mila in caso di cumulo), è stato costretto al ritiro per le pressioni subite dal governo e dai colleghi onorevoli.
Forse perchè molti esponenti del governo hanno un passato da grand commis (o comunque nel settore pubblico) tale da mettere a repentaglio la loro pensione, percepita o da percepire. Qualche nome?
I ministri Elsa Fornero (anche docente universitaria), Giampaolo De Paola (ammiraglio), Annamaria Cancellieri (prefetto), i sottosegretari Gianfranco Polillo (funzionario della Camera), Antonio Catricalà (magistrato) e perfino il commissario straordinario Enrico Bondi.
Il governo si è impegnato ad affrontare il problema ma finora non ha mosso un dito.
Eppure, secondo alcune stime, un provvedimento simile permetterebbe di risparmiare 2,3 miliardi l’anno alle casse dell’Inpdap, l’Istituto di previdenza dei dipendenti pubblici.
La sensibilità nei confronti dei boiardi di Stato non si ferma qui: l’esecutivo ha previsto che lo stipendio massimo dei manager pubblici non possa superare quello del primo presidente della Cassazione (circa 300 mila euro l’anno), ma per evitare che apparisse una misura troppo “democratica”, ha stabilito che il tetto entrerà in vigore solo dal prossimo contratto.
Non solo.
Il governo ha anche cercato di introdurre un trattamento previdenziale privilegiato, in modo che nella parte calcolata con il metodo retributivo la pensione venisse conteggiata sulla base dei vecchi stipendi, più alti. In uno scatto d’orgoglio (o forse d’invidia) il Parlamento ha però bocciato i tentativi di reintrodurre il provvedimento fra le pieghe del decreto sulle banche.
SETTE VITE PER LE PROVINCE
Sono periodicamente indicate come l’ente più inutile che esista, eppure continuano a risorgere dagli annunci di cancellazione come l’araba fenice.
Da legislature la politica assicura l’intenzione di eliminare le province, senza poi mai giungere a conclusione.
Neppure il governo Monti ha fatto eccezione: era partito con l’idea della soppressione totale, poi ha dovuto ripiegare sull’accorpamento e infine si è dovuto accontentare del “riordino”, fermo restando il principio minimo dei 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati.
Ma non è finita qui. A chi sarà affidato infatti il riordino?
Alle Regioni, tramite i Consigli delle autonomie locali. Il rischio, insomma, è che le province facciano la stessa fine delle licenze dei taxi: anche per le liberalizzazioni l’esecutivo partì lancia in resta, ma davanti alle proteste corporative finì per cedere la competenza ai comuni. Fallendo l’obiettivo.
Il ministro Patroni Griffi ha assicurato che le procedure dovranno concludersi entro ottobre, in modo da giungere al dimezzamento entro fine anno. In caso di melina degli enti locali, il governo procederà per conto proprio. Elezioni anticipate permettendo.
INDISPENSABILI ENTI INUTILI
Presi a simbolo dello spreco italico, oggetto di una crociata (soprattutto mediatica) senza precedenti e nonostante una mezza dozzina di leggi solo nell’ultimo decennio, gli enti inutili sono ancora vivi e vegeti.
A posteriori, anche quella che il centrodestra chiamava con macabro orgoglio “la ghigliottina” (l’abolizione d’ufficio in mancanza di soluzioni alternative più economiche) pare essersi inceppata.
Anzi, non aver funzionato affatto.
Il problema è che non è mai stato possibile realizzare nemmeno una seria ricognizione di questi organismi.
Lo dimostrano i numeri.
Nel 1997 il Tesoro li stimava in 460, dieci anni dopo la Corte dei conti ne ipotizzava 110, fino all’exploit del ministro “semplificatore” Calderoli: l’astronomica cifra di 34 mila nel 2007, dopo pochi mesi ridotti inspiegabilmente a 714.
Proclami, appelli, dichiarazioni: ebbene, lo sapete quanti sono stati gli enti pubblici non economici che sono stati tagliati davvero dal 2002 a oggi?
Appena 37, uno ogni tre mesi.
La radiografia impietosa la fa un report del Servizio controllo parlamentare della Camera, che mette alla berlina la futilità di una politica che si nutre solo di annunci: “Finora tutti gli enti soppressi lo sono stati mediante specifica norma di legge; non risultano casi di soppressione conseguenti ai procedimenti di riordino e soppressione inizialmente previsti dall’originaria normativa taglia-enti, nemmeno a seguito dell’applicazione dell’istituto della ‘ghigliottina’”. Come dire: servono provvedimenti specifici, non basta mettere tutto in un unico calderone. Una situazione kafkiana che porta con sè un paradosso estremo: l’Iged, l’Ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti, in forze alla Ragioneria generale, è in fase di chiusura. Tutte le strutture che avrebbe dovuto sopprimere, invece, sono ancora al loro posto.
Primo Di Nicola e Paolo Fantauzzi
(da “l’Espresso””)
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