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BIDEN VUOLE CANCELLARE L’EREDITA’ DI TRUMP

Gennaio 17th, 2021 Riccardo Fucile

RAFFICA DI DECRETI PREVISTI PER IL GIORNO DELL’INSEDIAMENTO: TRA LE PRIORITA’ CONTENERE EPIDEMIA COVID E LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Cancellare l’eredità  di Trump, proprio come lui aveva fatto a suo tempo con Barack Obama. Anche se Biden dovrà  affrontare i primi giorni senza la gran parte del suo gabinetto, visto che il processo di approvazione delle nomine al Senato non è ancora partito e forse slitterà  anche a causa dell’impeachment, vuole voltare subito pagina.
Lo farà  firmando una serie di decreti — sono una decina in tutto — il giorno stesso del suo insediamento, il 20 gennaio, con l’obiettivo di annullare sin da subito alcuni dei provvedimento più controversi dell’era Trump, ma anche per cercare di arginare la pandemia di Coronavirus che questa settimana ha messo a segno un altro record in negativo, facendo registrare 4.197 decessi in un solo giorno.
Dal muslim ban all’Accordo di Parigi sul clima
Nei primi due giorni alla Casa Bianca Barack Obama aveva vietato la tortura di Stato e chiuso il centro di detenzione per terroristi a Guantà¡namo. Trump invece ha usato le prime ore all’ufficio ovale per smantellare la riforma del sistema sanitario varata da Obama e da Biden. La settimana successiva invece aveva introdotto una serie di restrizioni sull’immigrazione, a partire dal famigerato muslim ban che in nome della lotta al terrorismo sospendeva l’ingresso negli Stati Uniti per cittadini e profughi provenienti prevalentemente da Paesi a maggioranza musulmana.
Per gli immigrati è prevista una sorta di sanatoria che dovrebbe aprire le porte della cittadinanza a ben 11 milioni di persone che sono entrate negli Stati Uniti illegalmente. Biden ha promesso anche che nei suoi primi giorni da presidente ripristinerà  il diritto dei lavoratori di formare un sindacato e avvierà  il processo per riportare gli Stati Uniti negli Accordo di Parigi sul clima, pietra fondante della lotta mondiale al cambiamento climatico. In questo modo verranno ripristinate anche molte delle tutele e regolamentazioni ambientali introdotte da Obama e poi rimosse da Trump, anche se per raggiungere alcuni dei suoi obiettivi più ambiziosi dovrà  per forza passare dal Congresso.
Gran parte dell’attenzione del nuovo Presidente si concentrerà  sul contrasto alla pandemia di Covid. Siccome nemmeno Biden potrà  introdurre l’obbligo di indossare le mascherine in tutti gli Stati Uniti, lo farà  solo per i terreni di proprietà  federale e per il trasporto inter-statale.
Biden ha già  promesso che il suo primo giorno nominerà  un «comandante della catena di approvvigionamento nazionale», una sorta di super-commissario. Entro i primi 100 giorni del suo mandato conta di far vaccinare 100 milioni di americani (attualmente sono state somministrate circa 11 milioni di dosi). Queste misure si vanno a sommare al pacchetto di aiuti, annunciato nei giorni scorsi, per un totale di 1,9 mila miliardi di dollari, di cui circa 400 miliardi verranno utilizzati anche per velocizzare la distribuzione dei vaccini.
Nel frattempo continuano i preparativi per l’insediamento in una Washington sempre più blindata. Il 16 gennaio un uomo di 31 anni è stato arrestato a un checkpoint nei pressi del Campidoglio con un passa non-autorizzato per la cerimonia di insediamento, un fucile e più di 500 colpi. L’Fbi avrebbe già  ricevuto segnalazioni di potenziali “proteste armate” nei pressi dei Campidogli di tutti e 50 gli Stati americani, oltre che a Washington

(da agenzie)

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UNA LEZIONE DALLA GERMANIA: I PARTITI CONTANO ANCORA

Dicembre 1st, 2020 Riccardo Fucile

VERDI E AFD HANNO SVOLTO I LORO CONGRESSI, NELLA CDU APERTA LA SFIDA ALLA PRESIDENZA TRA PASSIONE E PARTECIPAZIONE

Siamo proprio sicuri che oggi i partiti politici abbiano esaurito la loro funzione? Sono davvero soggetti del passato,   superati da nuove forme di partecipazione e rappresentanza? Se mettiamo da parte l’Italia con il suo peculiare laboratorio e diamo uno sguardo intorno a noi, la risposta non è così certa.
In Germania, nel giro di una settimana, si sono tenuti i congressi di due partiti molto diversi tra loro, i Verdi e l’AfD. Diverse le ideologie, diverse le modalità  degli incontri – uno virtuale, l’altro in presenza fisica – diversi i risultati; analoga invece la forza della discussione, la passione per il confronto di idee e tesi, la voglia di trovarsi e di alimentare una dialettica anche vigorosa sulle cose da fare.
Dagli schermi dei video i Verdi hanno discusso a fondo del loro posizionamento nello scenario politico tedesco a meno di un anno dalle prossime elezioni federali. Quaranta anni fa, quando nacquero e poi   entrarono con clamore nel Bundestag (1983) presidiato sino ad allora per decenni da tre soli gruppi parlamentari (democristiani, socialdemocratici e liberali), molti temettero il peggio per la gestione del Parlamento e l’equilibrio del sistema. Da forza di contestazione frontale, con gli anni i Verdi sono diventati partito di riferimento per un’ampia platea di sostenitori — nei sondaggi quasi al 20% – e hanno governato a livello comunale, regionale e nazionale, smussando gli angoli più ideologici e premiando il pragmatismo della responsabilità . I realisti (Realos) hanno la meglio sui fondamentalisti (Fundis).
Oggi, presieduti in tandem da Annalena Baerbock e Robert Habeck, entrambi attratti dalle sfide di governo più che dalla mera testimonianza, si concentrano sulla prossima tornata elettorale. Tra le opzioni, è più verosimile una coalizione con la Cdu che non con Spd e Linke. Dopo un dibattito intenso, l’ala minoritaria si adegua alle scelte della maggioranza su temi qualificanti (ogm, referendum) e il partito ne esce rafforzato, anche con qualche punto a favore dei più intransigenti (riscaldamento globale).
Tutt’altra musica in casa Afd. Al congresso, il presidente Jà¶rg Meuthen attacca a testa bassa la corrente più radicale del partito, che chiude volentieri un occhio sulla contiguità  con gruppi razzisti o di ispirazione neo-nazista. Un incontro originariamente dedicato al tema delle pensioni si trasforma in un durissimo scontro tra le due fazioni, con un forte contrasto tra dirigenti dell’Est movimentisti estremisti anti-sistema e quelli dell’Ovest più inclini all’opposizione parlamentare. Alla fine si impone Meuthen. Ma si rischia la spaccatura, pesano tra l’altro l’inconcludenza programmatica, il nervosismo per il calo di consensi del partito (al 7%) e i controlli discreti dei servizi di sicurezza. Eppure anche qui il partito si ritrova, discute con forza, si lacera e resta la sede principale dello scambio e della ricerca, pur se quasi disperata, di una sintesi e di un’offerta politica.
Non fa eccezione neanche la Cdu, sospinta in alto dalla nuova popolarità  di Angela Merkel e impegnata in una difficile selezione del prossimo presidente del partito. La scelta prevista ora per gennaio è doppiamente rilevante, dato che chi conquisterà  la guida della Cdu sarà  probabilmente, non necessariamente, il candidato alla Cancelleria e dato che il candidato democristiano a capo del governo ha la quasi certezza di ritrovarsi alla Cancelleria dopo le elezioni politiche dell’autunno 2021.
I candidati alla presidenza della Cdu sono tre, Laschet, Merz e Rà¶ttgen, da mesi in aperta competizione tra loro. Per alcuni cultori di soluzioni di compromesso, la vivace lotta tra i tre ha già  superato i livelli di guardia. Per molti altri, invece, sarà  ancora il partito il campo migliore per ospitare e regolamentare la gara, e per assegnare la vittoria con modalità  democratiche e trasparenti. Forse in Germania i partiti stancano meno che altrove.

(da “Huffingtonpost”)

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LA PIU’ VIOLENTA CAMPAGNA CONTRO TRUMP E’ FIRMATA DAI REPUBBLICANI

Luglio 25th, 2020 Riccardo Fucile

COS’E’ IL LINCOLN PROJECT E LO SLOGAN “O TRUMP O L’AMERICA”

O Trump o l’America. Questo è il motto di una delle più violente e dirette campagne di comunicazione che sia mai stata mossa contro un presidente degli Stati Uniti.
Ed è sorprendente il fatto che quelle parole non provengano dagli avversari che tutti ci aspetteremmo, cioè il Partito Democratico e il suo candidato alle presidenziali, Joe Biden. In questa campagna, resa molto animata dalle proteste del movimento Black Lives Matters e dal Coronavirus, il vero nemico di Trump sono gli stessi repubblicani. O almeno quelli riuniti nel Lincoln Project, la cui missione apertamente dichiarata è liberarsi del trumpismo.
Politici, strateghi, esperti di comunicazione politica, giornalisti, ricercatori, esponenti del mondo accademico accomunati da due caratteristiche: sono repubblicani e giudicano il loro attuale presidente un pericolo. Si tratta di una vera e propria azione persecutoria, più che una contro-campagna elettorale sembra di assistere al tentativo di minare la stabilità  psicologica di Trump spingendolo a qualche passo falso sul piano politico e comunicativo. Una continua e costante provocazione che passa per YouTube, i social network e la televisione.
Una strategia di comunicazione diretta, forte, incentrata su un unico obiettivo: indicare come il modus operandi dell’attuale inquilino della Casa Bianca non abbia nulla a che vedere con il mondo e i valori del partito e dimostrare come sia il peggior presidente di sempre per gli Stati Uniti. L’approccio conferma l’intento quasi persecutorio: i video, che hanno la stessa durata media degli spot elettorali, vengono trasmessi esclusivamente nelle città  in cui si trova Trump, nel momento in cui è presente sul posto (in genere Washington nei giorni feriali, Virginia o Florida nei festivi), sui canali televisivi che il presidente segue con maggiore assiduità  e nelle fasce orarie in cui sono in onda le sue trasmissioni preferite.
Sono video su Trump, pensati per Trump. E sono costruiti come attacchi diretti al presidente richiamando quei valori repubblicani di cui non sarebbe più portavoce e infuocando il dibattito intorno a più macroaree, a cominciare dall’emergenza Covid. Pensiamo alle ormai celebri dichiarazioni del presidente sul numero di tamponi: più ne faremo, più casi troveremo. Quelle parole sono state oggetto di uno spot molto crudo del Lincoln Project, in cui Trump è accusato di essere un incosciente.
Viene così lanciato un hashtag diventato poi virale, #AmericaOrTrump. Nulla è lasciato al caso, tutto è studiato nei minimi dettagli. Trump ripete le parole “slow the testing down, please!”, creando una contrapposizione, sul piano sia visivo sia descrittivo, con le immagini che scorrono. La voce narrante racconta le conseguenze del negazionismo trumpiano sulle vite di migliaia di cittadini americani.
Dalla presenza di un nuovo hashtag alla durata da trailer (solo ventiquattro secondi), lo spot successivo comincia con una ripresa su sette sacchi per cadaveri di colore bianco. In sottofondo la voce del presidente Trump mentre, in una conferenza stampa di febbraio, dichiara che i casi di Coronavirus presto sarebbero stati vicini allo zero. Le parole “close to zero” rimbombano diverse volte con la voce che diviene sempre più distorta, mentre l’inquadratura si allarga al punto da rivelare una bandiera americana composta da un numero elevatissimo di sacchi. Le ultime parole sono una sentenza, “100.000 dead Americans. One wrong president”. Lo spot si chiude con il fischio del vento in un sottofondo, quasi a ricordarci un cimitero.
Il medesimo concetto viene ribadito con toni e immagini ancor più forti in un altro spot: il presidente ha ormai costruito il proprio muro, fatto non di mattoni, ma di bare. Anche in questo caso l’atmosfera è spettrale. Non si sentono voci, solo il silenzio tanto assordante quanto eloquente di una strada deserta. Le immagini e il testo che scorrono rendono il video una vera e propria spada di Damocle sulla testa di Trump, un’accusa esplicita di aver lasciato morire 140.000 connazionali.
E ancora, conoscendo quanto Trump sia ossessionato dalla fedeltà  del proprio staff e dei propri familiari, e quanto sia terrorizzato dalle fughe di notizie, uno degli ultimi spot è stato interamente costruito per una sola persona: Trump, appunto. L’obiettivo è chiaro, costruire un pavimento fatto di cristallo pronto a crollare.
E non è da escludere che il rimpiazzo del campaign manager, Brad Pascale, non sia che una prima crepa ben visibile sotto i piedi del presidente. Negli ultimi giorni la quantità  di video e spot ormai virali del Lincoln Project è aumentata notevolmente. Gli attacchi a Trump, così come i toni, sono sempre più feroci, segno di come la partita sia diventata davvero infuocata. I contenuti variano, attingono alla stretta attualità  (si pensi allo spot che rende onore a John Lewis) e ampliano il bacino delle persone prese di mira, attaccando pedine per arrivare, in maniera trasversale, al re.*È difficile prevedere quanto le azioni del Lincoln Project stiano influendo e influiranno sull’esito della campagna elettorale. Una cosa è certa: la risposta dell’inquilino dello Studio Ovale non si è fatta attendere. Ha definito i fondatori del movimento “rinos”, dipingendoli come elitari che pensano ai suoi sostenitori come a esseri deplorevoli. Il punto però è un altro: l’unico a essere definito deplorevole dal Lincoln Project è lo stesso Trump. Nessuna parola contro i suoi sostenitori che restano pur sempre dei repubblicani. Insomma ancora una volta Trump esagera, ed esagerando sembra sbagliare bersaglio.

(da TPI)

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GLI AMERICANI STANNO DALLA PARTE DI CHI PROTESTA E CONTRO TRUMP

Giugno 12th, 2020 Riccardo Fucile

IL 74% SOSTIENE LE PROTESTE E IL 61% DISAPPROVA LA GESTIONE DI TRUMP (PERSINO IL 53% DI CHI VOTA REPUBBLICANO)

La stragrande maggioranza degli americani sta dalla parte di chi protesta per l’uccisione di George Floyd, l’afroamericano ucciso durante un fermo di polizia a Minneapolis, e ritiene che nel Paese vi sia ancora un grosso problema razziale visto le forze di polizia non hanno fatto abbastanza per garantire che i neri siano trattati allo stesso modo dei bianchi.
È quanto emerge da un sondaggio realizzato dalla Schar School per conto del   Washington Post da cui emerge anche la netta contrarietà  degli americani alla gestione di questa vicenda da parte dell’amministrazione di Trump.
Secondo il sondaggio condotto su un campione statistico di circa mille persone raggiunte nel periodo tra il 2 e il 7 giugno, più di 2 americani su 3 (il 69 percento) affermano che l’uccisione di Floyd rappresenta un problema più ampio all’interno delle forze dell’ordine e che vede al centro la questione razziale.
Complessivamente, il 74% degli americani afferma di sostenere le proteste che sono state condotte per la morte di Floyd ma il dato percentuale schizza all’87% tra i democratici e cala al 53% tra i Repubblicani.
Come sottolinea lo stesso quotidiano statunitense, si tratta di un dato in ogni modo nettamente diverso da quello registrato nel 2014 a seguito delle uccisioni da parte della polizia di uomini neri disarmati a Ferguson e New York visto che all’epoca la maggioranza riteneva quegli episodi incidenti isolati.
Rispetto al diffuso sostegno alle proteste, il campione invece si divide e ha opinioni contrastanti alla domanda se le manifestazioni siano state per lo più pacifiche o per lo più violente ma tutti pensano che gli episodi più violenti siano colpa di singoli individui.
La metà  inoltre afferma che la polizia ha gestito la situazione ragionevolmente mentre il 44 per cento afferma che il personale delle forze dell’ordine ha usato troppa forza.
Anche se il sondaggio non ha analizzato le preferenze per le prossime presidenziali, dalle risposte è emerso che il 61% disapprova fortemente il modo in cui il presidente Donald Trump ha gestito le proteste.

(da Fanpage)

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PERCHE’ I MANIFESTANTI USA ABBATTONO ANCHE LA STATUA DI CRISTOFORO COLOMBO

Giugno 11th, 2020 Riccardo Fucile

“BASTA COLONIZZATORI, SCHIAVISTI E ASSASSINI”… NON DIMENTICHIAMO CHE 13 STATI USA HANNO ELIMINATO IL COLUMBUS DAY DAL CALENDARIO, IL TEMA E’ CONTROVERSO E NON SI PUO’ LIQUIDARE COME ATTO DI TEPPISMO

L’omicidio di George Floyd ha riacceso le battaglie di Black lives matter, il movimento nato negli Stati Uniti per la tutela dei diritti degli afroamericani. Nel corso delle proteste, i manifestanti di tutto il mondo hanno iniziato a prendere di mira le statue che rappresenterebbero personaggi legati alla colonizzazione e alla supremazia della razza bianca.
L’esordio di questa iconoclastia del terzo millennio è avvenuto a Bristol: durante una manifestazione in ricordo di Floyd, alcune persone hanno abbattuto la statua di Edward Colston, un mercante di schiavi del XVII secolo.
L’ultima rimozione di una statua, invece, è avvenuto a Minneapolis, la città  del Minnesota dove il 46enne afroamericano è stato ucciso lo scorso 25 maggio. A essere buttata giù, la statua di Cristoforo Colombo.
Se a Colston la storia riconosce il ruolo di schiavista, non è così immediato il collegamento tra l’esploratore italiano che scoprì l’America e il razzismo dilagante oggigiorno.
Prima di Minneapolis era già  successo a Richmond, in Virginia: il monumento al navigatore genovese è stato vandalizzato.
Poi i manifestanti di Black lives matter vi hanno affisso un cartello: «Colombo rappresenta il genocidio». Alla fine delle protesta, la statua è stata gettata in un lago nei pressi del parco.
«Basta colonizzatori, schiavisti e assassini», si legge sulla locandina della manifestazioni di Richmond. Per gli organizzatori della protesta, Colombo è stato «un assassino degli indigeni, responsabile di aver reso mainstream la cultura del genocidio dei nativi».
Le argomentazioni che vedrebbero l’esploratore come un precursore del suprematismo bianco sono, tuttavia, controverse.
Non è recente l’attacco alla figura di Colombo negli States, benchè in molti Stati americani, il 12 ottobre, sia un giorno di festa nazionale, in memoria dello sbarco della sua caravella nell’odierna San Salvador il 1942. Negli scorsi anni, 13 Stati hanno eliminato il Columbus Day dal calendario, sostituendolo una giornata in memoria dei soprusi sofferti dai nativi americani.
Mentre la discussione sulla reinterpretazione moderna dell’uomo che scoprì l’America prosegue a suon di devastazione dei monumenti, la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, ha chiesto di rimuovere tutte le statue dei confederati che si trovano al Congresso.

(da agenzie)

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SALVINI INTERVISTATO DAL NEW YORK TIMES SUL CASO GREGORETTI, IL QUOTIDIANO LO DEFINISCE “ESPERTO DI VITTIMISMO POLITICO”

Febbraio 8th, 2020 Riccardo Fucile

“SALVINI HA RIPRESO DA DOVE BERLUSCONI AVEVA INTERROTTO”

Smessi i panni dell’intellettuale ex di sinistra emiliano con giacca e dolce vita, ora è la volta del travestimento da Trump padano.
E che ha detto? “Vedo le somiglianze di una sinistra che prova a vincere con mezzi giudiziari quello che non può ottenere con mezzi democratici”. Lo ha affermato il leader della Lega, Matteo Salvini, a proposito del caso Gregoretti in un’intervista rilasciata al ‘New York Times’ il giorno dell’assoluzione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per l’articolo 1 dell’impeachment, quello sull’abuso di potere.
Il giornale statunitense evidenzia in un lungo articolo come il prossimo 12 febbraio il Senato si esprimerà  sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini che rischia il processo con l’accusa di sequestro di persona in relazione alla vicenda dei migranti a bordo della nave militare.
“In un altro paese, ciò potrebbe comportare problemi per un politico”, rimarca il Nyt, notando che a poche settimane dalla sconfitta in Emilia Romagna che ha “mandato all’aria il suo tentativo di tornare al potere”, questo voto è per il segretario una “zattera di salvataggio politico” e “non è difficile capire perchè. Il potenziale procedimento giudiziario ha involontariamente riproposto la migrazione come un problema, nonostante solo una manciata di arrivi in Italia”.
“L’immigrazione sicuramente non è un tema che mi preoccupa”, ha sottolineato Salvini durante l’intervista al giornale che lo definisce un “esperto di vittimismo politico”.
Nella denuncia della “persecuzione” dei giudici nei suoi confronti, rimarca il Nyt, “Salvini ha pochi pari” e ha “ripreso da dove Silvio Berlusconi aveva interrotto”.
Ricordando la debacle in Emilia Romagna, il Nyt sostiene che “l’uomo che poche settimane fa aveva tanta fretta di far cadere il governo ora sembra rassegnato al fatto di dover giocare una lunga partita”. Nel parlare del suo possibile ritorno al governo, infatti, Salvini ha esclamato: “Non c’è fretta!”.
Nell’intervista, Salvini ha infine affermato che “probabilmente è stata una visione riduttiva” accomunarlo ad altri leader nazionalisti come Orban e Marine Le Pen, basandosi esclusivamente sulla loro condivisa opposizione all’immigrazione.

(da Globalist)

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LIBIA, L’ACCORDO C’E’ MA SENZA AL SERRAJ E HAFTAR

Gennaio 19th, 2020 Riccardo Fucile

LA CONFERENZA DI BERLINO METTE D’ACCORDO TUTTI I BIG SULLA TREGUA: DA PUTIN A ERDOGAN FINO AGLI USA… MA I DUE RIVALI NON SI ACCODANO E NON SI INCONTRANO, ACCETTANO SOLO IL CESSATE IL FUOCO

Sulla tregua in Libia c’è l’accordo di tutti gli 11 tra paesi e istituzioni comunitarie rappresentate a Berlino. Da Vladimir Putin al turco Erdogan, l’egiziano al Sisi e i rappresentanti degli Emirati arabi uniti, gli Stati uniti rappresentati dal segretario di Stato Mike Pompeo, Francia, Germania, Gran Bretagna, Unione Europea, Algeria, Lega Araba, Unione Africana: nelle 4 ore di conferenza ospitate nella Cancelleria tedesca, nessuno di questi big player alza il dito per dire no alla bozza di conclusioni che parla di tregua e dice no all’opzione militare.
Tutti d’accordo, bozza di sei pagine e 55 punti approvata. Solo non si vedono nè Fayez al Serraj, alleato di Erdogan e premier del governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu, nè Khalifa Haftar, il generale della Cirenaica che nelle sue milizie conta mercenari russi, emirati, egiziani ed è considerato vicino anche a Macron.
Al Serraj e Haftar, i due rivali sul campo, sono a Berlino ma di fatto non siglano la bozza di accordo. Nè si stringono la mano. Non si incontrano nemmeno. Non intervengono a dire la loro in plenaria.
Restano fuori tutto il tempo e rigorosamente in stanze separate. Angela Merkel li incontra prima e dopo la conferenza, sempre in colloqui separati.
E’ la Cancelliera a informarli del fatto che tutti i ‘big’ riuniti a Berlino hanno approvato la bozza di conclusioni. Da loro riesce a ottenere la disponibilità  “per il secondo passo — spiega Merkel in conferenza stampa – cioè creare un comitato militare che possa intervenire” per monitorare il cessate il fuoco in Libia.
Non è poco, ma non basta per essere certi che domani in Libia non si sparerà . La stessa Merkel è cauta, benchè soddisfatta dell’esito della conferenza di Berlino, prova europea in grande stile per recuperare terreno sull’affare libico cercando di sfilarlo alla contesa dei pesi massimi Erdogan e Putin.
“Non abbiamo risolto tutti i problemi”, ammette la Cancelliera. E anche il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov non può che ammettere: è ancora “impossibile” organizzare un dialogo tra le parti in conflitto
Tanto più che il documento approvato a Berlino non parla di “sanzioni a chi viola l’embargo sulle armi alla Libia”, spiega sempre Merkel. “Il documento approvato oggi sarà  adottato al Consiglio di Sicurezza. Abbiamo detto che in caso di violazioni saranno fatti i nomi”.
Però, aggiunge, “credo che oggi sia stata creata la base per poter procedere con il percorso delineato da Salamè”, l’inviato dell’Onu in Libia, presente a Berlino insieme al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.
“Credo che sia un processo molto vincolante. Sono state concordate alcune cose in tempi molto brevi, con controlli serrati, per garantire che si possa giungere a una soluzione politica e a un cessate il fuoco permanente”.
Sulla carta, l’Ue riesce a rimettere l’affare libico sui binari della diplomazia delle Nazioni Unite. Tenta di ‘annacquare’ il potere di Putin e Erdogan in una tela multilaterale che per ora trova l’accordo di tutti e che, è l’argomentazione usata dagli europei con i libici, è la migliore garanzia per una Libia unita.
Riesce a tenere dentro questo schema anche gli Stati Uniti, la cui assenza dallo scenario libico ha agevolato l’entrata in campo di Turchia e Russia. Ma c’è da dire che a Berlino non viene Donald Trump in persona, al contrario di Putin.
Il presidente degli Stati Uniti invia Pompeo, peso massimo dell’amministrazione Usa ma non è il ‘numero uno’. “C’è attenzione da parte americana a coordinarsi con noi e con gli altri soggetti coinvolti e lavorare ai seguiti. Massima attenzione”, assicura Conte che lo ha incontrato.
Alla conferenza di Berlino seguiranno altri incontri, tra cui quello con i libici ospitato dall’Onu a Ginevra a fine mese.
Domani a Bruxelles un consiglio degli Affari Esteri farà  il punto della situazione alla luce dell’accordo raggiunto oggi.
La prospettiva, discussa qui oggi, è di rivedere la composizione del consiglio presidenziale libico, in modo che rappresenti tutte le parti in causa in Libia: non solo Tripoli, ma anche Tobruk.
Sul tavolo c’è anche l’ipotesi di un passo indietro del premier al Serraj, sebbene non ammessa ufficialmente. Lui non la prende benissimo. Non a caso, al suo arrivo a Berlino accusa l’Ue, “arrivata tardi e male” sulla Libia.
Intorno all’ora di pranzo, dopo aver incontrato Guterres e Salamè in un hotel in Friedrichstrasse, vicino alla Cancelleria, Conte la mette così: “Non chiediamo a nessuno degli attori di fare un passo indietro, ma chiediamo decisi passi avanti verso la stabilizzazione e la pacificazione”. E poi si ritira per una chiacchierata di aggiornamento con il ministro Luigi Di Maio, che stamane ha incontrato i suoi omologhi turco Mevlut Cavusoglu ed egiziano Sameh Shoukry.
A Berlino si discute anche dell’invio di una forza di interposizione dell’Onu per il rispetto della tregua, opzione caldeggiata dall’Italia e sulla quale oggi è possibilista anche l’Alto rappresentante Ue per la Politica Estera Josep Borrell, il britannico Boris Johnson.
Ma non è roba che possa essere messa in atto domattina, anche perchè sconta la riluttanza della maggioranza degli Stati membri dell’Unione: a cominciare dai tedeschi per finire ai francesi. E comunque, prima c’è da vedere se la tregua sarà  rispettata.
La decisione sull’invio di una forza di interposizione spetta poi al “consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, dice lo stesso Conte ribadendo la disponibilità  dell’Italia.
Al Serraj e Haftar “non sedevano al tavolo” della conferenza di Berlino e dunque “formalmente non hanno condiviso i 55 punti” della dichiarazione, ma “sono stati costantemente aggiornati e confidiamo che si impegnino anche loro al cessate il fuoco”, sono le parole del presidente del Consiglio italiano.
Ma intanto oggi la conferenza di Berlino non è stata confortata da buone notizie provenienti dalla Libia. Anzi.
Dopo avere bloccato ieri i terminal petroliferi della Sirte, oggi le forze di Haftar hanno fatto interrompere la produzione del più grande campo petrolifero libico, quello di Sharara. Il petrolio resta nel conflitto, a dispetto di tutte le promesse di pace.

(da “Huffingtonpost”)

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PERCHE’ HAFTAR HA LASCIATO MOSCA SENZA FIRMARE IL CESSATE I FUOCO

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

IL DOCUMENTO PROPOSTO IGNORA LE SUE RICHIESTE E LASCIA DELUSI I SUOI SPONSOR

Khalifa Haftar non firma la tregua di Mosca, dice “le nostre richieste non sono state rispettate”. Il generale di Bengasi riprende l’aereo e abbandona (per ora) la Russia di Vladimir Putin. È una notizia ancora da valutare, ascoltando le mille interpretazioni che hanno iniziato a girare già  nella notte a Tripoli e sui media del mondo arabo. Fra le tante ce n’è una particolarmente machiavellica: Haftar non era in grado di firmare velocemente la pace chiesta da Russia e Turchia, perchè i suoi obiettivi non erano stati raggiunti al 100% (e lui vuole quello), ma soprattutto perchè gli obiettivi dei suoi principali burattinai erano falliti. Ma anche alla Russia un breve ritardo fa comodo, per rinviare la conferenza di Berlino.
Veniamo agli sponsor arabi di Haftar, tutti delusi dall’accordo raggiunto fra russi e i loro nemici turchi. L’Egitto, innanzitutto, che in Libia vorrebbe creare una sua succursale economica: con il controllo dell’economia rimasto al governo di Tripoli, i generali del Cairo avrebbero avuto difficoltà  ad allargare le loro attività  economiche a tutta la Libia. L’Egitto di Sisi vuole creare uno stato-vassallo in Libia, guarda alla Libia come un forziere. E metà  Libia non è uguale alla Libia intera.
Poi Arabia Saudita e soprattutto gli Emirati: hanno pagato e armato Haftar perchè combattesse in Libia un governo che ha al suo interno i Fratelli Musulmani. Anche qui: se gli Emirati e i sauditi (i più radicali sono i primi) non raggiungono l’obiettivo di far terra bruciata del governo Serraj, con l’aiuto della Turchia il governo di Tripoli sarebbe diventato il terzo vertice di un triangolo Libia-Turchia-Qatar che le monarchie del Golfo considerano una minaccia mortale.
Lo stesso Haftar cosa aveva promesso? “Libererò Tripoli dalle milizie e dai terroristi che la governano”. Slogan con cui per mesi ha aizzato i suoi soldati e i suoi mercenari. Adesso, al punto 4 del “documento” russo-turco è previsto che Haftar nomini i 5 militari che faranno parte del “Comitato 5+5″ previsto dalla road map delle Nazioni Unite. Quindi i suoi generali devono sedere al tavolo con i capi dei terroristi”.
E intanto Giuseppe Conte in visita al Cairo ha confermato di aver “appena ricevuto” dalla cancelliera Merkel, l’invito per la conferenza di Berlino sulla Libia che “salvo imprevisti si terrà  domenica prossima” 19 gennaio. Ma su questo appuntamento pesa la decisione di Haftar e un suo eventuale rifiuto di partecipare. “Non escludo la possibilità  di inviare militare italiani in Libia”, ha avvertito il premier Conte, che ha però specificato che “non manderemo uno solo dei nostri ragazzi se non in condizioni di sicurezza e con un percorso politico molto chiaro”.
Detto questo, Mosca avrebbe tutti i modi per portare il generale alla firma.
Ma se i russi lo hanno lasciato partire per la Libia, qualcuno avanza questa spiegazione: perchè accelerare un processo e portare il frutto della mediazione russo-turca così velocemente alla conferenza di Berlino organizzata da tedeschi e Onu?
Dare ancora un po’ di tempo ad Haftar, parlare con Emirati, Egitto, Arabia Saudita non farà  altro che permettere alla Russia di consolidare meglio il suo ruolo centrale nella partita della Libia. E in tutto il Medio Oriente.
Vedremo già  nelle prossime ore se questa interpretazione è troppo machiavellica, e se invece Mosca proverà  a imporre velocemente la sua visione al generale. Intanto sulla linea del fronte di Tripoli, a Salaheddin e Ain Zara, i cannoneggiamenti sono già  ripresi.

(da “La Repubblica”)

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BILANCIO DEI 20 ANNI DI PUTIN AL POTERE

Gennaio 13th, 2020 Riccardo Fucile

UN MAESTRO IN POLITICA ESTERA MA UN AMMINISTRATORE SCADENTE

Il nuovo anno segna per Putin una data importante. Rappresenta il ventennale della sua ascesa al potere in Russia. È dunque il momento, secondo molte testate internazionali, di tirare le somme di questi venti anni.
Associated Press, ad esempio, titola Putin weighs future options as he marks 20 years in power (Putin considera le opzioni future mentre celebra i 20 anni al potere), l’Harvard Gazzette invece opta per Analysts discuss the 20-year rule of Vladimir Putin (Gli analisti discutono i 20 anni di governo di Putin).
Infine, Bloomberg sceglie di declinare questo tema in forma interrogativa Putin’s Russia Is 20 Years Old and Stronger Than Ever. Or Is It? (La Russia di Putin compie 20 anni ed è più forte che mai. O no?).
I lati principali di questa discussione sono due:
Relazioni internazionali. Durante il ‘regno’ di Putin, la Russia è tornata a rivestire un ruolo di grande potenza tra le nazioni del mondo. Gli avvenimenti recenti mostrano come le famose parole di Obama secondo cui la Russia è solo una “regional power”, e cioè una potenza regionale e dunque minore, come riportava il Guardian nel 2014, si siano rivelate sbagliate.
Putin ha infatti giocato un ruolo da protagonista assoluto in molti eventi di politica estera. Alcuni esempi dei suoi successi sono l’invasione e poi annessione della Crimea nel 2014 ed il suo recente sostegno ad Assad in Siria, due avvenimenti che dimostrano l’abilità  della Russia di pesare enormemente nello scacchiere internazionale.
Come nota il New York Times la Russia di Putin è capace di fare quello che in inglese si chiama punch above its weight, e cioè di farsi valore anche quando si è relativamente piccoli.
Si noti, ad esempio, che il valore della spesa della Russia in armamenti, 66,3 miliardi di $, non è neppure comparabile con gli Stati Uniti, i quali devolvono alla spesa militare 610 miliardi di $ (dati relativi al 2017 elaborati da Stockholm International Peace Research Institute).
Nonostante questa evidente disparità , Putin è riuscito a posizionare la Russia al centro di moltissime dispute e problemi geopolitici, intervenendo con le sue forze armate.
Secondo i dati elaborati dalla Banca Mondiale, il Pil nominale russo si aggirava nel 2018 attorno ai 1.3 trilioni di $, mentre era all’incirca 259 miliardi di $ nel 2000. Questo dato rappresenta un miglioramento sostanziale nel tempo; ma quando lo stesso dato è messo in prospettiva con gli altri paesi, la fragilità  strutturale della Russia sul piano economico emerge con molta chiarezza.
La Russia, infatti, non rientra nemmeno nella top 10 dei paesi con il Pil più grande del mondo.
Inoltre, dall’invasione dell’Ucraina in avanti è sottoposta a pesanti sanzioni economiche, oltre che l’espulsione dal G7.
Come riportava il New York Times a suo tempo, questi due eventi avrebbero limitato la capacità  della Russia di far crescere la sua economia al pari degli altri paesi industrializzati, previsione rivelatasi largamente corretta.
Per questi motivi, ad oggi la Russia di Putin rimane in paese povero e con grandi sbilanciamenti in ambito economico: l’1% della popolazione controlla oltre il 74% della ricchezza del paese, mentre 1 russo su 8 guadagna meno di 200 $ al mese, come sottolineano The Indipendent e The Times.
In conclusione, durante questi 20 anni al potere Putin si è rivelato un vero e proprio maestro per quanto riguarda la politica estera ma un cattivo amministratore dell’economia russa.
Il che rappresenta un problema non di poco conto per la sua Russia negli anni a venire. Il potere economico, infatti, si traduce quasi automaticamente in effettivo potere sullo scacchiere internazionale, come scrive il famoso storico inglese Paul Kennedy in The Rise and Fall of Great Powers.
Quando la ricchezza e prosperità  economica di paese declina, allora anche il suo status di grande potenza è a rischio. La Russia di Putin, in altre parole, è molto più fragile di quanto si pensi e questo nonostante i suoi evidenti successi in politica estera.

(da “Business Insider“)

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